E se l'Europa crollasse?
In questa campagna elettorale per le europee si parla poco di Europa e ancor meno di politiche europee. Mentre la Georgia approva una legge "russa" e si allontana da Bruxelles. Pensieri pessimisti
Quanto a lungo può reggere così il modello europeo? E c’è anche la possibilità di una rottura, oltre a quella di un possibile declino?
Roberto Seghetti
Buongiorno a tutte e tutti,
qui in Italia la campagna per le elezioni europee è sempre più italiana - l’argomento del giorno sono le parolacce tra Giorgia Meloni e Vincenzo De Luca - e l’Europa è uno sfondo, un ring dove proiettare le rivalità tra partiti, tra correnti.
Per altri l’Europa è l’unico orizzonte di libertà possibile, così come la Nato è l’unica garanzia di sicurezza, al punto che sia in Georgia che in Ucraina l’adesione all'alleanza atlantica è inserita nella Costituzione.
In Italia alcuni opinionisti e alcuni media accreditano l’idea - analoga a quella diffusa dalla propaganda russa - che interi paesi siano manovrati dall’Occidente, che dietro gli slanci verso l’Unione europea e la Nato di molti paesi dell’Est ci siano soltanto grandi burattinai occidentali.
Chissà come mai, però, a introdurre misure che limitano la libertà democratica e che cercano di impedire all'opinione pubblica di esprimersi sono sempre i partiti o i governi filorussi.
La battaglia per la libertà e la democrazia ha l’Europa come campo di battaglia, possiamo scegliere due approcci: la resa - quella che suggeriscono i cosiddetti pacifisti italiani - o accettare di essere in questa fase storica.
E in questa battaglia siamo tutti chiamati a combattere per il “mondo libero”, questa la sintesi che ripropone Gideon Rachman sul Financial Times al posto della burocratica e ipocrita etichetta di rules based international order, cioè l’ordine internazionale basato sulle regole e non sulla forza bruta (regole che però gli Stati Uniti violano ogni volta che è a loro utile).
Una lunga premessa per arrivare alla notizia che la Georgia ha approvato la sua legge contro gli agenti stranieri, una legge modellata su quella analoga della Russia che è stato uno degli strumenti con cui Vladimir Putin ha soffocato quel che restava nella democrazia russa.
La Georgia è un’altra Ucraina, in piccolo, con 3,7 milioni di abitanti invece che 43 milioni (ora gli ucraini in patria sono scesi a 37 milioni). Come l’Ucraina ha un pezzo di territorio occupato dalla Russia fin dall’invasione del 2008, tollerata e poi dimenticata dalla comunità internazionale.
Assieme a Kiev è candidata a entrare nell’Unione europea entro il 2030, anche se è un Paese che rimane solo parzialmente democratico, corrotto, e incerto sul piano dei diritti. Proprio come l’Ucraina, la Georgia ha messo in Costituzione le sue aspirazioni europee e all’ingresso nella Nato.
La Georgia assomiglia non tanto all’Ucraina di oggi ma a quella che nel 2014 ha rovesciato con proteste pro Europa e pro Occidente il governo manovrato da Mosca dell’allora presidente Viktor Yanukovich.
Era la rivolta di piazza Maidan, a Kiev, che ha spinto l’Ucraina fuori dalla sfera d'influenza russa e ha innescato la serie di eventi che hanno poi spinto Vladimir Putin a invadere prima la Crimea nel 2014 e poi il resto del paese nel 2022.
Oggi la Georgia sembra a un bivio simile. Chi comanda è il presidente onorario del partito Sogno georgiano, il miliardario Bidzina Ivanishvili spesso paragonato a Donald Trump: è stato premier solo per un breve periodo tra 2012 e 2013, ma potrebbe tornarci con le elezioni di ottobre e comunque è a lui che risponde il primo partito del Paese, i parlamentari e il premier Irakli Kobakhidze.
Già nel 2023 il governo a guida Sogno georgiano aveva provato a introdurre una legge contro gli «agenti stranieri» analoga a quella della Russia del 2012 e a misure più recenti dell’Ungheria di Viktor Orbàn che hanno tutte lo scopo di neutralizzare le organizzazioni della società civile e ridurre l’influenza dell’Unione europea e dell’Occidente. Così da spingere di nuovo il Paese nell’orbita russa.
Nei paesi dell’area ex sovietica, con Stati fragili e risorse scarse, le attività delle organizzazioni non governative di matrice occidentale sono parte fondamentale della vita pubblica, dalle università alla difesa dei diritti umani.
Dopo l’approvazione della legge, tutti i georgiani che lavorano o hanno lavorato per soggetti stranieri sarebbero guardati - e trattati - come potenziali nemici.
Un anno fa le proteste di piazza avevano spinto il governo a ritirare la proposta, oggi invece Sogno georgiano e l’oligarca Ivanishvili hanno cercato uno scontro con le piazze piene di bandiere europee che è in diretto contrasto con l’inizio del percorso di adesione all’Ue iniziato lo scorso dicembre.
La scommessa di Ivanishvili è che l’Europa sia troppo impegnata con la guerra in Ucraina e le elezioni della prossima settimana per preoccuparsi anche di quello che succede a Tbilisi, quando troverà il tempo - dopo l’insediamento dei nuovi vertici della Commissione - Sogno georgiano si sarà già assicurato un potere ancora maggiore di quello che detiene oggi.
La presidente della Georgia Salome Zourabishvili ha già messo il veto sulla legge, che però il parlamento poteva superare. E così ha fatto.
La posta in gioco è il rapporto della Georgia con l’Occidente, ma anche la capacità dell’Unione europea di agire come forza che esporta in modo pacifico diritti e prosperità nel suo vicinato. E questa sembra già compromessa. Sulla base delle dichiarazioni dell’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell, la legge sugli agenti stranieri mette a rischio il suo percorso di adesione all’Unione.
Per qualcuno è una buona notizia, perché c’è anche molto scetticismo sulla capacità dell’Ue di assorbire paesi politicamente incandescenti come la Georgia o addirittura in guerra come l’Ucraina.
Ma se in questo momento l’Ue e l’Occidente perde capacità attrattiva, questo significa che i paesi che si allontanano dall’orbita europea finiscono in quella russo-cinese. Il “mondo libero” ha non soltanto il diritto ma anche il dovere - visti i valori universali che professa - di non restare indifferente.
Oggi su questi temi vi propongo un pezzo - pessimista - di Roberto Seghetti, giornalista esperto di economia che già avete letto sulle tasse (qui sotto il suo articolo dove presenta il suo libro, Le tasse sono utili)
E’ il primo di una serie di articoli a tema elezioni europee e futuro dell’Ue che pubblicheremo su Appunti nei prossimi giorni.
Buona lettura,
Stefano
E se l’Europa crolasse?
di Roberto Seghetti
Le fondamenta sociali ed economiche del progetto europeo sono state gettate dopo la Seconda Guerra Mondiale e poggiano su due pilastri: il rifiuto assoluto della guerra e la scelta per una forma di capitalismo mitigato dall’attenzione alla giustizia sociale e con l’offerta di servizi pubblici volti a garantire una qualità minima della vita per tutti i cittadini, anche i meno fortunati.
Nei primi decenni dopo la guerra, ogni paese dell’Europa occidentale ha declinato a modo suo questi temi, prevedendo forme più o meno estese di intervento statale nell’economia e nella società (da scuola e sanità fino alla proprietà di industrie e banche). Ne è scaturito un modello con caratteristiche comuni diverso dal comunismo sovietico ma anche dal capitalismo Nordamericano.
Dopo la caduta del muro di Berlino e il collasso delle società comuniste, è cominciata una fase di ri-allargamento geografico e culturale dell’Europa verso Est e di inclusione nel progetto comune di alcune delle nuove formazioni statuali.
Nello stesso tempo, però, la sconfitta del comunismo e la crescente egemonia del capitalismo nella versione più liberista ha indotto anche gli europei ad adeguarsi, pur senza rinunciare alle proprie particolarità.
Oggi quella che è diventata l’Unione europea a 27 si trova tuttavia a dover fare i conti con una condizione nuova, quasi impensabile prima, e a diverse debolezze diventate evidenti tutte insieme nel volgere di uno strettissimo lasso di tempo.
Quale sia la condizione impensabile è chiaro: una guerra di aggressione da parte di una potenza nucleare di primo piano, la Russia, nei confronti di uno dei paesi che rientrano nei confini geografici del continente, l’Ucraina. Cosa ben diversa dalla guerra civile nei Balcani degli anni Novanta, durante la quale gli europei sono intervenuti militarmente insieme ad altri paesi Onu e Nato per frenare i paesi belligeranti.
L’irrompere di questa cruda novità ci ha colto di sorpresa, ci ha impaurito (diciamo la verità), dura da due anni, produce morti, distruzione, oltre ad aver reso indispensabili cambiamenti importanti delle nostre vite, basti pensare al costo dell’energia.
Proprio in coincidenza con questa novità drammatica, noi europei, orgogliosi delle nostre democrazie e della forza delle nostre economie, abbiamo scoperto di essere invece in seria difficoltà nel confronto con concorrenti potenti e agguerriti, più veloci, spesso più giovani, voraci, in molti casi caratterizzati anche da sistemi politici di stampo non democratico, basti pensare alla Cina e alla Russia.
Come sonnambuli risvegliati all’improvviso, stiamo constatando con sgomento che siamo ancora relativamente ricchi, ma invecchiati, marginali, lenti, perfino deboli. Tanto più che il centro di gravità del mondo si è spostato verso l’area del Pacifico e che la stessa la forza di attrazione ideale della vecchia Europa sta scemando, come dimostrano l’uscita del Regno Unito e, più di recente, l’attrazione rinnovata della Russia nei confronti di diversi territori orientali, a cominciare dall’Ungheria di Orban.
I continui e ripetuti tagli alla spesa sanitaria, alla scuola, all’assistenza hanno spinto verso un punto di crisi i sistemi sociali che prima rappresentavano un elemento di orgoglio.
La sfiducia nella democrazia
Questa ritirata ha prodotto un’ondata di sfiducia nella democrazia in masse crescenti di persone in difficoltà, sempre più attirate dall’idea che per risolvere i loro problemi basterebbe scegliere leader abbastanza forti da battere tutti coloro, a cominciare dai più ricchi, che nel gioco della democrazia finiscono sempre vincitori.
Le procedure democratiche all’interno dell’Unione sono farraginose, pensate per un mondo pacificato ma inadatte alle decisioni veloci in una fase di inquietudine e di cambiamenti profondi: le regole dell’Unione stentano a tenere insieme gli interessi contrastanti dei diversi paesi mentre abbiamo davanti a noi sfide che fanno tremare i polsi e che richiederebbero impegno comune, come l’inverno demografico, il cambiamento climatico, la transizione energetica e quella tecnologica con la già incipiente rivoluzione dell’intelligenza artificiale generativa, i nuovi impegni per migliorare una difesa comune non più garantita solo dall’ombrello Usa.
Tutti questi problemi implicano la necessità di progetti complessi, di scelte difficili da condividere e, soprattutto, la possibilità di raccogliere enormi quantità di fondi pubblici da investire e una altrettanto efficiente capacità di farlo.
Usa, Cina, India stanno già investendo somme astronomiche per garantirsi uno spazio nel mondo nuovo che già si intravede.
Da noi invece ciascun paese ci mette un po’ del suo (briciole in confronto alle necessità), cerca di attirare aziende avanzate a scapito degli altri partner (vedi i settori dei chip e dell’automotive), mentre l’Ue stenta a fare veramente massa comune. La verità è che solo la paura della pandemia e i morti l’hanno spinta a reagire. Ma quella finestra sembra già richiusa, anche se sono rimasti i fondi del Pnrr ancora da investire.
Pace e Stato sociale sono diventati due pilastri traballanti, la ricchezza accumulata lenisce i problemi del presente, ma non garantisce il futuro; i legami commerciali non hanno impedito il ricorso alla guerra come speravamo, i nostri sistemi decisionali sono troppo lenti e i singoli interessi nazionali frenano ogni scelta necessaria e urgente per restare in campo nella serie A del mondo.
Da qui la domanda dettata dal pessimismo della ragione: quanto a lungo può reggere così il modello europeo? E c’è anche la possibilità di una rottura, oltre a quella di un possibile declino?
Sembra una domanda azzardata, ma non lo è. Per una ragione semplice: noi europei dei paesi occidentali continuiamo a pensarci come se il nostro mondo fosse quello di prima, come se fossimo una corazzata inaffondabile; come se la nostra cultura fosse un faro ad attrazione assoluta per tutti; ma siamo solo vecchie glorie che non credono al tramonto, come se le nuove sfide potessero solo lambirci, come se gli Stati nazionali potessero continuare a garantirci lo status del passato. Purtroppo non è così.
La realtà ci suggerisce che, se non cambiamo in modo radicale e in tempi rapidi, rischiamo di essere travolti. Non è detto che basti l’euro a tenerci insieme per sempre e nemmeno il mercato comune. Dobbiamo andare oltre: banche, finanza, fisco, difesa, intelligence, ordine pubblico, e non solo.
Se non mettiamo tutto a sistema, mantenere il modello che abbiamo progettato e in parte vissuto è un sogno. Gli stati nazionali, per quanto forti, non riusciranno a frenare le spinte alla disgregazione. Resteremo nani a confronto con i giganti. E perderemo anche lo stato sociale che abbiamo costruito fin qui.
Dopo oltre 40 anni di tagli alle spese sociali, in non pochi paesi dell’Unione europea i sistemi di welfare sono arrivati ad un punto critico: andare oltre, cioè cercare di trovare i fondi per rispondere alle nuove sfide con altri risparmi del genere, significherebbe intaccare in modo finale il welfare europeo e, insieme, i fondamenti ideali del nostro mondo. Pensate, per esempio, al significato che avrebbe uno scambio tra minori spese per la sanità e maggiori investimenti in armi, in vista di una difesa comune europea, che pure appare necessaria.
Come reagire
Che fare, allora? Ci vuole l’ottimismo della volontà per avviare una nuova fase e muovere i primi, difficili passi nelle politiche concrete.
Due decisioni a titolo di esempio. La prima riguarda un tema su cui si dibatte da anni con alterne vicende: irrobustire il collocamento di debito comune, cioè raccogliere fondi sui mercati, fidando sulla forza e sulla ricchezza ancora imponenti dei nostri paesi messi insieme. Lo abbiamo cominciato a fare tardi rispetto a ciò che sarebbe stato necessario e stentiamo ad andare avanti.
Attenzione però: è troppo diffusa l’idea che basti questo passaggio per risolvere ogni problema. La dimensione delle necessità finanziarie che abbiamo di fronte non può essere soddisfatta dalla sola scelta, pur importante, del debito comune. Pensarlo fa comodo e fa sembrare tutto più semplice, ma non è così.
In realtà, sarebbero indispensabili anche molte altre iniziative. Una di queste – ecco la seconda decisione a titolo di esempio – sarebbe quella di andare verso un’armonizzazione dei sistemi di tassazione dei paesi che compongono l’Ue; un passo difficilissimo, per fare il quale ci vorrebbero il coraggio politico e la lungimiranza che spinsero i nostri padri a progettare l’Europa della pace e dei diritti quando sembrava impossibile anche il solo pensarlo.
Oggi infatti i contribuenti più ricchi, le più importanti aziende del mondo o anche solo i contribuenti più attrezzati, possono tranquillamente eludere i prelievi fiscali contando sulle legislazioni favorevoli dei singoli paesi. In altre parole, le norme dei singoli partner Ue consentono comode vie di fuga proprio a coloro che dovrebbero dare il contributo più importante per affrontare le sfide del futuro senza smontare l’Europa solidale.
In questo spazio economico che ci intestardiamo a definire “unico”, ma che unico non è, esistono troppe zone franche, opache e di vantaggio, oltre ad enormi differenze di aliquote nelle tassazioni societarie, dei redditi, dei consumi.
Pensare che quello che chiamiamo mercato unico possa restare tale senza superare questo scoglio, sia pure gradualmente, è una pia illusione. Qualche progresso è stato compiuto.
Basti pensare alla delibera Ue sulla global minimum tax per le multinazionali (nata peraltro su spinta Usa). Ma non basta. Bisogna fare molto di più.
Non si capisce perché, tanto per fare un esempio, l’Ue non consideri gli sconti fiscali e le norme societarie che rendono alcuni paesi zone franche con lo stesso rigore con il quale viene giudicato “il trasferimento di risorse pubbliche a favore di alcune imprese o produzioni”: se dai soldi è aiuto di Stato e vieni sanzionato per concorrenza scorretta; se invece tagli le tasse (fai la stessa cosa con un altro strumento) non lo è. C’è ideologia in questa visione distorta.
Difficile? Senza dubbio, tanto più che resterebbero ben attivi gli altri paradisi fiscali al di fuori dell’Ue. Ma siamo al limite: la concorrenza fiscale a gogò è una bomba a orologeria piazzata sotto al mercato unico: già se ne sente il ticchettio.
O abbiamo il coraggio di affrontare l’indicibile, l’unità vera, con tutte le opportunità e gli eventuali fastidi che ne derivano, o il progetto europeo rischia di avviarsi verso un triste tramonto.
In queste condizioni, nessuno può escludere anche il rischio di una vera e propria rottura, come ci suggerisce già da qualche anno l’impensabile (prima che avvenisse) Brexit.
È scritto nel clima di guerra che ci ha risucchiato, volenti o nolenti. È scritto nell’anarchica abbondanza di paradisi fiscali, societari e normativi creati in Europa. È scritto nella crisi dei sistemi di welfare e nella crescente sfiducia nella democrazia. È scritto nella forza dei giganti che ci circondano e con i quali dobbiamo fare i conti. È scritto nello spostamento del baricentro verso il Pacifico e nella rinnovata attrazione russa verso molti paesi dell’Est Europa.
È scritto nelle innumerevoli forme di concorrenza interna che fanno assomigliare noi europei ai polli che si beccano bellicosi, mentre Renzo Tramaglino li tiene insieme a testa in giù, stringendone le zampe nella mano per portarli in dono all’avvocato Azzeccacarbugli.
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L’evento: Geopolitica delle elezioni europee
Tornano i giovedì di geopolitica organizzati dall’Institute for European Policymaking, dal Grand Continent e da Egea. Vi aspettiamo domani, 30 maggio, a Milano alla libreria Egea di viale Bligny, alle ore 18.
L’evento è in presenza e in streaming, potete iscrivervi qui
A pochi giorni dalle elezioni europee dell’8 e 9 giugno, in questo nuovo appuntamento dei dibattiti di geopolitica promossi dall’Institute for European policymaking at Bocconi e dalla rivista Il Grand Continent si discuterà delle ripercussioni globali di un voto cruciale.
Il risultato del voto può avere impatti geopolitici significativi, perché sarà decisivo per determinare sia la tenuta interna dell’Unione, che la sua capacità di intervento sui fronti più caldi, dalla guerra della Russia in Ucraina alla competizione tecnologica su intelligenza artificiale e non solo. Con il possibile ritorno di Donald Trump sullo sfondo.
Speaker:
Marco Bassini, Università di Tilburg
Andrea Colli, Università Bocconi e IEP@BU
Maurizio Ferrera, Università di Milano
Mara Morini, Università di Genova
Beda Romano, Il Sole 24 Ore
Moderatore:
Stefano Feltri
Le analisi dell’Institute for European Policymaking
E’ arrivato il momento di tagliare i tassi di interesse per le banche centrali? E di quanto? Ignazio Angeloni consiglia di muoversi con grande prudenza, soprattutto la Bce.
Appunti e Dieci Rivoluzioni: il libro e l’abbonamento omaggio
Visto che in questa fase non riesco a fare molta della tradizionale promozione del libro - tra festival, tv, radio ecc - per gli impegni di lavoro e familiari, vorrei tentare un esperimento, legato alla comunità di Appunti.
Se gli influencer si appellano alla loro comunità per vendere i loro libri, o altra oggettistica, non posso farlo anche io?
Ho pensato questa formula, che - come direbbero gli aridi economisti - allinea tutti i nostri incentivi:
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Mi piacerebbe fare questo esperimento “economico” questa settimana per raccontare poi i risultati già al Salone, ma la cosa resta attiva per tutto il mese di maggio.
Qui c’è Salvatore Ciccarello
Il Podcast: La Confessione
Ascolta La Confessione, il podcast di inchiesta che rivela per la prima volta da dentro come funziona il sistema di copertura e insabbiamento degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica italiana.
Un podcast realizzato da Stefano Feltri, Giorgio Meletti e Federica Tourn, realizzato grazie al sostegno della comunità di Appunti. Con la collaborazione di Carmelo Rosa e la consulenza per musiche ed effetti di Stefano Tumiati.
L'improvvisa rapidità del manifestarsi della guerra ci ha costretti ad aprire gli occhi sulla realtà poco incoraggiante che Seghetti descrive . In Italia il senso comune ancora rifiuta di adattarsi alle nuove situazioni che si prospettano . La vita viene vissuta su piani paralleli ( politica, società, vita privata) che non riescono ad integrarsi. Ne deriva un senso di smarrimento poco utile per individuare direzioni che portino a soluzioni equiibrate dei problemi in atto. Nell'immediato voglio sperare che le elezioni europee possano dare qualche risposta. Ma forse chiedo troppo...
E' pacifico che la fiscalità non può essere unificata a livello europeo in quanto è il modo con cui si esplica la cultura e la visione futura di un paese. Unificarla sarebbe un percorso più lungo e tortuoso che unificare la moneta e la conseguenza sarebbe che si perderebbero i vantaggi dell'unione europea a favore di un sistema standardizzato per tutti che non tiene conto delle esigenze dei più deboli e dei più forti.
L'Italia da sempre è contro le quote latte, la Bolkestein, la transizione ecologica, senza la fiscalità sarebbe ridotta ad eseguire le imposizioni di altri paesi europei senza avere possibilità di incidere al tavolo di lavoro.