Vite che sono la mia: Claudio
VITE CHE SONO LA MIA - La rubrica dello scrittore Guido Giuliano che racconta le ferite esposte eppure invisibili di una generazione giovane e tormentata
Quando il mondo non risponde alle tue domande, quando non riesci a credere in Dio, nello Stato, né in Freud, perché chi avrebbe dovuto raccontarti queste cose non ne è stato capace, allora trovi le tue riposte come puoi
Guido Giuliano
Buon Sabato,
Oggi torna finalmente la rubrica di Guido Giuliano: Vite che sono la mia. Guido è un giovane scrittore che ho conosciuto alla scuola Holden un anno fa, alla prima edizione del mio corso sul giornalismo di opinione.
In questa serie, Guido racconta - appunto - vite che sono la sua. Cioè storie di una generazione che è imprigionata in un costante storytelling social ma che soffre una mancanza di narrazione, che viene vista ovunque ma non ascoltata.
Quelli di Guido non sono editoriali o analisi sociologiche, sono racconti, lunghi, sofferti, che dimostrano come anche per capire l’attualità, per scoprire vite ed esperienze che ci sono molto prossime, a volte sia necessario introdurre il filtro della letteratura.
Sono estremamente grato a Guido per condividere questo suo lavoro con la comunità di Appunti.
Questo pezzo si inserisce in un percorso che Guido sta facendo qui su Appunti, e nel quale ci porta.
Un percorso iniziato con il suo primo pezzo, Adulti a basso budget e proseguito con il primo racconto della serie, Giorgio.
Prendetevi il tempo, questo weekend, per leggere con calma il racconto di Claudio. Poi fateci sapere cosa ne pensate nei commenti.
Buon Sabato,
Stefano
Chi è Guido Giuliano
Sono nato a Torino nel 2000. Mi sono laureato in Lettere con una tesi sulle trasposizioni cinematografiche dei drammi shakespeariani e ho conseguito un master in tecniche della narrazione presso la Scuola Holden. Frequento il corso di laurea magistrale in Culture Moderne Comparate. Quando non basta scriverlo, lo disegno, lo fotografo o lo filmo.
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Vite che sono la mia: Claudio
di Guido Giuliano
Domenica 6 novembre 2022
Il semaforo diventa rosso. Intravedo l’ingresso del pronto soccorso sul controviale dal lato opposto. Faccio prima a piedi.
“Mi lasci pure qui, grazie.” Pago e scendo dal taxi.
Passo tra le ambulanze parcheggiate. Oltre la porta a vetri scorrevole, ronzio di neon impietosi e pavimenti in linoleum, sui quali scivolano ruote di barelle, bloccandosi e saltando di lato quando inciampano nei solchi scavati dalle ruote di chissà quante altre barelle prima di loro.
Solo stamattina, quando ho rimesso in carica il cellulare, ho visto le chiamate e i messaggi arrivati mentre dormivo.
Il primo è delle sei e mezza. Giorgio mi aveva scritto:
“È successa una cosa brutta a Claudio. Siamo in giro per ospedali da ore.”
Seguiva un monologo a spezzoni in cui ogni messaggio successivo precisava e mi aggiornava rispetto ai precedenti.
6:34 - “Lo hanno aggredito in strada. Mi aveva appena lasciato sotto casa quando è successo.”
6:35 - “In questo momento lo stanno visitando di nuovo.”
6:40 - “È dentro da tanto tempo, ma non mi lasciano entrare e non mi dicono cosa stia succedendo. Lui mi ha scritto che le notizie non sono buone, ma qui non prende bene. So solo che potrebbe finire sotto i ferri.”
6:56 - “Sono stanchissimo.”
6:57 - “Svegliati, cazzo.”
A casa mia la festa di laurea di mia sorella era finita verso le tre di notte. Loro due erano andati via tra gli ultimi e Claudio si era offerto di riaccompagnare Giorgio in macchina. La zona in cui vive, tra il parco e la stazione ferroviaria, dopo essere stato a lungo un bel quartiere residenziale, aveva attraversato anni di degrado e provato poi a reinventarsi come un centro della movida cittadina. Un tentativo di riqualificazione che non ha avuto l’effetto sperato.
Trovo Giorgio in una sala d’attesa, tra persone afflosciate su file di panche. Per stanchezza o per rassegnazione fissano in silenzio le proprie scarpe. Sclere rosse di capillari e volti che nella notte hanno assorbito il colore anonimo delle pareti del pronto soccorso. Lui non mi saluta e parla come stessimo proseguendo una conversazione in realtà mai iniziata.
“Ha detto che li vuole ammazzare. Lo ha ripetuto tra i denti o urlando, mentre raccontava dall’inizio alla fine e poi da capo ogni particolare di quello che è successo.”
La giacca che Giorgio indossa da ieri sera ora gli cade in modo diverso, come se, nel frattempo, lui si fosse smagrito o il tessuto avesse assunto la consistenza liquida degli orologi di Dalì. Quale inspiegabile distorsione di tempo e materia avviene negli ospedali?
“Ora lo sta visitando il suo professore di chirurgia maxillo-facciale.”
Claudio studia medicina. Vuole diventare chirurgo.
“Ho capito. Avete avvisato i suoi?”
“No. Non vuole nessuno dei due tra i piedi.”
“Va bene, rimango io. Tu vai a casa. Non dormi da troppe ore.”
“Già non c’ero quando è capitato, voglio esserci almeno adesso.”
“Non ne puoi niente. Vai a riposarti. Me la cavo, dai.”
Scuote la testa. “No, Guido. Tu non l’hai visto, non hai idea.”
Soccorrere un amico che è stato pestato sotto casa tua ed esser stato un tempo dalla parte di chi pestava smuove un fondale di rimorsi e incubi, che vedo vorticare dietro le lenti inutili dei suoi occhiali. Ed è come se, per un cortocircuito della memoria, ora stesse sovrapponendo in un angosciante collage fotografico il viso di Claudio a quello di ciascuno dei ragazzi che aveva preso a botte con Konstanktin e gli altri.
Queste ore devono essere state lunghe per Giorgio, molto più di quanto lo sarebbero state per me. Il suo ennesimo purgatorio. La coscienza non conosce prescrizione.
“Non riesco ad accusarli senza giudicare anche me e condannare quello che sono stato. Guarda… se mai dovessero identificarli, spero solo di non conoscerli.”
“Adesso non pensarci. Esci un momento, vai almeno a fumarti una sigaretta.”
Si stropiccia il viso e, nell’alzarsi dalla panca, mi lascia in mano i suoi occhiali, quelli che non toglie mai. Una maschera che in questo momento è solo un peso inutile. Nessuno riesce a uscire da se stesso.
Si avvia verso la porta a vetri. Lo seguo con lo sguardo e lo vedo di spalle mentre tira fuori il tabacco dalla tasca di quella giacca che oggi gli cola addosso.
Un infermiere grande quanto l’ospedale spinge lento un carrello carico di lenzuola e per qualche istante riempie del tutto la cornice della porta che affaccia sul corridoio. Quando finalmente si sposta, attraverso quel rettangolo di luce entra la sagoma scura di Claudio.
Cerco di ridisegnare i tratti noti nel volto in penombra, ma dopo un passo mi accorgo che non coincidono più con la nuova geografia del suo viso. Al posto della faccia che ricordo, un autoritratto di Francis Bacon. Deforme, asimmetrico, tumefatto. Mi alzo e mi avvicino.
La maglia che ha addosso, intrisa di sangue fino all’altezza dello stomaco, è una crosta di colore secca e scura come l’asfalto. Dall’espressione dell’occhio destro, quello che riesce a tenere aperto, capisco che è sorpreso di vedermi.
“Sono arrivato da poco. Giorgio è uscito solo un momento a fumare. Non ti chiedo come stai perché… beh, si vede.”
Sorride con mezza bocca e porta una mano alla guancia. I punti tirano.
“Davvero una bella festa… ringrazia ancora tua sorella, però speriamo che nessun altro si laurei per un po’.”
Si siede. Articola le parole con fatica, ma ancor prima che io osi fare domande, inizia a raccontarmi come avesse trovato parcheggio a un isolato da casa di Giorgio e, dopo averlo salutato sotto il portone, fosse tornato subito verso l’auto, senza attardarsi.
“Sì, di notte è una zona di merda, ma ho girato per Harlem senza che mi capitasse niente. Non ero lì a passeggio. Mi sarebbero bastati due minuti per tornare alla macchina, forse meno.”
I locali erano aperti e, nonostante il freddo, c’era ancora gente in strada coi bicchieri in mano. Forse troppa gente, dice.
“Ti consigliano di evitare le vie buie dove non c’è nessuno, però in una strada deserta li avrei almeno sentiti arrivare. È strano, ma in mezzo a troppe facce sei più vulnerabile. Tanto poi la gente se ne sbatte il cazzo. Potrebbero accoltellarti, riempirti di mazzate, assalirti in pieno centro e tutti tirerebbero dritto. Forse anche la polizia. Per cui tanto vale che non ci sia nessuno.”
Nel parlare aumenta il ritmo e il volume. Stringe i pugni sulle ginocchia, le nocche coperte di croste. Il suo sguardo diretto a terra buca il pavimento, quasi il nemico fosse lì sotto.
“Io li ammazzo quegli stronzi.”
Le altre persone nella sala d’attesa evitano di fissarlo, come si fa con un ubriaco che sbraita e impreca in una stazione. Claudio non si cura di loro, né dei punti che tengono insieme il labbro superiore e la schiuma alla bocca diventa rosa mescolandosi al sangue. Gli porgo un fazzoletto di carta, facendo segno di pulirsi e gli chiedo: “Devi fare altre visite? Cosa ti hanno detto?”
Apre la borsa a tracolla, mi dà la cartellina dei referti e fa un gesto con la mano a significare: “Dopo. Adesso lasciami finire.”
Giorgio me lo aveva detto. Racconta, ripete ed è come se dentro di sé ricalcasse in continuazione i contorni della stessa figura. Un modo per dominare almeno adesso una situazione sulla quale non aveva avuto alcun controllo. Ancora e ancora, finché con la matita non avrà trapassato il foglio.
“Ho avvertito qualcuno alle spalle e mi sono voltato. Avrei dovuto reagire ancora prima che fossero chiare le loro intenzioni, ma sai, non picchio il primo che capita solo perché cammina dietro di me. In un attimo ero circondato e con le spalle al muro. Mi ci hanno spinto o forse mi ci sono messo io d’istinto per avere un lato coperto. Scappare non era possibile. Erano cinque, della nostra età o anche meno. Credo fossero dell’est Europa a parte uno che sembrava nordafricano.”
“Dai una sigaretta al mio amico,” gli aveva ringhiato a una spanna dal viso il più sfacciato fra loro, con un ghigno che sembrava una minaccia estemporanea, ma rientrava in un copione replicato già molte volte. Claudio aveva tirato fuori il pacchetto da una tasca. Dopo averglielo strappato dalle mani, quello gli aveva dato uno schiaffo con la violenza di un pugno.
“Dei quaranta euro che avevo nel portafoglio non me ne fregava niente. Gli avrei dato tutto… orologio, telefono… ma non hanno chiesto, né provato a prendermi nulla. Giusto le sigarette. Volevano solo farmi male. Non so dirti se mi sia mancato il tempo di chiamare aiuto o se ci abbia provato e non mi uscisse la voce. In ogni caso non sarebbe stata quella la soluzione. Qualcuno attorno deve pur aver visto, ma nessuno ha fatto niente. Per mezzo secondo ho persino sperato che sbucasse un’auto della polizia, poi ho capito che ero solo e non potevo contare su nessuno.”
L’unica possibilità sarebbe stata farsi un varco tra loro e correre verso la piazza poco distante, dove c’era più luce e ancora più gente. Lì forse non lo avrebbero seguito.
“Ho provato a colpire quel pezzo di merda con tutta la mia forza, ma, schiacciato come ero contro il muro, non avevo lo spazio necessario. Ho fatto un movimento sbilanciato e veloce a freddo,” dice toccandosi la spalla mentre prova a muoverla. “L’ho preso di striscio e, forse, tra i due, quello che si è fatto più male sono io.”
Sul momento pare uno strappo muscolare, ma un paio di mesi dopo, nell’aprire una porta tagliafuoco per entrare nel reparto di chirurgia generale, dove frequenta un tirocinio, il dolore lo costringerà a sedersi a terra in un angolo del corridoio.
Danno permanente del cercine glenoideo. Consigliato intervento per evitare che la lesione degeneri, compromettendo la mobilità del braccio destro.
Un’eventualità che falcerebbe ogni aspirazione in chiunque voglia diventare chirurgo. Ed è come se da quell’angolo davanti alla porta del reparto non si fosse più alzato.
“Mi sarei coperto il viso, ma dovevo pur vedere se qualcuno tirasse fuori un coltello o se si fosse aperta una via di fuga. Un pugno mi ha preso in pieno l’orecchio, che ha iniziato a fischiare. Una vertigine istantanea, girava tutto.”
Trauma cranico. Deficit sensoriale orecchio sinistro.
Oggi, dopo un anno e mezzo, l’acufene gli toglie ancora il sonno. La sua finestra illuminata, l’unica nel palazzo, come in un notturno sbagliato di Magritte.
“Ho pensato: ‘se mi sbilancio e mi atterrano, è finita.’ Un po’ di volte sono riuscito a colpirli, ma uno mi tratteneva per la borsa che avevo a tracolla. Devono avermi anche sputato in faccia. Forse gridavano insulti, ma ormai, tra l’orecchio andato e i cazzotti che continuavano ad arrivare, non li sentivo più.”
Deviazione del setto nasale.
Lacerazione labbro superiore.
Frattura margini incisali dell’incisivo centrale e laterale destro.
Ferita lacero-contusa sulla bozza frontale sinistra.
Ecchimosi multiple al viso e al torace.
“Per levarmi da lì, ho provato a buttare indietro quello un po’ più piccolo davanti a me. Ho usato il muro alle mie spalle per darmi una spinta e siamo finiti tra due macchine parcheggiate. Mi è arrivata da dietro una botta sulla nuca, ma ho continuato a prenderlo a pugni finché non siamo arrivati in strada.”
Ematoma zona mastoide destra.
Escoriazioni sul dorso di entrambe le mani.
“Lo tenevo per la felpa e abbiamo continuato a colpirci a vicenda. Gli ho tirato giù il cappuccio sul viso, ma lui mi ha preso anche alla cieca.”
Frattura dello zigomo e del pavimento dell’orbita sinistra.
“Poi è inciampato ed è caduto all’indietro. A quel punto due di quelli che erano rimasti sul marciapiede sono venuti verso di noi: il tizio che mi aveva chiesto una sigaretta per il suo amico e quello a cui avrei dovuto darla. Continuavo ad avere le vertigini. Voltare loro le spalle e iniziare a correre non era prudente. Così come ero conciato, non sarei stato abbastanza veloce. Allora, per non perderli di vista, ho cominciato a indietreggiare in direzione della piazza. Quando sono stati più vicini, uno ha provato di nuovo a sputarmi addosso, ma non mi ha preso e l’altro ha tentato di tirarmi un calcio. Lo ho evitato e lui ha quasi perso l’equilibrio. Ho pensato: ‘Se voglio, lo rovino.’ Non ero più schiacciato contro un muro, sono riuscito a prendere il coltello dalla borsa e ho detto: ‘adesso fatevi sotto, merde!’”
Sta urlando, ma forse non lo sente o, se lo sente, se ne frega. Nella sala d’attesa si incrina la solitudine silenziosa dei dipinti di Hopper.
Questa volta tutti alzano gli occhi dalle proprie scarpe. Nessuno riesce più a mostrarsi indifferente. Con un gesto gli chiedo di abbassare la voce e presto si ricompone l’originaria staticità della tela.
È dalla fine della prima media che Claudio gira con un coltello nello zaino. Aveva dodici anni quando un ragazzo più grande gliene aveva puntato uno addosso durante l’intervallo e lui si era ripromesso che non si sarebbe mai più fatto trovare impreparato.
Non era una gran scuola quella che frequentava allora. Ogni ricreazione si concludeva in una rissa. Ma la ragione per la quale aveva chiesto di essere trasferito fu un contrasto con gli insegnanti, nato per aver reagito a un episodio di bullismo, anziché subire e prendere atto dell’incompetenza di chi avrebbe avuto la responsabilità di impedirlo.
É arrivato nella mia classe all’inizio del secondo anno. Poi abbiamo fatto insieme anche il liceo e lì abbiamo conosciuto Giorgio, che intanto è rientrato, si è rimesso gli occhiali e si è seduto di fianco a Claudio sull’altro lato rispetto me.
Ora siamo una versione distorta delle tre scimmie sagge, in cui quella al centro non vede da un occhio, non sente da un orecchio, ma parla anche per gli altri due, che si guardano senza sapere cosa dire, né come essere d’aiuto.
“Hanno capito che non potevano più fottermi e hanno girato i tacchi. Il sangue mi colava in gola, ma mi è comunque passato per la testa di inseguirli e rovinare la serata anche a loro.”
In una conversazione silenziosa tra Giorgio e me corre un pensiero comune: i segni sul suo corpo non sono gli unici di cui preoccuparsi. Dei tre, Claudio è la persona in cui una fatalità del genere può fare i danni peggiori, confermandogli una visione del mondo cinica, già radicata in lui.
“Il tutto sarà durato meno di un minuto, ma in questi casi il cervello accelera e mi è sembrato molto di più.”
Giorgio annuisce. Aveva già avuto modo di raccontarmi che quando vedi la violenza su uno schermo è un conto, ma quando la vedi per strada tutto è scoordinato, caotico e rapido. Non esistono “le mosse”, non c’è coreografia e di cinque pugni se va bene, ne va a segno uno e mezzo. Quando invece ci sei dentro tu il tempo si dilata, come durante una scossa di terremoto.
Claudio era rimasto solo. Si guardava agire come in un videogioco in terza persona, senza provare nulla né pensare nulla, se non quali tasti premere e cosa dovesse far fare istante per istante a quell’altro sé, che ora controllava da fuori.
“Sono andato verso la piazza. La gente faceva finta di non vedermi, oppure si spostava schifata, manco fossi un lebbroso. Nessuno mi ha aiutato, neanche quando ormai non c’era più pericolo. Capisco non volersi mettere nei guai, ma dopo mi sarei aspettato qualcosa e invece non un cane che mi abbia chiesto come stessi… la conferma che urlare ‘aiuto’ non sarebbe servito a un cazzo. Ho preso il cellulare e ho provato a chiamarlo,” dice, indicando alla sua sinistra la scimmia con gli occhiali e la giacca liquefatta.
“Almeno lui mi avrebbe dato una mano e mi avrebbe guardato le spalle nel caso fossero tornati. Ma non riuscivo quasi a parlare.”
Prima della sua chiamata, Giorgio aveva fatto appena in tempo a salire in casa, togliere le scarpe e spremere il dentifricio sullo spazzolino. Leggendo il nome sullo schermo, aveva intuito. Venerdì e sabato sono le notti peggiori, quelle in cui, se torna tardi dal locale in cui lavora, persino lui non si sente al sicuro.
“Scendi.” La voce a metà fra un colpo di tosse e il gorgoglìo di un lavandino.
Facile individuarlo già da lontano. Nessuno attorno, il viso e la maglia un’unica macchia dello stesso colore. Era di nuovo al telefono. Tra la polizia e l’ambulanza, aveva scelto di chiamare prima la polizia.
“Rimanga un attimo in attesa…”
“Ma che cazzo è? Il servizio clienti di Fastweb?!” La rabbia gli aveva restituito di colpo la voce.
“Arriviamo tra una ventina di minuti.”
“Ah, minchia… menomale.”
Aspettando la volante erano andati a chiedere del ghiaccio nel bar davanti al quale era successo tutto. Le persone all’interno li guardavano come se quelli pericolosi fossero loro. Chi si appiattiva contro le pareti, chi per un riflesso istintivo stringeva a sé la propria borsa. Giorgio aveva dovuto insistere e alzare la voce perché il barista si sbrigasse a dar loro del ghiaccio.
La polizia aveva poi richiamato: “C’è una delle nostre auto in zona, raggiungetela.” E avevano dato un indirizzo a Claudio che, nello stato in cui era, non vedeva l’ora di farsi una bella passeggiata al freddo, proprio nella direzione in cui si erano allontanati quelli che lo avevano appena riempito di botte.
Più in là, sul corso, un altro ragazzo aveva subìto un’aggressione da parte di un gruppo. Lui aveva voltato loro le spalle provando a scappare, ma quelli lo avevano raggiunto e, dopo averlo sbattuto a faccia in giù sull’asfalto, gli avevano spaccato una bottiglia sulla nuca.
Quando Claudio e Giorgio avevano raggiunto i poliziotti, uno di loro stava chiamando un’ambulanza che portasse il ragazzo al pronto soccorso per fargli togliere le schegge di vetro dal collo e dal cuoio capelluto. Un po’ più a destra e gli avrebbero tranciato la giugulare. Anche lui non era stato rapinato e le descrizioni coincidevano. Erano sempre loro. Quattro e non più cinque.
“Forse il tizio col cappuccio lo avevo preso abbastanza bene da fargli passare la voglia almeno per una notte.”
Mentre Claudio raccontava agli agenti cosa fosse successo e dava loro i suoi documenti, l’ambulanza caricava l’altro. Uno dei soccorritori aveva fatto finta di dare un’occhiata anche a lui, minimizzando: “Va beh, dai… chiama i tuoi, datti una pulita e vai a casa. Non sarà niente di grave.”
“Sì, sì. Certo. Mi sciacquo un attimo la faccia e sono a posto, no?” aveva risposto Claudio, rivolgendosi però ai poliziotti, che, guardandolo, avevano convenuto si dovesse chiamare subito una seconda ambulanza. Ma poi dalla centrale era giunta la segnalazione di un’altra aggressione per mano di tre o quattro ragazzi nel parco a duecento metri da lì e la volante era andata via, lasciandoli soli.
“Se l’ambulanza non fosse mai arrivata o io mi fossi sentito peggio non se ne sarebbe accorto nessuno. Quando poi ci hanno scaricati in ospedale, mi hanno mollato per un’ora in uno stanzone pieno di anziani mezzi sedati che strillavano delirando. L’orecchio continuava a darmi fastidio, allora ho provato a tapparmi il naso e a soffiare forte per compensare, come fanno i subacquei o come si fa quando in aereo ti si tappano le orecchie.”
Ma la manovra di Valsalva dà un esito mostruoso quando, in seguito a una frattura, il seno mascellare comunica col pavimento dell’orbita: le palpebre già chiuse e tumefatte, sono gonfiate all’istante per la pressione dell’aria.
Lì, dove tutti stavano urlando e ognuno urlava da solo, vedendosi dalla telecamera interna del cellulare a lui non era uscito un suono. I medici, dopo aver suturato il labbro e la ferita sulla fronte, gli avevano consigliato di non soffiarsi il naso per nessun motivo.
Temevano che, se la frattura fosse stata scomposta, un frammento d’osso avrebbe potuto ledere il muscolo retto inferiore, impedendo al bulbo oculare di ruotare verso il basso.
Perché valutassero la necessità di un intervento, lo avevano indirizzato a un altro ospedale, dove ci fosse un reparto di chirurgia maxillo-facciale. Lì la TAC e gli accertamenti successivi avevano escluso, se non altro, questa possibilità. Claudio e Giorgio ci erano dovuti andare per conto loro ed è lì che li ho raggiunti.
Finché sul viso sono stati visibili i segni dell’aggressione, molti attorno a lui hanno avuto un atteggiamento di comprensione e di riguardo, poi hanno dimenticato o hanno smesso di interessarsene
Diciassette mesi di rabbia stanca
Il giorno dopo l’aggressione Claudio era andato far denuncia in caserma, dove, prima della sua, avevano già ricevuto altre segnalazioni analoghe. Lo avevano trattato con sufficienza, come se in fondo sia lui che gli altri se la fossero cercata e gli avevano detto di andare a casa tranquillo, assicurandogli che li avrebbero presi.
C’è una banca in quel tratto di strada e più di una telecamera avrebbe potuto riprenderli. Erano a viso scoperto. Esaminando i filmati qualcosa sarebbe saltato fuori, aveva pensato.
Lo avevano richiamato dopo tre o quattro mesi per mostrargli foto segnaletiche di ragazzi che non c’entravano niente ed era finita lì. Non gli hanno più fatto sapere nulla.
Ormai tutto sarà stato archiviato. Claudio è convinto che non ci abbiano neanche provato, che di queste cose non freghi niente a nessuno, a meno che non finisca così male da diventare materiale conteso dalle pagine di cronaca nera dei quotidiani.
“Altrimenti chi glielo fa fare? Andare lì per le forze dell’ordine è solo una grana: non promuovono nessuno per aver pescato quattro, cinque o cento di questi stronzi… tanto, poi, se li prendono, dopo due mesi sono fuori perché minorenni o per qualche altro motivo; e quando non possono fare a meno di intervenire la scelta è tra il farsi prendere a botte, oppure rischiare di essere scuoiati dai superiori e dalla stampa per eccesso di forza. Il risultato è che a piedi non ci passano mai, a meno che non sia pieno giorno e la notte svoltano con la volante un paio di vie prima, anzi, se possono, non ci vengono nemmeno se li chiami. Eppure la loro caserma non è neanche lontana. Però a presidiare la Rai in tenuta antisommossa ci vanno di corsa. Se non hai etica né voglia di lavorare, se non vuoi correre rischi non lo devi fare quel mestiere. Al massimo, per far bella figura e dimostrare che stanno facendo qualcosa, ogni tanto arrestano chi spaccia. Per carità, è illegale, ma se non vuoi comprare la loro roba mica ti spaccano le gambe. E se c’è qualcuno che fa da deterrente perché non avvengano scippi, aggressioni o altri casini che richiamino carabinieri e polizia in zona, sono proprio loro, che non hanno nessuna voglia di avere rogne mentre lavorano.”
Parole che sono sassate contro i vetri di casa: lo zio di Claudio è nelle forze dell’ordine da più di trent’anni.
Finché sul viso sono stati visibili i segni dell’aggressione, molti attorno a lui hanno avuto un atteggiamento di comprensione e di riguardo, poi hanno dimenticato o hanno smesso di interessarsene.
La frequenza obbligatoria, le ore di tirocinio e di laboratorio, gli esami da preparare… Il peso specifico delle giornate aumenta se non riesci neanche a dormire, se per farlo devi arrivare a sfiancarti e mettere in cuffia musica o rumori a coprire il fischio continuo di un treno che nel silenzio ti attraversa il cranio, come una galleria infinita.
Il problema alla spalla continuava a limitare i suoi movimenti e gli procurava dolore sia che la caricasse, sia che la lasciasse troppo a riposo.
Quando c’è una diagnosi, ma non c’è una prognosi, quando i disturbi fisici perdurano, senza che sia previsto alcun miglioramento, la psiche va incontro a una forma di astenia. Gli effetti ormai gravavano più delle cause che li avevano generati. Erano diventate fastidiose anche quelle attività che gli erano sempre piaciute.
Qualsiasi conversazione lo sfiniva per il continuo sforzo di escludere un suono e un argomento, di non apparire cupo, di non deprimere gli altri e, pur di uscire di casa e continuare a vedere qualcuno, aveva iniziato a proporre serate di musica techno in locali che prima evitava.
Quando si era rivolto a una psichiatra per avere un supporto o almeno un po’ di Xanax per dormire, gli era parso lei avesse obiettivi opposti ai suoi, che la terapia mirasse solo a fargli accettare una situazione che lui invece voleva cambiare, a farlo conciliare con la delusione, abituarlo ad avere meno, anziché puntare a quello che aveva sempre sperato, scegliere la rassegnazione come sua nuova casa e costruire in questa una qualche serenità deludente. Dopo qualche mese aveva interrotto le sedute.
Rispetto a quando si era iscritto a medicina, ora dice che è come se fosse stata definitivamente bombardata in lui l’illusione ingenua che si potesse migliorare il mondo prendendosi cura delle persone.
Per Claudio, ormai, quella di medico è una professione che non vale più di un’altra in una società in cui non è sicuro che l’empatia sia ancora considerata un valore. E se arriverà a essere chirurgo, sarà un buon chirurgo, ma per soddisfazione personale più che per altruismo.
Eppure, lo scorso inverno, quando mia madre ha subito una serie di interventi e ha trascorso in ospedale una convalescenza difficile, è passato in reparto ogni giorno e mi è stato vicino le sere in cui non era detto che la mattina dopo, nell’orario di visita, avrei avuto ancora qualcuno da andare a trovare.
Forse ha sottovalutato le sue illusioni. Ci sono forme di vita che sopravvivono anche alle bombe.
La prima volta in cui siamo riusciti di nuovo a coinvolgerlo in una cena con altri amici, quando qualcuno, vedendolo poco partecipe, gli aveva chiesto se da quella sua vicenda si potesse trarre qualcosa di utile per il futuro o se, immaginando di tornare indietro nel tempo, avesse un consiglio da darsi, Claudio aveva risposto senza esitare, come se stesse citando un aforisma inciso da tempo dietro le sue palpebre: “Non ci sono sempre lezioni da imparare, a volte la vita fa schifo e non ti insegna altro se non quanto schifo possa fare.” Poi aveva continuato: “No, una cosa invece l’ho imparata: adesso tengo il coltello nella tasca della giacca e non più nella borsa.”
Le forchette erano rimaste sospese, i bicchieri congelati a mezz’aria in mano a chi stava per bere. In uno sguardo tra Giorgio e me era passato di nuovo un pensiero condiviso: “Ma porca troia… Sì, è da ricovero. Però è un amico, che ci vuoi fare?”
Il monologo che da quella notte in ospedale aveva continuato a scorrere come un fiume carsico, inabissandosi a tratti, era riemerso con violenza in superficie, travolgendo le chiuse della normalità dietro la quale Claudio aveva imparato a contenere la sua rabbia in pubblico.
“Il consiglio? Non fidarmi delle autorità. In uno stato in cui non vieni soccorso, in cui non riescono a dirti chi cazzo sia stato, in cui l’unico che porta le conseguenze delle azioni degli altri sei tu e non c’è garanzia che, se ti ricapita, sarai più tutelato, preferisco farmi il porto d’armi o procurarmi diversamente una pistola, preferisco finire nei guai con la legge, che essere alla mercé di quattro schifosi. Sì, poi questi qua avranno anche i loro problemi… saranno dei disagiati o quel che ti pare, ma non mi interessa comprenderli. Non mi fanno pena. Non se lo meritano.”
Giorgio aveva allontanato il busto dal tavolo e, appoggiandosi allo schienale della sedia, aveva serrato le sue labbra sottili.
“Vorrei solo sotterrarli e mandarli all’inferno,” aveva concluso Claudio, battendo con la mano chiusa un colpo sul tavolo.
“Ottima questa carbonara, eh? Cosa ne dite?” augurandomi bastasse ostentare questa giovialità fasulla perché qualcuno rispondendomi cambiasse argomento.
Non aveva detto niente che mi avesse stupito. Da quando le indagini erano cadute nel vuoto, aveva iniziato a coltivare fantasie di vendetta, che oscillavano tra un western, un gangster movie e un film di John Wick, in cui progettava nel dettaglio un piano per rintracciare e uccidere i suoi aggressori. Ma non erano solo le fantasie turbate di un immaginario sul quale il soft power americano aveva fatto danni. Ancora oggi dice che le attuerebbe, pur mettendo in conto anni di galera, se solo non fosse troppo tardi per trovarli.
Quando il mondo non risponde alle tue domande, quando non riesci a credere in Dio, nello Stato, né in Freud, perché chi avrebbe dovuto raccontarti queste cose non ne è stato capace, allora trovi le tue riposte come puoi.
Claudio non è mai stato un ottimista e forse non lo sarebbe mai stato. È il primo ad ammettere che le sue opinioni, già forti e difficili da condividere, dopo quanto gli è accaduto, si siano radicalizzate e gli strascichi psicofisici abbiano influito sul suo carattere rendendolo ancora meno disponibile e aperto verso gli altri.
Quando si infervora dice cose che in pubblico sono indifendibili e che, per una forma di pudore e affetto, ho riserve a scrivere, nonostante quello che uso in queste pagine non sia neanche il suo vero nome.
Il fatto è che io sono sicuro le pensi tutte e non siano solo delle sparate dette in un accesso d’ira. Secondo l’empirismo, ognuno forma le proprie idee in base alle esperienze vissute e le sue, per quanto estreme, sono conseguenza di quello che la vita gli ha riservato. Credo proprio che sarebbe felice di potersene permettere altre.
Sarebbe fin troppo facile giudicarlo per le sue opinioni, ma io non posso fare a meno di domandarmi se la distanza considerevole tra la mia e la sua visione del mondo non si riduca in gran parte a una sola notte, in cui lui ha avuto molta sfortuna, mentre io ero a casa a dormire e il mio numero risultava irraggiungibile.
Oggi parlare di futuro non accende più niente in noi e se lo facciamo è solo per abitudine. Io continuo a non sapere cosa fare di me e sento sempre più vicino il momento in cui dovrò scegliere
13 Aprile 2024
Siamo usciti dal locale in cui è finita da poco la festa di laurea di Giorgio. In un lento sgocciolare tutti sono scivolati a casa. Claudio e io siamo rimasti con lui. Camminiamo lungo il fiume, mentre la notte evapora stordita di luce insieme ai drink di troppo che abbiamo bevuto. Il vento si infila nelle pause sempre più lunghe dei nostri discorsi stanchi e tra le foglie dei platani sopra di noi sbiadiscono le ultime stelle ubriache.
Passa un uomo con due levrieri al guinzaglio.
Un auto corre sulle arcate del ponte ancora addormentate nel loro riflesso e si alza già in volo qualche piccione. A quest’ora sembrano quasi animali puliti. Noi meno: in mancanza di un bagno tutti e tre in fila pisciamo nel fiume cantando forte In the air tonight sulla voce di Phil Collins.
La musica viene dall’altra sponda, dove un locale in chiusura proietta fasci di luci viola che si perdono nel vuoto del cielo. Due nutrie ci fissano dal basso come fossimo tre poveri pirla e non hanno tutti i torti. Ma chi se ne frega, per me possono pensarla come gli pare. I momenti di leggerezza tra noi ormai sono diventati così rari che, nella consapevolezza dell’effimero, ce li godiamo con avidità triste.
Seduti tra i ciottoli sulla riva, il riverbero del fiume illumina a tratti i nostri visi e rivela qualche filo bianco tra i capelli di Claudio. Una volta, in queste chiacchierate sul fare del giorno, ciascuno condivideva con gli altri le proprie speranze, per quanto potessero essere vaghe.
Oggi parlare di futuro non accende più niente in noi e se lo facciamo è solo per abitudine. Io continuo a non sapere cosa fare di me e sento sempre più vicino il momento in cui dovrò scegliere.
Giorgio è già contento che gli ansiolitici non gli diano più effetti collaterali e di aver potuto discutere la tesi senza rischiare un attacco di panico, ma adesso non sa come coprire il costo proibitivo di un corso specialistico necessario per accedere alla professione che è il suo obiettivo e per la quale aveva intrapreso questa strada. Riesci ad aprire una porta, ma non fai in tempo a rallegrartene, perché dietro ci trovi un muro.
Claudio, che dopo un anno e mezzo è ancora in lista d’attesa per l’intervento alla spalla e finora non ha detto una parola, conclude ad alta voce un pensiero che fin qui ha elaborato in silenzio: “Comunque, se lavorando all’estero, mi danno anche solo cinquanta centesimi in più, me ne vado da ‘sto posto di merda.” La temperatura percepita scende di colpo. Bello il futuro.
Rimaniamo in silenzio. Il sole sorge dietro la collina tra sfilacci di nuvole. I contorni sfocati e la luce già stanca degli acquerelli di Turner.
Tiro un sasso nel fiume. Giorgio ne raccoglie una manciata e fa altrettanto. Proviamo a farli rimbalzare, ma la corrente li inghiotte dopo due salti. Claudio, che l’ha sempre fatto meglio di noi, perché sa scegliere il ciottolo giusto e ha più cura nel calibrare il movimento, al primo tentativo avverte una fitta. Bestemmiando dal male, butta a terra i sassi.
Afferra la pietra più grossa che trova lì intorno e la scaglia lontano, ma usando la mano sinistra. Il tonfo pensante, gli spruzzi scomposti e il fiume si richiude sopra la sua rabbia esausta.
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Appunti e Dieci Rivoluzioni: il libro e l’abbonamento omaggio
Visto che in questa fase non riesco a fare molta della tradizionale promozione del libro - tra festival, tv, radio ecc - per gli impegni di lavoro e familiari, vorrei tentare un esperimento, legato alla comunità di Appunti.
Se gli influencer si appellano alla loro comunità per vendere i loro libri, o altra oggettistica, non posso farlo anche io?
Ho pensato questa formula, che - come direbbero gli aridi economisti - allinea tutti i nostri incentivi:
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Mi piacerebbe fare questo esperimento “economico” questa settimana per raccontare poi i risultati già al Salone, ma la cosa resta attiva per tutto il mese di maggio.
Oggi tocca a Riccardo Mantini
Il Podcast: La Confessione
Ascolta La Confessione, il podcast di inchiesta che rivela per la prima volta da dentro come funziona il sistema di copertura e insabbiamento degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica italiana.
Un podcast realizzato da Stefano Feltri, Giorgio Meletti e Federica Tourn, realizzato grazie al sostegno della comunità di Appunti. Con la collaborazione di Carmelo Rosa e la consulenza per musiche ed effetti di Stefano Tumiati.
Guido è un bravo scrittore. Il racconto è duro ma ti tiene in pugno. Purtroppo ti fa sentire che la situazione è molto molto verosimile oggigiorno e per questo ti lascia triste. Ma Guido deve continuare a scrivere, è il suo mestiere
Che storie che tolgono dalla confort zone in cui pensiamo di vivere intoccabili. Il nichilismo che emerge è sconvolgente, attuale. Non so come lo si possa fermare. Scrive bene ma i racconti sono duri. Ci vuole coraggio a leggerli. Ha l'età di mio nipote...