Il 7 ottobre e le generazioni perdute
Un anno fa il massacro di Hamas ha innescato una catena di violenze tra persone che non si conoscono più: i cittadini di Gaza, gli israeliani, gli studenti nei campus americani che protestano
Gli israeliani che stanno diventando adulti oggi nelle zone di confine non hanno praticamente avuto nessuna interazione con i palestinesi di Gaza. Li hanno conosciuti soltanto attraverso la guerra. Li vedono come una piaga, come una minaccia, come un mistero su cui è meglio non indagare
Davide Lerner
Buongiorno a tutte e tutti,
come si può commemorare in modo adeguato una giornata come il 7 ottobre? In dodici mesi quel massacro operato da Hamas in Israele è stato assorbito nella narrazione del conflitto locale e globale che costringe a schierarsi, a tifare.
Il 7 ottobre è il momento nel quale la sopravvivenza dello stesso Stato ebraico torna in discussione, la rievocazione dell’ipotesi dell’annientamento di chi aveva cercato rifugio dalla Shoah e dai pogrom europei? O è il momento nel quale esplodono le contraddizioni di una strategia - non soltanto israeliana - della rimozione delle sofferenze palestinesi?
O forse il 7 ottobre verrà ricordato come l’inizio della guerra totale del Medio Oriente, l’innesco di quella reazione israeliana che ha spinto Benjamin Netanyahu a eliminare tutti i nemici, anche al prezzo di causare decine di migliaia di morti tra civili innocenti?
In Italia il 7 ottobre sta diventando un argomento di politica interna, in una forma quasi paradossale di appropriazione culturale di una tragedia: il governo vieta i cortei per timore degli slogan sgraditi e fa manganellare i manifestanti, mentre le telecamere dei cronisti presenti riprendono ragazzi italiani che ripetono slogan non loro e invocano una “intifada” non si sa contro chi (i poliziotti? gli ebrei italiani? gli israeliani?).
Il pezzo di Christian Raimo per Appunti sulla piazza di sabato e le polemiche che l’hanno preceduta e seguita ha generato molte reazioni:
Davide Lerner è sempre uno dei giornalisti che scrive le cose più sensate, equilibrate ed empatiche su quello che sta succedendo. Perché parla di vicende che conosce, e ne parla con la sensibilità di chi le considera parte del proprio percorso personale, ma anche con il distacco del giornalista che le riesce comunque a trattare come una storia da indagare, spiegare, forse chiarire.
Davide ha appena pubblicato un libro importante per Piemme - Il sentiero dei dieci - Una storia fra Israele e Gaza - che condensa questo suo approccio. E in occasione del primo anniversario del 7 ottobre gli ho chiesto di spiegarci questo strano, tragico anno e il libro che ne è derivato.
Buona giornata,
Stefano
Le generazioni della guerra
di Davide Lerner
Quando, nell’autunno 2023, sono arrivato alla Columbia University di New York per frequentare un master in giornalismo, la Striscia di Gaza era un angolo di terra dimenticato.
Per anni il livello di attenzione dei media e dell’opinione pubblica mondiale alla questione israelo-palestinese era andato scemando, consentendo alle cancellerie occidentali di liquidare il conflitto con periodiche professioni di fede sulla necessità di una soluzione a due Stati, mentre lo trattavano, nei fatti, come un tema pronto a essere relegato ai libri di storia.
In questo clima di indifferenza alla Columbia la proposta di dedicare la mia tesi alla questione di Gaza era risultata originale. Consisteva nello scrivere un lungo reportage nello stile di riviste come il New Yorker o The Atlantic sulla base di ricerche e interviste sul campo.
Prima della guerra avevo esposto la mia idea ad Alexander Stille, il coordinatore del master a cui dovevo la borsa di studio per l’ateneo Ivy League più prestigioso della Grande Mela.
«Sono passati quasi vent’anni da quando Israele ed Egitto hanno imposto il blocco economico e militare alla Striscia di Gaza» avevo scritto in una e-mail nemmeno due settimane prima di quel fatidico 7 ottobre. «Il ritiro voluto da Ariel Sharon e la vittoria di Hamas alle elezioni, che hanno portato alla chiusura della Striscia, risalgono rispettivamente al 2005 e al 2006.»
Descrivevo poi alcune conseguenze di questo spartiacque temporale sul piano umano. «Ciò vuol dire che i palestinesi di Gaza nati in quegli anni stanno per diventare maggiorenni avendo conosciuto soltanto un territorio minuscolo e senza aver goduto di alcuna libertà di movimento. A Gaza puoi andare a piedi da est a ovest in un’ora e percorrere la distanza da nord a sud in macchina in 45 minuti. La generazione dei loro genitori ha vissuto un’era di maggiori interscambi fra israeliani e palestinesi, maggiore apertura e libertà negli spostamenti. In molti conoscono l’inglese e l’ebraico, hanno lavorato in Israele e talvolta viaggiato all’estero. Da questo punto di vista si può dire che la dinamica generazionale è invertita rispetto al resto del mondo, dove i giovani tendono a essere più cosmopoliti dei genitori.»
Non avevo dubbi che questa congiuntura storica sarebbe passata inosservata, tanto più in un contesto mediatico ancora dominato dalla guerra in Ucraina. Stille era d’accordo: «Mi sembra un tema importante» aveva risposto. «Puoi passare un paio di settimane lì, e cominciare fin da ora a stabilire contatti con le famiglie locali?»
L’idea era nata dai ricordi delle mie visite a Gaza di qualche anno prima. All’epoca vivevo a Tel Aviv e lavoravo per la versione in inglese del quotidiano Haaretz, dove sono rimasto per circa tre anni. La mia scelta di non richiedere la cittadinanza israeliana, come sarebbe stato mio diritto in quanto ebreo della diaspora in virtù della «legge del ritorno», era malvista dai miei superiori.
Ma dall’altra parte restare «solo» cittadino italiano mi garantiva la possibilità di muovermi liberamente nei territori palestinesi di Cisgiordania e Gaza, dove l’ingresso di israeliani, tanto più se di religione ebraica, è severamente vietato.
Addentrarmi nella Striscia comportava il superamento di tre checkpoint di confine – quello israeliano, quello dell’Autorità palestinese e quello di Hamas –, poi era necessario rinchiudersi in un gabbiotto per un colloquio approfondito con un militante del movimento islamista.
Dopo il valico israeliano di Erez c’era un foglio volante con una freccia e la scritta «Gaza», dopodiché si doveva attraversare una gabbia lunga 800 metri. A tanto era giunta la progressiva separazione fra le popolazioni ai due lati della frontiera, in aumento inesorabile prima e dopo il ritiro israeliano da Gaza e culminata con l’ascesa al potere di Hamas.
La pace della forza
Prima dell’inizio della guerra, alla Columbia avevo già cominciato a raccogliere materiale per il mio reportage. Avevo avviato un dialogo con Yousef Hammash, un giovane di Gaza che, come me, è nato nel febbraio 1992. Solo nel 2022, a 30 anni, aveva lasciato per la prima volta la Striscia di Gaza per un breve viaggio a Londra. Aveva tenuto un diario. Colpiva il modo in cui da adulto guardava il mondo con gli occhi di un bambino. «Un mio amico mi ha portato a fare qualcosa che aspettavo di fare da anni» scrive in un passaggio. «Andare a vedere un film in un cinema.»
Venerdì 6 ottobre 2023 era il giorno in cui la coordinatrice dei progetti di tesi della Columbia doveva dare il via libera definitivo ai viaggi, valutando il livello di rischio delle destinazioni prescelte. Io avevo ricevuto il permesso di recarmi a Gaza. Le ultime parole famose della professoressa incaricata erano state: «Al momento, non è una zona di conflitto attiva».
Negli stessi istanti, a circa 10.000 chilometri di distanza da New York, i militanti di Hamas, del Jihad islamico e di altri gruppi armati palestinesi stavano già caricando le armi per lanciare l’attacco.
Circa dodici ore più tardi, l’invasione del Sud di Israele battezzata “Diluvio di al-Aqsa” era cominciata. Sono note le efferatezze compiute sabato 7 ottobre nei villaggi di frontiera israeliani.
A renderle ancora più macabre c’era la consapevolezza di quello che inevitabilmente sarebbe stato il seguito: una spietata reazione di Tzahal, l’esercito di Israele, a Gaza.
La «pace della forza», cioè la teoria della destra israeliana secondo cui solo la deterrenza può garantire a Israele tranquillità e sicurezza nella regione, era scoppiata in faccia a Netanyahu.
Sul piano personale l’inizio della guerra voleva dire che era naufragato il mio progetto di tesi. Columbia non avrebbe mai autorizzato un viaggio a Gaza in quelle circostanze. E, in ogni caso, Israele aveva sigillato i confini della Striscia.
Mentre cercavo un’alternativa per il mio progetto, mi sono reso conto che la regressione avvenuta fra le diverse generazioni di palestinesi di Gaza nel modo di relazionarsi con il mondo esterno e con i vicini oltre confine aveva conosciuto un riflesso speculare nella parte israeliana della frontiera. Indagare questo tema poteva essere un modo di raccontare la stessa storia, anche se dal punto di vista opposto.
Gli israeliani che stanno diventando adulti oggi nelle zone di confine non hanno praticamente avuto nessuna interazione con i palestinesi di Gaza. Li hanno conosciuti soltanto attraverso la guerra. Li vedono come una piaga, come una minaccia, come un mistero su cui è meglio non indagare.
Nell’ebraico che sono abituati a parlare l’espressione lech leAza («vattene a Gaza») sostituisce il più antico lech laa’zazel («vai all’inferno»). Invece i loro genitori e i loro nonni, nelle comunità vicine alla Striscia, hanno vissuto un’epoca in cui, pur nell’ambito del conflitto e dell’occupazione, mantenevano relazioni personali, a volte anche intense, con i palestinesi di Gaza.
Una realtà di coesistenza imperfetta che però di questi tempi vale la pena – e potrebbe persino essere utile – ricordare.
Il sentiero dei dieci
È così che ho finito per tuffarmi nel racconto di Netiv Ha’asara, cioè «Il sentiero dei dieci», la comunità israeliana più vicina in assoluto alla Striscia di Gaza.
Mi sono fatto raccontare i palestinesi di Gaza da tre generazioni di israeliani che dalla finestra di casa guardano direttamente dentro la Striscia.
Il villaggio, che ho visitato numerose volte per il mio reportage, si è rivelato un punto di osservazione speciale per ripercorrere le tappe del conflitto.
La sua posizione vulnerabile negli anni lo ha esposto in maniera unica agli stravolgimenti geopolitici della storia mediorientale: paradossalmente, il fatto di essere ai margini della geografia del Paese lo ha messo al centro della sua storia. Fino al 7 ottobre scorso, quando è stato uno dei luoghi centrali dell’offensiva di Hamas e delle altre sigle della militanza palestinese.
Subito dopo l’inizio della guerra ho ripreso i contatti con Hila Fenlon, una contadina di Netiv Ha’asara che conoscevo dal 2019. Le ho scritto su WhatsApp: «Hakol be-seder?», «È tutto a posto?». Lei mi ha risposto: «Nulla è a posto, ma siamo vivi». Nel 2024, durante uno dei miei soggiorni in Israele, ho preso parte alle riunioni in cui i residenti riflettevano su cosa fare del loro villaggio all’indomani della strage. Ho incontrato parenti e amici delle vittime costretti a adeguarsi a una nuova vita da sfollati.
Ho raccolto le reazioni e le riflessioni di questa gente di frontiera nel pieno della guerra. Senza risparmiare loro domande scomode sui massacri di civili palestinesi compiuti dall’esercito israeliano nell’operazione «Spade di ferro» a Gaza, il cui obiettivo ufficiale era quello di recuperare gli ostaggi e distruggere Hamas.
“Sceglierò la mia vita”
I residenti delle comunità della regione nota agli israeliani come Otef A’za, che letteralmente significa «fodera di Gaza», nel senso che circonda la Striscia come un involucro, erano una realtà demografica e culturale estranea all’ideologia dominante nel Paese che per anni aveva esasperato il conflitto scegliendo di cancellare i palestinesi dal dibattito pubblico, preferendo ricorrere a una repressione tanto silenziosa quanto inesorabile.
La loro maggiore sensibilità alla questione palestinese è stata tuttavia messa a dura prova dalla strage del 7 ottobre e dalla guerra su scala regionale che ne è scaturita.
Raz Shmilovich, per esempio, a cui dedico un capitolo intitolato “La pazienza è finita”, una volta votava il partito di sinistra Meretz ma oggi giustifica la sanguinosa offensiva israeliana a Gaza, che ha fatto ad oggi oltre 40.000 morti. Mi ha detto, accusando Hamas di farsi scudo con la popolazione civile: «Se tu come padre [palestinese] decidi di mettermi nella condizione di scegliere fra la mia vita e la vita dei tuoi figli, sceglierò la mia vita». Rimane però un peso sulla sua coscienza: «Mi farà piangere di notte, e infatti sto piangendo di notte» ha detto. «Il mio sonno di notte non è buono.» Però, ha concluso: «È il migliore a cui possa aspirare».
Non tutti hanno reagito come Raz. Alfredo Wachs, che ha perso due figli nel massacro, la prima e l’ultima vittima del 7 ottobre nel villaggio, mantiene uno spirito critico verso le politiche di Israele. Al funerale dei suoi figli ha detto: «Prima di criticare gli altri, quello che mi chiedo in generale è: che cosa ho fatto io, che ha provocato o prodotto nell’altra parte questa reazione, per cui mi hanno fatto qualcosa di così atroce?» E ancora: «Dovremmo guardare a noi stessi e a come ci comportiamo nei confronti delle altre comunità, che non ci capiscono.»
Generazioni
Mentre scrivevo la mia tesi mi sono ritrovato al centro delle contestazioni studentesche in solidarietà con Gaza che hanno interessato i campus americani. Un esito per certi versi paradossale. Quando avevo scelto di passare un anno negli Stati Uniti uno dei miei obiettivi era quello di approfondire temi diversi da quello del conflitto mediorientale. Non potevo immaginare che l’università newyorkese stesse per diventare il principale terreno di scontro nel contesto di un rinnovato dibattito mondiale su Israele e Palestina.
La mobilitazione studentesca, iniziata con l’accampamento di protesta alla Columbia per poi diffondersi in tutto il paese, era vista come un sintomo di un nuovo modo di vedere il conflitto delle nuove generazioni americane, confermato dai sondaggi.
Per molti giovani, infatti, Israele non è più lo Stato fragile, rifugio di profughi e sopravvissuti della Shoah, ammirato come tale da genitori e nonni. Quanto, piuttosto, una potenza regionale ricca e arrogante che occupa territori palestinesi, imperversa nei cieli di Libano e Siria, fornisce armamenti e tecnologie a regimi autocratici in giro per il mondo e affronta una grave deflagrazione regionale sotto la guida del governo più estremista e xenofobo della sua storia. Con risultati di una gravità incalcolabile soprattutto per la popolazione di Gaza.
Ecco allora che la chiave di lettura generazionale torna nuovamente utile. E fa sorgere spontanea la domanda: Se in un futuro non troppo lontano gli Stati Uniti dovessero cambiare linea sul Medio Oriente, che cosa può voler dire per il futuro degli equilibri regionali?
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Mi commuove leggere che esistono israeliani che sono consapevoli dei danni compiuti sulla popolazione palestinese da decenni, mi riempie di terrore la consapevolezza che questi israeliani sono una minoranza della minoranza come illustrano tutti i sondaggi fatti in Israele dove oramai la stragrande maggioranza della popolazione vuole lo sterminio totale dei palestinesi e il loro premier genocida li sta accontentando con la complicità e l'appoggio indispensabili di noi occidentali, quelli dei valori universali e dei diritti umani. L'appoggio degli Stati Uniti a Israele non è mai venuto meno in questi 70 anni e non vedo per quale ragione dovrebbe venire meno adesso piuttosto secondo me è interessante chiedersi che possibilità ha Israele di sopravvivere come stato dopo l'inferno che ha scatenato. È evidente a chiunque sia dotato di un minimo di cervello che a causa dell'odio che le uccisioni indiscriminate di civili stanno provocando nei sopravvissuti e il disprezzo covato da tutti gli arabi della regione sarà impossibile sopravvivere in modo decente, credo che la prigione a cielo aperto e a mitra spianati a ogni angolo se la stiano costruendo gli stessi israeliani, ma non è economicamente sostenibile credo vivere in un perenne stato di guerra ( trovo immorale ovviamente che l'unico deterrente possa essere rappresentato dal limite economico ma questi sono i tempi che il predominio statunitense ci ha regalato ), l'attentato dell'altro giorno del cittadino arabo israeliano - non legato ad alcuna organizzazione - a Jaffa è solamente l'antipasto di quello che si prepara
Grazie Lerner. Questo articolo fornisce un differente e più profondo approccio alla situazione degli ultimi vent'anni tra israeliani e palestinesi. I giovani sono le prime vittime di questo conflitto.
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