Ci servono governi più forti?
L'imprenditore Nicola Drago rilancia il premierato che "non è di destra" anche se piace alla destra. Il caos francese però invita a una certa cautela. Dibattito
Chi ricorda una riforma determinante realizzata da un governo politico? Chi ricorda una serie coerente di posizioni mantenute e di decisioni prese da un esecutivo in un certo campo? In pratica, chi ricorda un miglioramento nella propria vita portato dall’azione di governo?
Nicola Drago
Buon pomeriggio a tutte e tutti,
credo che il caos nel quale è sprofondata la Francia da un lato - una Repubblica presidenziale - e la palude nella quale si dibatte stancamente la Germania - una Repubblica parlamentare e federale - riaprano una discussione che in Italia emerge spesso nei momenti di crisi: il problema sono i governi troppo forti o quelli troppo deboli?
Un tema che è al centro dell’azione dell’esperienza di governo di Giorgia Meloni: la destra al potere voleva un presidenzialismo, ora propone un premierato, combinato però con una redistribuzione dei poteri alle regioni attraverso l’autonomia differenziata (che è stata in gran parte fermata dalla Corte Costituzionale.
Trovate qui sotto un intervento che ben condensa argomenti molto diffusi nella classe dirigente in favore di un governo forte e di un premierato, lo firma Nicola Drago, figura interessante di imprenditore e manager attivo nella vita pubblica senza cercare un incarico elettivo.
Sotto c’è una mia risposta.
E voi cosa ne pensate?
grazie,
Stefano Feltri
Ps: Per chi passa da PIù libri, Più liberi, ci vediamo alle 17.30 al terzo piano della Nuvola per un evento live del podcast Revolution di Rai-Radio3!
Perché il premierato
di Nicola Drago
Nicola Drago, classe 1978, è amministratore delegato di De Agostini Editore, azienda di famiglia di cui negli ultimi dieci anni ha curato il salvataggio e il rilancio, ottenendo il premio EY L’Imprenditore dell’Anno 2021. Ha fondato ioCambio, un movimento civico che ha lo scopo di modernizzare e rilanciare il Paese attraverso la promozione delle riforme istituzionali, a cui verranno devoluti i proventi di questo libro. Nicola collabora con diverse iniziative no-profit come Ubuntu Pathways, Opes Fund e Fondazione De Agostini.
Ho voluto scrivere il libro Il premierato non è di destra, appena uscito per Utet, perché penso che ci sia una storia non detta sull’origine di molti dei problemi che affliggono l’Italia.
Mi riferisco ai mali cronici del nostro paese, come la miseria delle prospettive per i giovani, la sanità pubblica non degna, le scuole insufficienti, l’evasione fiscale, la malagiustizia, i salari che non crescono, il debito pubblico incontenibile; tutti problemi di notevole impatto sulle nostre vite. Ma penso anche a temi apparentemente minori, come quelli relativi ai taxi o alle concessioni ai balneari.
Hanno tutti una radice comune: la debolezza, l’inconsistenza e la caducità dei nostri governi. In Italia abbiamo avuto 68 governi in 77 anni di Repubblica: la durata media è di tredici mesi.
Mentre in altri Paesi i governi nascono per durare e per governare, per realizzare un programma di riforme, per risolvere problemi, per prendere decisioni che migliorano la vita dei cittadini, qui da noi i governi spesso nascono per vivacchiare, ostaggio di maggioranze parlamentari litigiose e mutevoli, intrappolati dai veti e dalle logiche di consenso di breve periodo, perché le elezioni sono sempre dietro l’angolo. Difficile pensare come siffatti esecutivi possano avere il tempo, l’incentivo e la forza per affrontare e risolvere problemi così cronici e stratificati nei decenni.
Questo provoca grandi conseguenze sulle nostre vite, molto più vaste di quanto non siamo portati a pensare.
Chi ricorda una riforma determinante realizzata da un governo politico? Chi ricorda una serie coerente di posizioni mantenute e di decisioni prese da un esecutivo in un certo campo? In pratica, chi ricorda un miglioramento nella propria vita portato dall’azione di governo?
E la cosa più inquietante è che tutto ciò non suscita più nemmeno l’indignazione degli elettori: solo stanchezza, e assenteismo da quello che a molti appare ormai come lo sterile rituale dei seggi elettorali.
I politici, di qualunque schieramento, hanno sempre un alibi, dicono cose come “non mi hanno lasciato governare”, o “sono vittima dei veti dei miei alleati o dell’opposizione”, “avevo un ottimo programma ma non mi hanno permesso di portarlo a termine”.
In pratica, non sono responsabilizzati per l’ottenimento di alcun risultato tangibile per le nostre vite. Una politica così debole e inconsistente è scadente per definizione e non potrà mai fare il lavoro profondo, lungo e difficile che serve per risolvere i problemi cronici elencati sopra. Da ciò deriva il declino del nostro paese su tutti i parametri chiave.
La “storia non detta”, che racconto nel libro, è che la causa dell’instabilità e dell’inconsistenza dei governi italiani, e quindi del declino, è la nostra forma di governo, il parlamentarismo “estremo”, che non a caso non esiste in nessun altro paese al mondo. Per affrontare il problema alla radice è quindi necessario mettere in discussione il nostro assetto istituzionale, scelto consapevolmente dai padri costituenti nel ’47-’48 per scongiurare altre derive autoritarie dopo la tragedia fascista e tenere lontano lo spettro di una guerra civile.
Non a caso, numerosi costituzionalisti, politici, presidenti della Repubblica e intellettuali, negli scorsi decenni hanno sostenuto l’esigenza di riformare le istituzioni del paese e dare vita a governi più solidi e duraturi.
Oggi, tuttavia, chiunque osi parlare di premierato come antidoto ai nostri mali viene accusato di fiancheggiare la deriva post-fascista del governo Meloni.
Ma in pochi ricordano che fu la sinistra, per decenni, a raccomandare la stessa soluzione: con D’Alema ai tempi della bicamerale e poi con l’Ulivo di Prodi e Veltroni. Anche nei mesi scorsi il presidente della Corte Costituzionale, Augusto Barbera (che è stato deputato nelle fila della sinistra per oltre vent’anni - Partito comunista prima e Pds poi) ha deciso di superare la riservatezza istituzionale normalmente imposta dalla sua carica di tutore ultimo della Costituzione per chiarire che rivedere la forma di governo – con l’introduzione, ad esempio, del premierato - non solo è legittimo ma è necessario. Ecco perché, nella sostanza, il premierato è una riforma più condivisa dalle forze politiche di quanto esse stesse non ci vogliono far credere.
Cambiare la forma di governo, sempre che lo si faccia bene, correggendo le lacune dell’attuale proposta della maggioranza, permetterebbe di aggiustare l’Italia. Questo verbo, “aggiustare”, lo sento molto vicino: sono un imprenditore e mi sono dedicato negli ultimi dieci anni al salvataggio e al rilancio dell’azienda della mia famiglia, la De Agostini Editore.
Non ho mai fatto politica, e alcuni anni fa, dopo avere studiato il tema con alcuni costituzionalisti, ho fondato ioCambio, associazione apartitica e indipendente che ha lo scopo di agevolare la realizzazione delle riforme istituzionali.
Esiste un singolo cambiamento che, se realizzato bene, con equilibrio e spirito democratico, può generare la più rilevante trasformazione del nostro paese da ottant’anni a questa parte: il superamento del parlamentarismo e l’aggiornamento della nostra forma di governo.
Perché il premierato no
di Stefano Feltri
C’è un argomento contro il premierato che io trovo molto convincente, specie perché avanzato da quello che è stato il premier con maggiore margine d’azione della storia recente: Mario Monti, a capo di un governo tecnico tra 2011 e 2012 che, almeno per qualche mese, poteva letteralmente fare tutto quello che voleva e il Parlamento lo avrebbe votato sotto la pressione dei mercati.
Dice Monti - e lo ha ribadito in questi giorni a Otto e mezzo - che le scelte drastiche che hanno salvato l’Italia dalla bancarotta sono state possibili non da un governo accentratore e impositivo, ma dal largo consenso che si era formato in Parlamento a sostegno di quel governo.
Il decreto Salva Italia di fine 2011 è passato perché i partiti erano spaventati dallo spread, non perché il governo aveva la forza di imporlo. Tutte le grandi svolte, politicamente impegnative e talvolta traumatiche, in Italia si sono sempre realizzate con un consenso trasversale che coinvolgeva partiti di maggioranza e di opposizione.
Il potenziale trasformativo delle larghe intese era ed è tale che in alcune occasioni - sequestro Moro nel 1978 - è stato fermato e neutralizzato da misure estreme come sequestri, omicidi, tentativi di colpo di Stato.
I governi forti in Italia non hanno mai ottenuto risultati significativi in termini di grandi riforme e cambi di fase, da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi a Giorgia Meloni. Colpa del troppo potere del Parlamento?
In questi giorni abbiamo un contro esempio, la Francia di Emmanuel Macron: una Repubblica presidenziale, con un capo dello Stato che può - sulla base della Costituzione - imporre le proprie decisioni al Parlamento, almeno per qualche tempo. Risultato: il caos.
La polarizzazione della politica francese viene esasperata - e non contenuta - dal sistema presidenziale che priva i partiti di un arbitro terzo, fuori dalla contesa, che può costruire soluzioni creative di compromesso, come è il caso del presidente della Repubblica italiano.
La riforma del premierato voluta dalla destra di Meloni vorrebbe importare alcune di quelle rigidità in Italia: limiti alla possibilità di costruire maggioranze alternative, niente governi tecnici, ecc. Una limitazione dei poteri del presidente della Repubblica a beneficio del capo del governo che però renderebbe la democrazia italiana meno resiliente e più rigida, pronta a spezzarsi in ogni momento.
E’ una scorciatoia cognitiva pensare che i problemi dell’Italia derivino dal Parlamento e che basta ridurne il ruolo per fare finalmente le riforme che qualcuno - la classe dirigente, le varie corporazioni, l’Unione europea - considera necessarie.
La democrazia è faticosa, le scorciatoie sono allettanti ma spesso si rivelano pericolose e quasi sempre poco efficaci.
Caro Feltri, stavo per lasciare un commento scortese e anche un poco incazzato subito dopo aver letto il testo del dr. Drago, poi ho letto la sua risposta e i commenti già arrivati e mi sono rappacificato. Credo che siano risposte più che sufficienti. Resta un po' di amaro nel constatare che c'è ancora chi fa della propria smemoratezza ("chi ricorda una riforma determinante realizzata da un governo politico?... In pratica (sic!) chi ricorda un miglioramento nella propria vita portato dall'azione di governo?") un vanto e ci rifila rifila la tiritera dei 68 governi in 77 anni di Repubblica? Come se, appunto riforme come il divorzio o il sistema sanitario nazionale, lo statuto dei lavoratori - e mi fermo qui, non fossero state realizzate proprio mentre questi governi si succedevano! (Oh mioddio!, non sarà mica perché c'era un parlamento funzionante?? Non sarà mica perché proprio in quanto le cose si discutevano in Parlamento che andavano a buon fine?) Drago vede oggi (oggi?) un eccesso di parlamentarismo! ma dove? Semmai assistiamo ad un suo annichilimento nel voto allineato. Quello che non ricorda il giovane Drago, non per questo non è accaduto; quello che considera male cronico, può considerarlo tale solo se ritiene che la repubblica sia stata fondata nell'anno della sua nascita. Negli anni 60-70 usciva in Italia una rivista, "Quaderni Piacentini", in cui una bravissima critica letteraria, Grazia Cherchi, teneva una rubrica "Libri da leggere e da non leggere". Non sono un critico letterario e soprattutto sono un nessuno, ma penso che il libro del signor Drago possa essere ben posizionato nello scaffale della seconda categoria. E non ha alcun senso discutere se il premierato sia di destra o di sinistra (altro mantra di moda in questi tempi).Scusandomi per lo sfogo.
Nel corso di una trasmissione radiofonica il professor Sabino Cassese è intervenuto in difesa della riforma della Costituzione, che l’attuale maggioranza di centro destra intende far approvare per introdurre nel nostro ordinamento costituzionale il cosiddetto premierato, che a suo giudizio garantirebbe la presenza della stessa faccia per almeno cinque anni nelle riunioni condominiali alle quali l’Italia partecipa con la rappresentanza del presidente del consiglio, alias premier, consentendo, quindi, un maggior ascolto delle nostre posizioni ed esigenze. È paradossale che questo argomento sia avanzato nello stesso momento in cui agli incontri internazionali, spiritosamente chiamati condominiali, si presenta la stessa faccia, quella di Giorgia Meloni, destinata a riproporsi per almeno un triennio ancora. È paradossale, perché, a Costituzione vigente, si sta ottenendo lo stesso risultato che si afferma si potrebbe conseguire solo grazie all’anzidetta riforma costituzionale. A me pare evidente, invece, che una solida coalizione, grazie a una legge elettorale adeguata, sia in grado di assicurare, come in effetti è avvenuto con questa che non si può definire un’ottima legge elettorale, la stabilità del governo per la durata di un’intera legislatura. Conosco l’obiezione: con la riforma non sarebbe consentito far cadere il governo e farne nascere uno nuovo con una maggioranza alternativa, se non una volta sola, con la stessa maggioranza e con un nuovo capo del governo, che però non è stato eletto direttamente. Non mi pare gran cosa, a prescindere dal fatto che sembra contraddittorio affermare che i cittadini devono poter contare sul fatto che il presidente da loro votato governerà per cinque anni, quando si rende possibile che un parlamentare qualsiasi, sia pure della stessa maggioranza, possa sostituire il premier eletto a furor di popolo. Se la coalizione non è stabile e coesa, è meglio o andare a nuove elezioni o formare un nuovo governo con un’altra maggioranza, in nome della democrazia e dell’uguale valore che deve essere attribuito al voto di tutti i cittadini. Con il premierato, infatti, si corre il rischio di attribuire la maggioranza dei parlamentari a un partito, risultato magari minoritario nelle votazioni, grazie al trascinamento ottenuto con la vittoria del presidente neoeletto candidato in quel partito. Si attribuirebbe ai cittadini elettori del partito del presidente un valore superiore a quello degli elettori degli altri partiti. Il loro voto peserebbe diversamente, e sinceramente ciò non è democratico. La nostra Costituzione contiene meccanismi di compensazione della debolezza dei governi anche per superare lo stallo determinato dal disaccordo delle forze politiche e ne abbiamo avuto prova con gli ultimi due presidenti, che hanno comunque agito nel rispetto delle regole della democrazia, perché ogni governo anche tecnico, anche formato da non parlamentari ha sempre ottenuto la fiducia del Parlamento. Non è poi vero che non ci si ricorda di “riforme determinanti realizzate da un governo politico” o una serie coerente di posizioni mantenute e di decisioni prese da un esecutivo in un certo campo”. Il primo governo Prodi varò una serie di riforme legislative che hanno migliorato l’assetto del nostro paese e importanti riforme furono varate nel secondo dopoguerra dai molti ministeri che si sono susseguiti da Alcide De Gasperi ad Aldo Moro. Le riforme non si introducono tutte in una volta ma si implementano da una legislazione all’altra con un lavoro condiviso tra Governo e Parlamento. Il dilemma non è tra presidenzialismo/premierato vs parlamentarismo ma tra politiche di sviluppo e piccolo cabotaggio: non è detto che il premierato assicuri quelle ed eviti questo.