Fare figli a vent'anni?
PARLARNE TRA AMICI - L’influencer Sofia Viscardi è sempre sembrata una di noi ventenni. Ma lei adesso aspetta un bambino, a 26 anni. E noi cosa vogliamo?
Fare figli non è più un destino, ma una scelta. Senza contare che il tempo per fare figli si è drasticamente ridotto. Tra i venti e i trent’anni non si mette su famiglia, si studia. Ed è anche per questo che il pancione di Sofia Viscardi non può che restare un caso isolato
Sofia Sossai
Era il 2 dicembre quando un post su Instagram ha catturato l’attenzione mia e di amici scatenando un dibattito che avrebbe segnato tutto il mese successivo. Sofia Viscardi, nota content creator, influencer e scrittrice milanese ventiseienne mostra il pancione, incinta al settimo mese.
Una dichiarazione che per le generazioni più vecchie della nostra non vorrà dire nulla, eppure a noi qualcosa ha smosso.
C’è da dire che lei è sempre stata un po’ diversa dalle influencer che condividono sul web ogni secondo della loro vita privata, ha sempre sviluppato contenuti che si sono adattati alla sua persona man mano che cresceva e che potevano poi risultare utili agli altri (era stata la promotrice di un format chiamato Venti in cui insieme ad altri content creator parlava dell’avere vent’anni provando a rispondere a quelle domande che un po’ tutti a quell’età o giù di lì si fanno). Insomma, Sofia Viscardi era sempre sembrata una di noi. E all’improvviso scoprivamo che non lo era affatto.
Quel pomeriggio me lo ricordo: ero a casa di amici a Bologna quando è arrivata la notizia e da subito è stato un profluvio di commenti. Inaspettato. Sorprendente. Per certi versi invidiabile. Una prospettiva insostenibile per la maggior parte di noi.
“Fa strano vedere una nostra coetanea incinta a ventisei anni. Alla sua età staremo ancora ad inseguire lauree, master, dottorati, e chissà cos’altro. Gli influencer possono farlo perché non hanno bisogno di studiare. Chi può permetterselo oggi? Sono solo loro che non devono studiare per guadagnarsi da vivere”. Questo lo dice Nicla, al primo anno di lettere moderne. Ma Elena è di altro avviso: “Anche se fossimo tutti ricchi chi si metterebbe oggi a fare figli? Siamo davvero sicuri che la disponibilità economica sia l’unico freno? Oppure ora vogliamo fare le cose per noi stessi, viaggiare finché siamo giovani, …”.
Oggi il tasso di fertilità in Italia è al minimo storico. 1,24 nascite per donna. Come già ben spiegato nell’articolo Il mistero del calo delle nascite con cui Appunti aveva iniziato l’anno nuovo il fenomeno non è circoscritto all’Italia. La tendenza globale oggi è quella di fare sempre meno figli. Il fatto che il problema si inscriva in un contesto ben più ampio forse spiega anche perché le politiche di sostegno alla natalità (per quanto sacrosante) non possano ovviare a un problema che pare andare ben oltre: pensiamo alla Francia (dove queste sono state introdotte) che ha un tasso di fertilità di 1.79, comunque inferiore alla soglia prevista per la riproduzione, cioè 2,2.
Tempo fa avevo letto un articolo dal titolo “Non facciamo più figli perché stiamo bene” in cui lo storico Andrea Graziosi sosteneva che in una società del benessere come la nostra fare figli e costruirsi una famiglia non è più una priorità.
La Piramide di Maslow è utile per spiegare quella che mi pare una delle spiegazioni più calzanti per la questione: alla base della piramide stanno i bisogni fisiologici senza i quali l’essere umano morirebbe (acqua, cibo, ecc.).
Più si sale più i bisogni si fanno più complessi, eccedono il campo della mera sopravvivenza, arrivando fino all’autorealizzazione. Man mano che i bisogni primari vengono soddisfatti emergono quelli del livello superiore e così via.
Quindi oggi in un contesto di benessere diffuso e in una società avanzata come la nostra i motori di senso dell’esistenza sono altri.
Fare figli non è più un destino, ma una scelta. Senza contare che il tempo per fare figli si è drasticamente ridotto. Tra i venti e i trent’anni non si mette su famiglia, si studia. Ed è anche per questo che il pancione di Sofia Viscardi non può che restare un caso isolato.
A cosa rinunciare
Camilla ha vent’anni, studia scienze della comunicazione a Varese, e ha le idee piuttosto chiare: “Non penso di volere dei figli in futuro perché la vedo come una limitazione. Per quello che voglio fare io nella vita, per le mie passioni, per i miei interessi. Allo stesso tempo non è una cosa che escludo: può essere che a un certo punto della mia vita io mi trovi ad avere questo desiderio, ma dovrei partire da una condizione economica molto stabile”.
Perché, aggiunge, “se si è abbastanza ricchi è possibile conciliare le due cose (aspirazioni personali e famiglia), però secondo me permane lo stesso un aspetto di inconciliabilità perché ti resta addosso un senso di gravezza, di responsabilità per cui se ti dai troppo al lavoro ti senti comunque in colpa di star tralasciando tuo figlio”.
Il pensiero di poter rinunciare a una di queste cose le pesa? “No, perché per me non si tratta di una rinuncia. L’avere figli non deve essere visto come un obbligo imposto dalla società, è una cosa che decido consapevolmente se fare o meno”. Per lei la realizzazione è da trovare prima di tutto sul versante lavorativo. Suo fratello Nicolò, ventitré anni, che invece studia lettere moderne a Bologna dopo una laurea in ingegneria informatica, non è d’accordo del tutto: “E’ la società capitalistica fondata sul lavoro e sui soldi che ti porta a pensarla così. Per me realizzarsi è ben altro”.
E poi lo spiega: “Io non voglio avere figli perché voglio mantenere la mia indipendenza, voglio fare quello che voglio nella vita senza portarmi addosso dei ‘pesi’ che mi impediscono di girare il mondo perché per me questa è la vera realizzazione personale. Io voglio fare tante esperienze e penso che avere dei figli mi limiti in questo”. L’uomo savio del Guicciardini che bada al proprio particulare. Ma non ci sono solo motivazioni egoistiche dietro.
Un altro aspetto da non sottovalutare che entrambi nei loro discorsi ribadiscono più volte è che fare il genitore non significa soltanto generare un figlio e provvedere ai suoi bisogni primari (vedi Maslow).
Le aspettative sul ruolo sono ben più alte.
Bisogna essere certi di essere in grado di offrire le migliori possibilità, “sicuri di garantire una buona educazione innanzitutto. E’ una grande responsabilità. Io per esempio farei imparare due tre lingue ai bambini quando sono piccoli perché il cervello è più malleabile…”.
In più per Nicolò ad essere sbagliato è il concetto stesso di famiglia che impone “legami obbligati tra persone che hanno poco o nulla in comune. Nella mia idea i legami tra persone sono appunto personali, non obbligati”.
Prima la carriera e poi…
Vittoria invece il desiderio di diventare madre lo sente da sempre. “Da che ho ricordi ho sempre detto e voluto avere dei figli ed è una cosa che vedo molto presente nel mio futuro”. Lei studia relazioni internazionali a Gorizia e ora si trova in Congo per un tirocinio in ambasciata. Ha aspirazioni di carriera e spera di riuscire a fare un lavoro che corrisponda a quello che sta studiando e che nel migliore dei casi la porterà in giro parecchio.
La preoccupa questo binomio? Certo, ma siccome entrambi i desideri li sente molto parte di sé, “premettendo che ci sono ancora tutti i ‘se’ del caso, per garantire questa coesistenza bisogna scendere a compromessi. Nella prima fase della mia vita di giovane adulta credo di volermi dedicare totalmente al lavoro, alla carriera. Mi do una tempistica quasi anagrafica: c’è un’età fino alla quale voglio spingermi per fare un certo tipo di carriera e poi spero arrivi un momento in cui mi senta soddisfatta del traguardo raggiunto per potermi dedicare alla famiglia”.
Non significa mollare tutto e fare solo quello, ma cercare la migliore conciliazione tra le due cose “e questo ovviamente presuppone avere una persona al proprio fianco con il quale condividere questo eventuale impegno e che sia disposto a rinunciare parzialmente a determinati aspetti nella stessa misura in cui sarei disposta a farlo io, cosicché rinunciando in due a un po’ meno si evita quella tipica situazione in cui c’è una persona che sacrifica totalmente la propria carriera a dispetto dell’altra che avanza”.
Certo, forse l’idea che aveva da bambina di volere una famiglia numerosa sarà costretta a ridimensionarla. Per riuscire a dare il meglio di sé come figura materna e allo stesso tempo non rinunciare in maniera eccessiva ai traguardi raggiunti potrebbe persino accontentarsi di un figlio solo.
“Qualora mi trovassi nella condizione di diventare madre lo vorrei fare con un’attenzione e una dedizione che va al di là del tempo dedicato (che forse è quello che cozza di più con l'impegno lavorativo), con una qualità e un'attenzione e uno sguardo attento e profondo ai bisogni”. In fondo come dicevano Nicolò e Camilla nella nostra generazione c’è una maggiore consapevolezza che l’impegno genitoriali contempli “tutta una serie di bisogni emotivi, psicologici, economici che sono più profondi di quelli che potevano essere considerati un tempo”.
C’è chi si chiede se valga la pena mettere al mondo dei figli in un mondo come quello di oggi, ma secondo Vittoria “ciascuna generazione avrebbe avuto le sue buone ragioni per essere titubante nel fare questa scelta di genitorialità. Penso che la nostra generazione sia sovraesposta a un continuo bombardamento di notizie anche molto negative, cosa alla quale le generazioni prima non erano sottoposte e non perché non esistessero ma perché c’era meno attenzione, meno consapevolezza”.
Mai come oggi il piano personale è diventato cruciale. Di storie ce ne sarebbero tante altre, a partire dal desiderio di fare figli di coppie omosessuali che biologicamente non possono averli.
A pesare di più sul piatto della bilancia resta comunque la perdita di libertà e della propria indipendenza, perché si mettono in gioco il sacrificio e le rinunce. Ma rifuggirei il classico stereotipo negativo della nostra generazione che ci rappresenta come oziosi, individualisti, e chi ne ha più ne metta.
Dopotutto non avere più otto figli per donna è simbolo di una società sana ed evoluta.
E’ giusto che ognuno abbia la capacità di autodeterminarsi, di interrogarsi sugli effetti di una scelta che ha ricadute anche e soprattutto a livello personale. Allo stesso tempo non può mancare uno sguardo sul lungo periodo e chiedersi: fino a che punto sarà sostenibile ragionare solo su quello che conviene al singolo nell’immediato?
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Sappiamo tutto questo da circa trent’anni.
La nostra generazione ha visto la successiva arrestarsi e guardarsi intorno molto prima che i cosiddetti problemi economici cominciassero a pesare.
Erano gli anni ‘90, quando si cominciava a prendersi anni sabbatici, a realizzarsi nel tempo libero e non nella professione, a costruirsi scalette temporali studiate come una lista di matrimonio.
Infatti è da allora che è iniziato quasi di colpo il crollo della nascite.
Mia moglie ed io eravamo soli nella città che ci ospitava.
Lei, medico brava nel laurearsi presto, fece la prima figlia a 27 anni, poi ne avemmo altri due.
Io, fisico, condivisi con lei tutte le incombenze pratiche.
Facemmo discrete carriere, anche se lei rifiutò di fare il primario quando oramai la famiglia ce lo avrebbe permesso.
Io andai un po’ più avanti, ma comunque continuammo a dividere tutto.
I primi anni, quando mia moglie lavorava in Pronto Soccorso, con turni e notti, non furono facilissimi, ma li ricordiamo quasi romanticamente.
I nostri figli sono un po’ lontani, in termini di scelte, da quelle di molti loro coetanei.
Ad esempio la nostra prima figlia, fisica come me e impegnata nella ricerca, ha avuto la sua prima figlia a 28 anni.
Sono convinto che i problemi principali siano culturali.
Sono una boomer.
I miei figli sono nati quando avevo 26 e 28 anni. Abitavamo in una casa ereditata dai nonni. Mio marito aveva un lavoro stabile come funzionario statale. Io dopo la prima gravidanza ho lasciato il lavoro. Sono laureata e bilingue e avevo esperienza di lavoro con buone referenze. È stata una mia scelta decidere di occuparmi personalmente della cura dei figli nei primi cinque anni. Ero lontana dal mio paese e dalla mia famiglia e quindi ci è mancata la presenza della nonna materna. Ero molto indipendente e auto sufficiente. Confidavo di trovare un altro lavoro al momento opportuno.
Sono favorevole a fare i figli quando si è giovani per motivi fisici e mentali. Ci vogliono ovviamente le basi e la sicurezza economica però in fondo se si è fortunati si possono contenere le spese: niente tate, molto giocare all’aria aperta, solo vestiti essenziali, giochi pochi ma buoni. Era un’altra epoca forse (anni 70). Mi ritengo fortunata. Ho potuto impostare bene i figli nei primi anni fondamentali, sono cresciuti sereni e contenti. Io avevo ancora tanta energia e una bella dose di incoscienza e entusiasmo. Ho poi ripreso a lavorare inizio anni 80 a 35 anni.