Il peso di essere giovani
I ragazzi come lo scrittore Guido Giuliano devono smetterla di lamentarsi? O è la generazione dei genitori di Gloria Origgi che deve provare a capirli di più? Un (aspro) confronto tra generazioni
Ho imparato solo una cosa che i francesi, soprattutto la generazione dei miei maestri sessantottini, hanno capito meglio degli italiani: se qualcosa non ti piace, cambialo.
Gloria Origgi
Ho scelto di offrire qualche sfumatura alternativa alla narrazione monocroma che certo giornalismo propina all’opinione pubblica quando prova a definire chi siano, cosa vogliano e come vivano i giovani. Per qualcuno sarà inutile. Per le persone di cui ho scritto non lo è
Guido Giuliano
Buona domenica,
come ormai sapete, una delle cose interessanti - o almeno che io trovo interessanti - di Appunti è che non si tratta di un progetto verticale (io che dico delle cose a voi) ma anche orizzontale, con persone della comunità che si scoprono a vicenda, dialogano, magari litigano.
I pezzi del giovane scrittore Guido Giuliano hanno suscitato molte reazioni, nei commenti e non solo. Ho chiesto alla filosofa Gloria Origgi di elaborare i suoi commenti critici in qualcosa di più articolato di un commento in coda al pezzo, e poi a Guido Giuliano di risponderle.
In generale io sono per discussioni che evitino ogni riferimento personale, basate soltanto sugli argomenti e non su chi è la persona che li avanza. In questo caso ho deciso di pubblicare comunque questo scambio anche se un po’ più aspro e personale di quello che avrei auspicato, perché tutto sommato un confronto-scontro tra generazioni con i toni pacati e neutri di una discussione da terrazza romana sarebbe stato finto, ipocrita.
Invece quelli che Gloria e Guido toccano in questi loro pezzi sono punti sensibili, dolorosi, vitali perché sono quelli che dividono una generazione, per semplificare quella dei boomer, dei genitori, da quella - sempre per semplificare - della GenZ, dei giovani non ancora genitori e spesso non ancora neppure lavoratori.
Far emergere queste fratture, questa diversità di prospettive non ha l’ambizione di arrivare a un minimo comune denominatore o alla reciproca comprensione ma, secondo quanto evocato da molti articoli nella serie sulla politica della rabbia, legittimare il conflitto, definirne un perimetro nel quale il contrasto tra prospettive, idee e biografie diverse può favorire nuove sintesi, che sarebbero impossibili senza conflitti.
Insomma, non vi chiedo di schierarvi, di scegliere tra Gloria e Guido, ma di cogliere quanto c’è di problematico, di sfidante, nei loro interventi. E fateci sapere cosa ne pensate.
C'è poi un tema sottostante, quello degli studi umanistici e delle prospettive occupazionali connesse, del quale mi ero occupato un decennio fa e finendo in una polemica durata letteralmente anni. Ho posizioni più elaborate di allora ma sono contento di non essere io al centro della discussione, ora, e di lasciare il palco a Gloria e Guido.
Buona domenica,
Stefano
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La baldoria degli sconfitti
di Gloria Origgi
Guido Giuliano è un giovane brillante di 23 anni (ha la stessa età di mio figlio maggiore, generazione 2000: la migliore!), che si è laureato in lettere, immagino a pieni voti, con un’importantissima tesi per lo sviluppo del nostro paese sulle “trasposizioni cinematografiche dei drammi shakespeariani”, ha un master in tecniche della narrazione e segue una magistrale in Culture Moderne Comparate (quello che, immagino, nella mia giovinezza, si chiamava semplicemente: “Letteratura Comparata”). Scrive racconti, e collabora, come me che ho 33 anni più di lui, ad Appunti di Stefano Feltri. E si lamenta.
In un articolo pubblicato il 21 agosto su questo Substack e intitolato Adulti a basso budget, Giuliano si lamenta dell’Italia, della gerontofilia del nostro paese (un amico emigrato come me è tornato in Italia dopo la pensione in Francia dicendo che finalmente aveva raggiunto l’età per fare carriera nella nostra penisola), dei disturbi mentali sempre più frequenti nei giovani, della sorella che a trentun anni e tre lauree vive ancora sotto il tetto della casa di famiglia, del declino economico, demografico, culturale, ambientale del nostro paese.
Però, per contrastare questo declino, ha deciso di dedicare i suoi migliori anni alle trasposizioni cinematografiche dei drammi shakespeariani.
Ora, io amo molto Shakespeare, mi sono laureata trentaquattro anni fa in Filosofia, sono scappata dall’Italia perché per avere un posto avrei dovuto “darla via” a mezzo dipartimento abitato da vecchi maschi sfigati per lo più heideggeriani, e dunque sono in totale empatia con le lamentele di Giuliano.
Ma mi chiedo: essendo la situazione quella che Giuliano descrive, non sarebbe meglio che i giovani in Italia cercassero altre aspirazioni, altre carriere, avessero altri sogni?
Perché, come magistralmente detto dal quarantenne Raffaele Alberto Ventura nel suo bellissimo libro Teoria della classe disagiata, avere aspirazioni intellettuali oggi, nell’era dell’intelligenza artificiale che scrive meglio di me e Giuliano messi insieme, nell’era del tardo-capitalismo spietato, del cambiamento climatico che richiede, per combatterlo, nuove competenze scientifiche, della globalizzazione, della geopolitica, non è un po’ snob?
Perché di Shakespeare possiamo anche occuparci la sera quando torniamo a casa, mentre di cambiare questo mondo, questa Italia ignorante, pre-scientifica, religiosa ancora fino al midollo, patriarcale, bisogna occuparsi subito con competenze nuove, con studi scientifici, con coraggio.
L’Italia, caro Guido Giuliano, era così anche quando io avevo ventritré anni, forse con la sola differenza della demografia: ma le assicuro, faceva schifo uguale. Forse peggio: almeno per una donna, per la quale le aspettative sociali erano trovarsi un marito, sposarsi in chiesa e fare dei figli.
Il problema dell’Italia non è la “contingenza” del momento, l’abbassamento demografico, che colpisce tutto il mondo e che forse è un bene per salvare il pianeta, ma la mentalità: quella storia che fare le cose vuol dire “vendersi al sistema”, che lavorare è da stronzi, che “vincere significa accettare” (frase di una canzone di Roberto Vecchioni) che anche se tutto andrà male la mamma sarà sempre lì per voi a lavarvi i calzini e prepararvi la parmigiana.
Ma volete svegliarvi?
Invece di leggere La Stampa o Il Corriere, perché non leggete prima di andare a letto riviste come Nature e Science? Il mondo sta cambiando, ma non solo in peggio: la scoperta dei vaccini per il Covid ha permesso di sviluppare migliaia di nuovi vaccini contro il cancro, che, per la prima volta, diventa una malattia curabile.
Mio figlio studia Neuro-engineering perché vuole cambiare il mondo e perché le applicazioni dell’ingegneria di precisione alle neuroscienze permetteranno di curare praticamente tutte le malattie mentali di cui i suoi colleghi all’università soffrono tra un Otello e un Amleto.
Il mondo sta andando avanti alla velocità della luce, le opportunità esistono dovunque per i privilegiati come lei che hanno un tetto sulla testa, una laurea e un master in tasca e una mamma che lava i calzini.
C’è l’Europa da costruire o ricostruire, ci sono milioni di persone che si spostano per la guerra o per il clima da aiutare, ci sono le crisi energetiche da risolvere, le crisi idriche, che richiedono studi e competenze.
Non so se vivrete meglio dei vostri genitori, ma le assicuro che anche noi abbiamo vissuto peggio dei nostri genitori, protagonisti del boom economico e figli dei “Trenta gloriosi”, come li chiamano in Francia, ossia dei trent’anni, dal Dopoguerra agli anni Ottanta in cui il benessere non ha fatto che aumentare anche grazie a uno Stato sociale e a un welfare inclusivo che ha dato chances a tutti. E non ci lamentiamo.
Perché sì, caro Guido Giuliano, purtroppo, come inevitabilmente scoprirà crescendo, la vita è di una durezza inaudita, e il tempo per dormire non c’è, nemmeno per una povera filosofa come me. Mi dico sempre: quando muoio avrò tempo per riposarmi. Forse è questo che non riusciamo a insegnare ai nostri figli: che tutte le preoccupazioni che hanno a vent’anni non sono nulla se paragonate a quelle che avranno nel futuro.
I sogni ai giovani non li dà nessun governo: bisogna costruirseli da soli. Ma non ci si può aspettare di avere un applauso per aver lavorato su Shakespeare mentre il mondo sta andando a catafascio.
Ho imparato solo una cosa che i francesi, soprattutto la generazione dei miei maestri sessantottini, hanno capito meglio degli italiani: se qualcosa non ti piace, cambialo.
L’unica ricetta per cambiare le cose è fare e oggi ci sono tutti i mezzi e tutti i saperi per poter partecipare al cambiamento.
Se si decide di stare dalla parte di Amleto ad osservare e non agire, poi non si ha il diritto di lamentarsi.
La mia voce inutile
di Guido Giuliano
Le generazioni si guardano torve, si parlano solo per non capirsi, per darsi a vicenda la colpa di crescere infelici e di morire delusi.
Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati
28 agosto 2024
Sono al mare con la mia ragazza e Caligola, il gatto.
Stefano Feltri mi invia una mail in cui dice che, dopo aver ripubblicato nei giorni scorsi in una sorta di “best of” il mio Adulti a basso budget seguito dai due racconti su Giorgio e Claudio, intende far uscire a breve la storia di Cecilia, ancora inedita.
Mi propone poi di rispondere a un intervento critico, giuntogli da parte di un’autrice che collabora ad Appunti, in merito al primo dei quattro pezzi, quell’Adulti a basso budget che era già stato pubblicato oltre un anno fa ed è diventato quasi un prologo ai testi che in forma narrativa raccontano storie vere di alcuni tra i coetanei che ho attorno.
Apro il file allegato alla mail. Chi firma l’intervento è una filosofa italiana che vive e lavora in Francia, giorni addietro aveva già lasciato un commento sotto il medesimo articolo del quale ora è tornata a scrivere.
In quell’occasione si era espressa come se le mie parole denunciassero un unico problema, quello della disoccupazione giovanile, in particolare di chi, come me, ha intrapreso studi umanistici.
Allora le avevo risposto in modo un po’ tranchant, dicendole che la sua esternazione non era pertinente, in quanto faceva riferimento a qualcosa che io non avevo scritto e che lei però aveva voluto leggere, interpretando il testo come autoriferito dopo averlo filtrato attraverso le quattro righe di biografia con le quali venivo presentato a monte.
Non mi stavo lamentando di una condizione che colpisce me in particolare: non avendo ancora finito di studiare, è impossibile che io stessi scrivendo di una mia difficoltà nel collocarmi nel mondo del lavoro in virtù di titoli di studio che non ho ancora conseguito.
Paul Grice, un filosofo che si è occupato di pragmatica, noto soprattutto per le sue massime conversazionali, ci insegna che, perché la comunicazione sia efficace, non si debba essere reticenti né ridondanti, ma sinceri, pertinenti e non ambigui.
È vero che nell’umano conversare il rischio di fraintendimento esiste sempre. Chi scrive sa di andare incontro a questa eventualità, ciononostante il non esser compresi a volte fa passare la voglia di scrivere.
Che qualcuno non sia d’accordo con te e ribatta è una possibilità reale, per quanto non auspicata, ma che ribatta a quanto non hai nemmeno scritto è quel che più manda in bestia.
Scorro quelle due pagine alle quali ora mi è stato chiesto di replicare e rimango un po’ interdetto. Non so se ridere o pensare seriamente di dovermi difendere punto per punto.
Non si tratta di un testo che neghi o muova obiezioni sostanziali ai contenuti del mio scritto.
Anzi, al netto di qualche rivendicazione e della consueta gara a chi stia peggio, o a chi sia stato peggio, che si inscena sovente tra due generazioni, pare accettare come realistico quel quadro generale che avevo provato a delineare quando ancora non immaginavo che qualcuno al di fuori di Stefano Feltri, allora in veste di docente, mi avrebbe letto.
Si tratta invece di un testo in cui una persona adulta e colta, in virtù di una confidenza che si è concessa in modo arbitrario, si permette di svilire il percorso di studi di un ragazzo che non conosce, prendendolo apertamente per il culo, sull’onda di un’irreprimibile bisogno di rimetterlo al suo posto.
Con una strategia retorica sposta il focus da quella che è la vera questione e mi attacca partendo dal mio curriculum con un livore ingiustificato, secondo una fallacia di pertinenza nota come argomentum ad hominem.
Per risponderle sarò costretto a parlare di me.
L’esile filo della sua accusa consiste nel sostenere non già che io scriva cazzate, ma nel fare intendere che sono uno di quei giovani privilegiati a cui la mamma prepara le melanzane alla parmigiana e lava i calzini, un viziato che disprezza chi lavora o ha fatto scelte di vita diverse dalle proprie.
Mi informa del fatto che la vita è dura e che io, poiché, a suo dire, trascorro i miei anni migliori in una turris eburnea trastullandomi con i drammi di Shakespeare e suonando la lira mentre Roma brucia, di questa vita non ne so niente, che sono inutile al progresso del mondo e quindi dovrei stare zitto anche quando dico cose che, in parte, lei stessa condivide.
Zitto, anche quando parlo dei disagi che colpiscono un po’ tutti i miei coetanei e con maggior violenza chi privilegiato non lo è per niente e, a differenza mia, non ha l’opportunità di essere ascoltato.
Avendo come unica arma sempre e solo quelle quattro righe di biografia con cui sono stato presentato, continua a richiamarvisi per tutto il testo sottolineando con spregio le stesse cose.
In questa climax di paternalismo, banalità retoriche e collocazioni ingenue (tetti sopra la testa, lauree in tasca, il mondo che cambia alla velocità della luce…) fa illazioni sul mio voto di laurea, ironizza affermando che sono un giovane “brillante” e che ho scritto “un’importantissima tesi per lo sviluppo del nostro paese”, salvo poi affermare, più avanti nel testo, che, per poter fare carriera, da questo nostro Paese, lei è “scappata” in Francia.
Da filosofa, ridicolizza la scelta dei miei studi, dimenticando forse che un tempo l’università italiana riuniva Lettere e Filosofia in un’unica facoltà. Non la convince nemmeno la dicitura con cui viene indicato oggi il mio attuale corso di laurea, che non è più quella con cui era noto ai suoi tempi, quasi l’avessi cambiata io per darmi un tono.
Tra provocazioni alle quali forse sarebbe più fine io non rispondessi a tono, suggerisce anche da che ora sia lecito dedicarsi alla letteratura, o cosa sia meglio leggere al posto del Corriere e de La Stampa.
Non perde occasione di presentare la figura di un figlio a me coetaneo, un mio doppio virtuoso, che studia neuro-engeneereng, prenderà su di sé tutti i peccati del mondo e ci salverà da quei disturbi mentali di cui, come è noto, soffre solo chi legge Otello o Amleto.
Invoca poi a più riprese il mio nome per intero o citando solo il cognome, quasi lo trovasse assurdo o avesse da ridire anche su quello. “Caro Guido Giuliano”, “caro Guido Giuliano”… e poi ancora “Giuliano”, “Giuliano”, “Giuliano”… Se non altro è scritto correttamente. In genere lo sbagliano. Provo quasi un moto di gratitudine. Forse non mi vuole così male. Quante volte sono stato Giulio Guidano, Giulio Catalano, Giuido, all’estero, talvolta, Giudo e, le uniche due volte in cui sono andato da Starbucks, Weedo o Widow.
A questo proposito, vado a riguardare nella galleria del mio cellulare una foto di diversi anni fa in cui, con un’espressione poco convinta, reggo un bicchiere monouso su cui il mio nome è stato scritto in modo improbabile.
Tanta attenzione nei miei riguardi a tratti, mi lusinga. Nonostante io fatichi ad allontanare da me l’impressione che il suo intento sia quello di mortificarmi, razionalmente capisco che il suo vero bersaglio non possa essere davvero io, bensì una categoria: quella dei giovani che intraprendono studi umanistici o forse quelli che hanno ambizioni letterarie.
In quest’ultimo caso, di che percentuale della popolazione staremo mai parlando?
Il 70 per cento degli italiani fra i 16 e i 65 anni dimostra capacità alfabetiche giudicate insufficienti, in sostanza ha difficoltà nel comprendere un testo scritto e il 60,7 per cento della popolazione sopra i 6 anni non legge neanche un libro nell’arco di dodici mesi, a meno che non vengano adottati metodi coercitivi.
Come si combatte il declino culturale del quale ci stiamo lamentando entrambi? Augurandosi che sempre meno persone studino letteratura, arte, storia? Sperando che sempre meno giovani abbiano snobistiche “aspirazioni intellettuali”, e, anzi, come mi invitava a fare qualcun altro nei commenti sotto ad Adulti a basso budget, la piantino di studiare e vadano a fare un lavoro manuale (che, spero sia superfluo scriverlo, non ritengo meno dignitoso e utile)?
Mentre penso se e cosa valga la pena di risponderle, rileggo l’ultimo articolo che aveva scritto per Appunti. Mi colpisce una frase in cui, parlando proprio delle persone della mia età, scrive:
“La generazione Z l’ha capito: inutile sbattersi per gli standard impossibili che questo mondo globale ci ha imposto, perché l’unica cosa che conta è essere se stessi, accogliere i propri limiti e i propri difetti…”
Mi domando come lei possa conciliare due atteggiamenti che mi paiono agli antipodi. Posso essere me stesso, pur con il tremendo limite e difetto di avere interessi umanistici o devo conformarmi agli standard che qualcuno mi impone? Immagino ritenga che i giovani abbiano diritto ad autodeterminarsi solo su un piano astratto, ipotetico, solo nella retorica di un articolo di costume e a patto che non disturbino lamentandosi.
Altrimenti è sempre pronto un e tu cosa hai fatto per migliorare la situazione? o un non ti stai impegnando abbastanza, che sovente non è mai molto lontano da un tu non sei abbastanza.
Nel testo del suo intervento non manca neanche il canonico: “Ma volete svegliarvi?”, rivolto a un’immaginaria platea di giovani incapaci. Parole che mi ricordano quelle dell’agopunturista di Cecilia.
Adulti a basso budget nasceva proprio per raccontare il disagio emotivo di giovani che non si sentono ascoltati né capiti quando esprimono le proprie preoccupazioni per il futuro, vedendo sminuiti e criticati i loro sentimenti e le loro scelte di vita. E il risultato è che chi si sente in dovere di replicare fa esattamente questo.
Di me e di quello che ho studiato può dire quello che vuole (tanto lo ha già fatto), ma trovo molto triste che una filosofa riduca il valore di una persona al suo curriculum, come farebbe l’HR di una qualsiasi azienda, specie in un contesto in cui si parla anche di salute mentale e non del bilancio di fine anno.
Non è il mio caso, perché sono un privilegiato che non sa niente della vita a cui la mamma fa i calzini alla parmigiana e lava le melanzane -pardon, forse era il contrario- ma di fronte a lei, la prossima volta, potrebbe esserci una persona con delle fragilità, alla quale le sue parole farebbero male.
A ogni modo se a 23 anni qualcuno mi ha dato fiducia e un mio articolo, nato come un’esercitazione all’interno di un corso di giornalismo di opinione, è stato pubblicato, letto da molte più persone di quante potessi immaginare quando l’ho scritto e ha portato a una collaborazione con la stessa persona per la quale anche lei scrive, è in virtù del mio percorso di studi e di ciò che grazie a questo ho imparato.
Se oggi sono in grado di dare una voce al desiderio di redenzione di Giorgio, alla rabbia di Claudio, alla speranza di Cecilia e alle vite non proprio normali di tutti quelli che seguiranno è proprio perché, studiando letteratura - quella robetta infruttuosa cui ci si può dedicare la sera, dopo aver fatto cose più serie - io ho trovato la mia di voce e ho scelto di prestarla agli altri per raccontare quelle storie di cui, in genere, chi è preso da studi più…degni (?) non si occupa o non ha tempo di occuparsi.
Ho scelto di offrire qualche sfumatura alternativa alla narrazione monocroma che certo giornalismo propina all’opinione pubblica quando prova a definire chi siano, cosa vogliano e come vivano i giovani. Per qualcuno sarà inutile. Per le persone di cui ho scritto non lo è. Magari potrà non esserlo anche per chi vorrà leggere di loro con la mente non inquinata da pregiudizi e acide requisitorie gratuite.
Francesca, che aspetta da un pezzo di uscire, mi dice: “Ma dai, chiudi ‘sta roba. Andiamo in spiaggia, per favore. Domani è il nostro ultimo giorno di mare, tra poco ricomincerà la sessione esami e dovrai tornare a studiare quelle tue cazzate inutili, che fanno di te un peso per tutta Italia.”
Ridiamo. Lei ha studiato recitazione, lavora come doppiatrice ed è iscritta al DAMS.
Alzandomi per uscire, stropiccio piano le orecchie di Caligola e gli chiedo: “Ma secondo te cosa dovrei dire a questa signora che, come fosse un terzo genitore, mi ha così a cuore da preoccuparsi tanto del mio percorso di studi?”
Lui mi guarda, socchiude gli occhi e suggerisce: “Marameo.”
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Come rispondere alla politica della rabbia: il dibattito su Appunti
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate.
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Scappano dall'Italia e poi dall'estero si mettono a predicare. Com'è bello vivere così
Articolo duro e un po' spietato ma che mi sento di condividere, nonostante io conosca bene gli attacchi di ansia che sono incominciati più tardi, quando già avevo un lavoro e una famiglia. Credo che l'ansia faccia parte della vita. Siamo in ansia perché non sappiamo bene perché siamo nati e quale sia il nostro posto nel mondo, anche se abbiamo tanta paura della morte. E per dare un senso a tutto ciò ci vuole tanta forza, anche se viviamo da privilegiati e ce lo dimentichiamo troppo spesso. Però sono d'accordo. Bisogna avere il coraggio di reagire a tutto ciò.