Il nostro patriarcato
NESSUNA - La rubrica di Anna Menale per Appunti su donne e questioni di genere: Perché è così difficile parlare di patriarcato in Italia, nonostante l'evidenza?
L’anno scorso, durante un processo per stupro di gruppo in Sardegna, l’avvocata di uno dei ragazzi imputati ha chiesto alla ragazza che ha denunciato la violenza: “Che pantaloni indossava? Perché non ha urlato? Perché non ha usato i denti? Perché non si è divincolata?”
Anna Menale
La parola “patriarcato” ritorna periodicamente nel nostro dibattito pubblico per due motivi: o leggiamo il racconto di un femminicidio, e quindi attivisti e attiviste parlano di patriarcato per evidenziare le dinamiche di un sistema in cui la violenza contro le donne è strutturale, oppure ci si interroga sulla sua esistenza.
Nessuna via di mezzo, ancora nessun dibattito che coinvolga tutti i luoghi in cui si è possibile decostruire la cultura del possesso che alimenta dinamiche di squilibrio di potere dei generi nelle relazioni: famiglie, scuole, mezzi d’informazione.
Nelle settimane scorse, all’evento per presentare una fondazione intitolata alla memoria di Giulia Cecchettin, uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, il ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara ha detto che il patriarcato “come fenomeno giuridico è finito con la famiglia del diritto di famiglia del 1975, che ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia la famiglia fondata sull’eguaglianza”.
Ha poi aggiunto che i femminicidi non sono riconducibili al patriarcato ma ad una “grave immaturità narcisistica del maschio che non sa sopportare i no” e che le violenze sessuali dipendono dall’arrivo di immigrati irregolari.
Una narrazione, l’ultima, sostenuta anche dalla premier Giorgia Meloni, che il 25 novembre (Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne) ha detto all rivista Donna Moderna che “c’è un’incidenza maggiore dei casi di violenza sessuale da parte di persone immigrate”.
Per commentare le dichiarazioni di Valditara e Meloni bisogna rifarsi ad alcuni dati, ma ci tengo a sottolineare che in Italia c’è un problema che riguarda l’aggiornamento dei dati sulla violenza contro le donne e tutte le questioni di genere.
Per esempio, gli ultimi dati aggiornati sull’attuazione della legge 194/78, ovvero la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, risalgono al 2021, tre anni fa, quasi quattro. Ciò non ci permette di analizzare, a livello quantitativo, come dovremmo il fenomeno. La stessa situazione riguarda i dati sulle violenze sessuali.
Le violenze sessuali sommerse
Reperire dei dati precisi sulle violenze sessuali in Italia è complicato, perché, come ha spiegato l’Istat, le violenze sessuali “hanno una dimensione sommersa molto elevata”: c’è una «scarsissima propensione alla denuncia» da parte delle donne, e questo rende difficile fornire una stima quantitativa del fenomeno.
Le donne non denunciano le violenze subite per paura di non essere credute o per lo stigma sociale che persiste. L’anno scorso, durante un processo per stupro di gruppo in Sardegna, l’avvocata di uno dei ragazzi imputati ha chiesto alla ragazza che ha denunciato la violenza: “Che pantaloni indossava? Perché non ha urlato? Perché non ha usato i denti? Perché non si è divincolata?”.
Tutte domande che in un secondo trasformano la vittima in imputata principale, e lasciano intendere che possa essere stato un suo comportamento o il suo modo di vestire a “provocare” la violenza.
Un caso emblematico di pregiudizi di genere applicati in tribunale è presente nel filmato del 1979 di un processo per stupro in seguito alla denuncia di una ragazza di 19 anni violentata da 4 uomini di 40 anni.
“Signori, una violenza carnale può essere interrotta con un morsetto”, afferma nel video l’avvocato degli uomini, ridendo.
“Il coito orale si compie con una prestazione che è tecnicamente qualificata e che esprime una serie di atti voluti”, prosegue, lasciando intendere una compartecipazione della vittima nella violenza subita.
L’idea del “morsetto” che ha accompagnato questo processo è la stessa idea che accompagna ancora oggi il percorso delle donne che denunciano una violenza sessuale subita: provare che non siano state loro a provocarla, provare che abbiano davvero «subito» una violenza e non «partecipato» ad un atto di cui si sono poi pentite.
Tutti pregiudizi patriarcali esistenti ancora oggi, che spingono molte donne a non denunciare le violenze subite.
I dati disponibili
I dati relativi alle violenze sessuali, inclusi gli abusi di gruppo, elaborati dal Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale, mostrano un andamento in costante crescita per queste tipologie di reato nel periodo 2013-2022.
Il dato più rilevante riguarda i maltrattamenti in ambito familiare, che segnano un incremento del 105 per cento nell'arco del decennio. Seguono gli atti persecutori, aumentati del 48 per cento, e le violenze sessuali, che registrano un incremento del 40 per cento, passando da 4.488 casi nel 2013 a 6.291 nel 2022.
La percentuale di donne tra le vittime di questi reati rimane stabile nel decennio: il 75 per cento per gli atti persecutori, l’81 per cento per i maltrattamenti in famiglia e il 91 per cento per le violenze sessuali.
Questi dati ci forniscono la dimensione della violenza, ma non è possibile, ad oggi, quantificare quali uomini commettano di più violenze sessuali, se italiani o stranieri; dunque, mi chiedo a quali dati si riferiscano il ministro Valditara e la premier Meloni.
Su quale base il ministro e la premier commentano le violenze sessuali riconducendole al fenomeno dell’immigrazione clandestina?
A fronte di tutte le notizie che ci arrivano dalla nostra cronaca (i 7 ragazzi coinvolti nello stupro di gruppo a Palermo avvenuto l’anno scorso erano italiani; i due uomini coinvolti nello stupro di due cugine minorenni nel Parco verde di Caivano erano italiani), non ne farei una questione di etnia e non farei così tante differenze tra italiani e non italiani: mi soffermerei sul fenomeno e su che cosa potremmo fare per agire alla radice dello stesso.
Mi soffermerei sul fatto che uomini, italiani e non, in scienza e coscienza, scelgano di agire con violenza.
Se si evitasse il processo di vittimizzazione secondaria ogni volta che una donna denuncia una violenza subita, forse le denunce aumenterebbero, con un conseguente incremento dei dati quantitativi sul fenomeno.
Già disponiamo, però, di dati che evidenziano l'esistenza di una cultura che alimenta questa violenza, anche tra i più giovani, e questo dovrebbe aumentare la consapevolezza di quanto questo fenomeno sia strutturale nella società in cui viviamo.
Adolescenti e abusi
Una nuova indagine condotta tra marzo e giugno 2024 dalla Fondazione Libellula, Survey Teen 2024, che ha coinvolto 1.592 adolescenti tra i 14 e i 19 anni, ha evidenziato che un adolescente su cinque non è in grado di riconoscere gli abusi all’interno di una relazione.
In particolare, un adolescente su cinque considera “nomale” toccare una persona senza il suo consenso; un adolescente su cinque ritiene che sia accettabile baciare il/la partner senza il suo consenso; più di un adolescente su quattro non ritiene sbagliato condividere informazioni inerenti alla sfera intima del/della partner senza il suo consenso; un adolescente su due non ritiene che la gelosia sia una forma di violenza.
Queste dinamiche di potere non si riflettono solo sul piano delle azioni, ma anche sul piano della considerazione che i ragazzi, anche molto giovani, hanno delle ragazze: un ragazzo su due crede che le ragazze abbiano bisogno di un uomo “che le protegga”.
Inoltre, un terzo del campione non ritiene che le limitazioni della libertà personale del proprio partner siano forme di abuso, come dire al/alla partner quali vestiti indossare o chi frequentare.
Sul piano della violenza fisica, l’indagine ha evidenziato che un adolescente su tre ha subito forme di violenza; uno su cinque ha già ricevuto strattoni da parte del partner; più di uno su dieci pugni e schiaffi; una ragazza su quattro ha confessato di aver ricevuto richieste sessuali e attenzioni non gradite.
Un adolescente su quattro ritiene in qualche modo comprensibile reagire con violenza dopo un tradimento. Un ragazzo su quattro ritiene sia “meno grave” se una ragazza picchia un ragazzo. Un adolescente su tre è convinto che sia anche colpa della vittima se vengono diffuse sue foto intime.
Il patriarcato è finito nel 1975?
Per il ministro Valditara, il patriarcato è finito nel 1975, con l’istituzione della “famiglia fondata sull’eguaglianza”.
Se il patriarcato è davvero finito nel 1975, perché soltanto nel 1978 abbiamo avuto una legge per l’interruzione volontaria di gravidanza?
Se il patriarcato è davvero finito nel 1975, perché soltanto nel 1981 sono stati aboliti il delitto d’onore e il matrimonio riparatore dal nostro codice penale?
Perché soltanto nel 2013 sono state aggiunte nel nostro codice penale delle aggravanti (maltrattamento in famiglia e danni commessi in presenza di minori; aggravanti caso di violenza sessuale commessa da coniuge, ecc) in materia di violenza sulle donne?
Perché soltanto nel 2019 il revenge porn — ovvero la condivisione di materiale esplicito o video intimi di una persona senza il suo consenso — è diventato un reato?
Perché tra i giovani italiani ci sono ancora queste convinzioni arcaiche e patriarcali sulle donne?
Perché soltanto nell’ultimo anno la nostra cronaca si è riempita di femminicidi violenti, i cui i protagonisti erano uomini “normali” (Filippo Turetta, femminicida di Giulia Cecchettin; Alessandro Impagantiello, femminicida di Giulia Tramontano)?
Il patriarcato a mio avviso non è mai davvero terminato, ma si è adattato ai tempi in cui viviamo. Ogni epoca ha il suo patriarcato, e ce l’avrà fin quando non cambierà la cultura su cui si fonda la società, tutta.
Se nel 1962 le donne non potevano neanche accedere al concorso per entrare in Magistratura in Italia, oggi le donne guadagnano ancora meno dei propri colleghi uomini, a parità di mansione. È un patriarcato diverso, ma è sempre patriarcato, ed è discriminatorio allo stesso modo.
Il patriarcato contemporaneo è subdolo perché si nasconde in una società che all’apparenza si professa libera da ogni stereotipo e ogni forma di violenza, ma in realtà a livello strutturale è legata agli stessi squilibri di potere tra i generi che impedivano alle donne di affermarsi come individui nella società negli anni Sessanta.
Il patriarcato contemporaneo è talmente radicato nel tessuto sociale in cui viviamo che ci ostiniamo a negare la sua esistenza, perché la riteniamo quasi normale.
La filosofa Juliet Mitchell, nel suo libro La condizione della donna scrive: “Il patriarcato si mantiene come sistema di potere perché è così ben trincerato che non ha quasi bisogno di mostrarsi e proclama la sua irrevocabilità facendo appello al naturale”.
Consiglio la lettura del libro "Il piacere è sacro" di Riane Eisler (https://forumeditrice.it/percorsi/lingua-e-letteratura/all/il-piacere-e-sacro) per una storia dei rapporti sessuali e di potere tra uomini e donne dalla preistoria ad oggi.
Eisler parla di società che hanno erotizzato il dolore e istituzionalizzato il dominio (degli uomini sulle donne, degli uomini sui più deboli; androcrazie) e le contrappone a società in cui predomina la cultura della partnership, dove viene dato valore alle attività di cura e dove le regole sociali promuovono la collaborazione anziché la sopraffazione.
Concordo con quanto letto. Ho ricordi lucidi di quel processo, dell'orgoglio e della dignità di Tina Lagostena Bassi e dell'infima figura fatta dagli avvocati, tutti uomini, per le argomentazioni portate a difesa. È proprio lì che si è capito che cos'è " il muro del patriarcato". Quello che si dovrebbe fare e non si è mai fatto per volere della Democrazia Cristiana prima e delle tre destre poi è l'introduzione nelle scuole, a partire dalla primaria, dell'educazione ai sentimenti e dell'educazione sessuale. Tutte materie volutamente ignorate da un Italia bigotta catto-clericale e guarda caso patriarcale.