Uniti dalla rabbia
IL DIBATTITO DI APPUNTI - In una società sempre più frammentata, la rabbia ha assunto un ruolo cruciale come forza aggregante. E' un collante sociale
Nonostante le sue potenziali conseguenze negative, infatti, la rabbia può anche essere vista come uno strumento di resistenza e di potere, soprattutto per quei gruppi che si trovano ai margini o che si vivono (comunicativamente) ai margini
Giovanni Boccia Artieri
Buongiorno a tutte e tutti,
Dopo il secondo attentato contro Donald Trump, è il momento di riprendere il filo del nostro discorso sulla politica della rabbia, avviato questa estate, con i pezzi stimolati dal libro di Carlo Invernizzi-Accetti Vent’anni di rabbia (Mondadori).
Lo facciamo con un pezzo del sociologo Giovanni Boccia Artieri, che è un attento osservatore di quella frontiera della democrazia dove si incrociano politica, informazione, tecnologia e immaginario collettivo.
La tesi di Giovanni è che la rabbia non sia una degenerazione, una malattia curabile di un sistema sano, ma un ingrediente principale di questa nostra società basata ormai su solitudini individuali ed esperienze relazionali mediate da piattaforme.
Nella sua serie di pezzi sul caso Telegram Laura Turini ha esplorato i molti aspetti rilevanti del caso Telegram, che chiariscono sul piano tecnologico e giuridico alcune delle questioni esistenziali che evoca Giovanni nel suo intervento.
A me colpisce un aspetto: stiamo scoprendo che le trattative tra Stati democratici e oligarchi digitali sono molto più semplici e produttive se si fanno dopo aver arrestato l’amministratore delegato.
Forse non era così vero che gli oligarchi digitali e le loro piattaforme erano più potenti dei vecchi leviatani tradizionali.
Questo è un tema da approfondire e ci sto ragionando. Ma intanto il pezzo di Giovanni Boccia Artieri ci offre molti spunti di riflessione preziosi.
Come sempre, fateci sapere che cosa ne pensate.
Buona giornata,
Stefano
PS Oggi vado a fare qualche altro esperimento per un programma che partirà presto, un programma che nasce come costola del progetto di Appunti, grazie al grande sostegno di questa comunità e a tutte le idee che ha messo in circolo. Ancora tutto top secret, ma appena possibile vi aggiornerò, per chiedervi anche di darmi una mano e partecipare
Giovanni Boccia Artieri è professore ordinario di Sociologia della comunicazione e dei media digitali e Direttore del Centro di Ricerca LaRiCA (Laboratorio di Ricerca sulla Comunicazione Avanzata) all’Università di Urbino Carlo Bo.
La rabbia nella democrazia senza più centro
di Giovanni Boccia Artieri
Il dibattito sul tema della rabbia sociale e le sue conseguenze nella politica, scaturito dal volume Vent’Anni di Rabbia di Carlo Invernizzi-Accetti a partire dalle riflessioni di Stefano Feltri, costruisce un quadro estremamente interessante perché si concentra su fattori extra-economici e si interroga sulla dimensione dell’identità per trovare risposte al dilagare di questo sentimento.
Se prendiamo in considerazione una prospettiva sociologica e comunicativa, possiamo considerare come la “rabbia” sia diventata nel tempo un aggregatore sociale e una moneta relazionale, specialmente nel contesto di quella che possiamo definire come “fringe democracy”.
La rabbia come forza aggregante?
In una società sempre più frammentata, dove le linee di divisione non sono più dettate soltanto da classi economiche o ideologie politiche, ma anche da questioni identitarie, culturali e valoriali, la rabbia ha assunto un ruolo cruciale come forza aggregante.
Non è più solo una reazione emotiva individuale, ma è diventata un collante che unisce gruppi altrimenti eterogenei, cementando identità collettive basate sulla percezione di un’ingiustizia condivisa.
Questa rabbia collettiva si è manifestata in diversi contesti, dai movimenti populisti che hanno scosso le democrazie occidentali, alle proteste di massa in varie parti del mondo.
La caratteristica distintiva di questa rabbia non è solo la sua diffusione, ma il modo in cui viene canalizzata in un sistema ibrido dei media – in cui media mainstream e media digitali creano cortocircuiti continui - e attraverso nuove forme di partecipazione politica, che sfidano le istituzioni democratiche tradizionali.
È questo un contesto che possiamo definire di “fringe democracy”, cioè di una democrazia dove il centro perde progressivamente il suo ruolo di aggregatore, e le periferie politiche ed emotive (i margini) assumono un peso crescente.
Nella fringe democracy, la rabbia non è solo un sintomo di disaffezione, ma diventa un vero e proprio strumento di mobilitazione politica.
I partiti e i movimenti che operano ai margini del sistema politico tradizionale fanno della rabbia il loro capitale principale, utilizzandola per galvanizzare il sostegno, polarizzare l’opinione pubblica, e delegittimare le istituzioni centrali.
Non di meno anche molti partiti tradizionali, simmetricamente, utilizzano la rabbia come strumento comunicativo strategico.
Questa dinamica è visibile in molti dei movimenti populisti contemporanei, che si nutrono di una narrazione di tradimento e ingiustizia perpetrata dalle élite.
La rabbia, in questo contesto, non è solo una risposta passiva alle condizioni materiali, ma viene attivamente coltivata e direzionata per sostenere una particolare visione del mondo, una visione che spesso contrappone il “popolo” alle “élite”, o “noi” contro “loro”, secondo un noto meccanismo ingroup/outgroup.
La rabbia come moneta relazionale
Un altro aspetto cruciale della rabbia nella fringe democracy è il suo ruolo come moneta relazionale. In un contesto in cui i legami sociali tradizionali si indeboliscono, la rabbia fornisce una nuova base per la costruzione di relazioni.
Esprimere rabbia, condividerla (letteralmente: attraverso lo sharing dei contenuti) diventa un modo per stabilire un’appartenenza a qualcosa, per dimostrare la propria fedeltà a una causa, e per guadagnare capitale sociale all'interno di una qualche comunità.
Questa dinamica è particolarmente evidente sui social media, dove l’indignazione e la rabbia diventano merce di scambio in un’economia dell’attenzione.
I like, le condivisioni, i commenti che amplificano espressioni di rabbia sono premiati dagli algoritmi che governano queste piattaforme, creando un ciclo di feedback che può rafforzare la polarizzazione e la frammentazione.
Nella fringe democracy, dunque, la rabbia non è solo un sentimento individuale, ma un fenomeno collettivo che modella le dinamiche di potere e influenza sociale.
Diventa una forma di comunicazione, una lingua franca attraverso cui le persone esprimono la loro identità e appartenenza, e attraverso cui si organizzano nuove forme di azione politica.
L’uso della rabbia come strumento di mobilitazione e come moneta relazionale ha profonde implicazioni per la democrazia. Da un lato, può rendere le istituzioni più responsive alle preoccupazioni e ai sentimenti di settori della popolazione che si sentono esclusi o ignorati.
Dall'altro, però, può anche erodere la fiducia nelle istituzioni e nei processi democratici tradizionali, se la rabbia viene utilizzata per delegittimare continuamente l'avversario politico e per alimentare un clima di scontro permanente.
Inoltre, la polarizzazione alimentata dalla rabbia può portare alla radicalizzazione di segmenti della popolazione, che vedono la violenza, verbale o fisica, come una risposta legittima alla percepita illegittimità delle istituzioni.
Questo rischia di creare un circolo vizioso, dove la crescente violenza alimenta ulteriore sfiducia e rabbia, portando a un'ulteriore frammentazione della società.
Un altro aspetto da considerare è il ruolo della rabbia nella costruzione dell’identità collettiva.
Nella fringe democracy, l’identità di gruppo si costruisce spesso in opposizione a un “altro” percepito come nemico o come fonte di ingiustizia. Questo “altro” può essere un gruppo etnico, una classe sociale, un'istituzione, o persino un intero sistema di valori.
La costruzione dell’identità in opposizione a un “altro” alimenta un clima di conflitto permanente, dove il dialogo e il compromesso diventano sempre più difficili.
La rabbia, in questo contesto, diventa un modo per tracciare i confini tra “noi” e “loro”, per definire chi appartiene al gruppo e chi ne è escluso.
Questo processo è visibile in molti dei conflitti identitari contemporanei, che vanno oltre le tradizionali divisioni politiche ed economiche e abbracciano questioni di etnia, genere, religione, e orientamento sessuale.
Piattaforme digitali, rabbia sociale e democrazia
Per quanto abbiamo finora detto comprendere il ruolo delle piattaforme digitali e degli spazi alternativi nel coltivare, condividere e dare visibilità a questa rabbia è essenziale per affrontare le sfide poste dalla fringe democracy, e per immaginare modi in cui la rabbia possa essere trasformata in una forza costruttiva, piuttosto che distruttiva, per la democrazia.
Il panorama delle piattaforme digitali odierne è definito da un intreccio di spazi pubblici, semi-pubblici e privati.
Questi spazi variano non solo in termini di visibilità, regolamentazione e partecipazione, ma sono anche strettamente collegati tra loro attraverso dinamiche di migrazione che avvengono tra ambienti marginali (fringe) e quelli più mainstream.
Capire queste dinamiche è essenziale per mappare i percorsi della rabbia sociale, che transita tra gruppi Telegram e pagine Facebook, si intensifica nelle discussioni su X (ex Twitter), e si consolida infine nei discorsi pubblici su piattaforme come Instagram.
Questo contesto di interconnessione tra una sfera pubblica frammentata e l’ascesa di posizioni marginali e anti-mainstream costituisce un elemento centrale della fringe democracy.
Ci spinge a considerare quei sistemi di pensiero, pratiche e movimenti politici che operano ai margini delle norme democratiche tradizionali, ma che stanno guadagnando sempre più spazio nel dibattito pubblico contemporaneo.
Anche se questi sistemi sfidano principi democratici fondamentali come il pluralismo, l'inclusività, il rispetto dei diritti delle minoranze e l'adesione allo stato di diritto, il loro peso sembra diventare sempre più rilevante anche nelle dinamiche di consenso degli attori politici tradizionali.
Questi processi trovano ulteriore forza nella partecipazione dei cittadini a piattaforme online alternative, le cosiddette “fringe platforms”.
A questo proposito il dibattito pubblico sul ruolo di Telegram, ad esempio, e le recenti azioni legali della magistratura francese contro il suo amministratore delegato, Pavel Durov, sono emblematici del profondo legame tra democrazia, piattaformizzazione della sfera pubblica e rabbia sociale.
Diversi studi hanno evidenziato come questi spazi siano spesso associati a ecosistemi di disinformazione, alla diffusione di narrazioni cospirazioniste e a ideologie populiste ed estremiste.
Numerosi episodi recenti e una crescente letteratura accademica hanno rivelato l’esistenza di una relazione interdipendente tra l’espansione di piattaforme online alternative e l’aumento di forme di estrema destra.
Questi spazi digitali, spesso isolati dal mainstream, possono fungere da laboratori per l’elaborazione di visioni estremiste che, col tempo, si insinuano nel discorso pubblico più ampio. Tuttavia, va anche riconosciuto che questi spazi offrono una voce a comunità marginalizzate e svantaggiate, contribuendo così a nuove forme di dibattito pubblico.
In tal senso il rapporto tra “piattaformizzazione” della sfera pubblica e fringe democracy si sviluppa lungo diversi percorsi che è sempre più necessario esplorare.
Esiste innanzitutto un tema di amplificazione delle voci marginali e capacità di mobilitazione. Le piattaforme digitali forniscono ai gruppi fringe strumenti potenti per diffondere le loro ideologie e i loro messaggi.
I social media, in particolare, permettono a questi gruppi di raggiungere un pubblico globale, scavalcando i tradizionali “guardiani” come i media tradizionali e le istituzioni politiche. Le piattaforme online consentono poi ai gruppi marginali di organizzarsi e mobilitarsi in modo più efficiente.
Questo ha portato a una rapida crescita e a una maggiore visibilità dei movimenti marginali, che possono influenzare le agende politiche e il discorso pubblico.
Ci troviamo così di fronte a una crescita di polarizzazione e sovraesposizione del pensiero marginale, poiché negli ambienti digitali, gli utenti sono esposti principalmente a informazioni e punti di vista che rafforzano le loro convinzioni esistenti (attraverso le note dinamiche delle filter bubble ed echo chamber) e che finiscono per accentuare la polarizzazione.
Ciò può intensificare le opinioni radicali e far apparire le ideologie marginali più diffuse e accettate di quanto non lo siano nella società in generale.
Esiste poi un rischio connesso alla diffusione della disinformazione e della propaganda che il processo di piattaformizzazione ha facilitato.
I gruppi marginali spesso sfruttano questi meccanismi per diffondere informazioni false o fuorvianti, manipolare l’opinione pubblica e screditare le istituzioni e i processi democratici tradizionali.
Dobbiamo, inoltre, confrontarci con il fatto che le piattaforme online mettono in contatto individui che la pensano allo stesso modo, condividono la stessa rabbia, al di là delle frontiere, consentendo ai di creare fringe network transnazionali. Questa portata globale aumenta la loro influenza e la capacità di condividere strategie, risorse e sostegno.
Infine, le piattaforme online hanno permesso la creazione di ecosistemi mediali alternativi dove i gruppi marginali possono produrre e distribuire i loro contenuti. Questi ecosistemi spesso operano indipendentemente dalla supervisione e dagli standard dei media tradizionali, il che può portare alla proliferazione di contenuti estremi e non verificati.
Ma è anche necessario riflettere criticamente sulla stessa categoria di “fringe” che, come studiose/i, giornaliste/i e osservatrici/osservatori, utilizziamo per analizzare questi fenomeni: è possibile che questi strumenti di comprensione diventino etichette che rafforzano ulteriormente le distinzioni tra centro e periferia della sfera pubblica?
E che finiscano per concentrarsi sulla “rabbia” come causa e allo stesso tempo conseguenza dell’abitare questi spazi di connessione, come una malattia dei nostri tempi che nei social media prolifera pandemicamente.
E non considerarla, piuttosto, come un sintomo di una trasformazione del dibattito pubblico e della postura che i cittadini assumono in una democrazia profondamente trasformata dalla post-politica.
Nonostante le sue potenziali conseguenze negative, infatti, la rabbia può anche essere vista come uno strumento di resistenza e di potere, soprattutto per quei gruppi che si trovano ai margini o che si vivono (comunicativamente) ai margini.
Per questi gruppi, la rabbia può essere una forma di riscatto, un modo per affermare la propria dignità e per rivendicare i propri diritti. In questo senso, la rabbia può avere un effetto emancipatorio – e di questa dinamica i social media, nel bene e nel male, sono parte.
Perché, come ci ricorda, Invernizzi-Accetti nel suo intervento al dibattito oltre che nel libro, in fondo ci troviamo di fronte ad una lotta per il riconoscimento e la rabbia “non può semplicemente essere ‘curata’, come una malattia, da un agente esterno”.
Forse, quindi, è possibile immaginare gli spazi fringe online non solo come incubatori di radicalizzazione, ma anche come arene in cui si esprimono le tensioni di una società in trasformazione, dove la rabbia, anziché essere repressa, viene articolata e canalizzata in forme nuove e potenzialmente costruttive di partecipazione democratica.
La fringe democracy che oggi vediamo emergere non deve essere vista solo come una minaccia, ma anche come un segnale di cambiamento. È un richiamo a ripensare le nostre istituzioni democratiche e a renderle più adeguate ai bisogni e alle aspirazioni di tutte le cittadine e i cittadini, non solo di quelli che si trovano al centro del sistema politico ed economico.
E se fosse una opportunità?
In conclusione, l'intricata relazione tra rabbia sociale, piattaforme digitali e quella che abbiamo definito fringe democracy presenta sfide significative ma al contempo apre a nuove opportunità per ridefinire la partecipazione democratica nell’era digitale.
La rabbia, spesso percepita come forza divisiva, può invece essere reimmaginata come un motore di cambiamento ed emancipazione, soprattutto per quei gruppi che trovano nei margini della sfera pubblica uno spazio per far sentire la propria voce.
Per affrontare la sfida posta dalla rabbia nella fringe democracy, le istituzioni democratiche devono sviluppare nuovi modi per gestire e canalizzare questa emozione.
Ciò significa, in primo luogo, riconoscere la legittimità della rabbia come espressione di un disagio reale, e non semplicemente come un’anomalia o una minaccia da reprimere.
Significa anche creare spazi di dialogo e di partecipazione che permettano alle persone di esprimere la loro rabbia in modo costruttivo, trasformandola in una forza positiva per il cambiamento sociale.
Questo potrebbe includere nuove forme di democrazia partecipativa, che diano voce a quei gruppi che si sentono esclusi dai processi decisionali tradizionali, e che permettano una maggiore trasparenza e responsabilità da parte delle istituzioni.
Tuttavia, per trasformare questi spazi da focolai di disinformazione e risentimento in arene costruttive per il dialogo democratico, è necessario perseguire una serie di azioni strategiche.
Un primo passo fondamentale consiste nell’investire nell'educazione critica ai media e ai social media. Promuovere la capacità di cittadini e cittadine di analizzare, valutare e creare contenuti mediali consapevoli è essenziale per contrastare la disinformazione e promuovere un uso più sano e riflessivo delle piattaforme digitali.
Insegnare a riconoscere e gestire le emozioni, come la rabbia, nel contesto delle interazioni online può aiutare a prevenire l’escalation di conflitti e la diffusione di contenuti tossici.
È altrettanto cruciale sviluppare piattaforme digitali che siano alternative ai grandi social media commerciali.
Questi spazi dovrebbero essere progettati per essere pubblici e non soggetti alle logiche del mercato, con l'obiettivo di promuovere il dibattito democratico e la partecipazione civica.
Potrebbero funzionare come forum aperti e inclusivi, regolati da principi di trasparenza, pluralismo e rispetto dei diritti umani, offrendo un ambiente sicuro per la discussione pubblica e l'espressione delle diversità.
Occorre poi sviluppare politiche orientate a sostenere le comunità che si esprimono nei margini della sfera pubblica, garantendo che abbiano accesso a strumenti e piattaforme per partecipare pienamente al dibattito democratico.
Ciò include non solo la protezione contro l’abuso e la discriminazione online, ma anche il supporto attivo per la loro integrazione nei processi decisionali pubblici.
Infine, è importante incentivare la creazione di reti transnazionali che favoriscano il dialogo e la collaborazione tra diverse culture e realtà sociali.
Tali reti potrebbero contribuire a diffondere best practices nella gestione degli spazi pubblici online e nella promozione della partecipazione democratica, riducendo così l’impatto delle narrative divisive e dei movimenti estremisti.
In sintesi, se da un lato gli spazi fringe online possono rappresentare una minaccia per la coesione sociale e il dibattito democratico, dall’altro essi offrono anche l'opportunità di ripensare e rafforzare le modalità di partecipazione politica nell’era digitale.
Attraverso politiche di alfabetizzazione mediale, lo sviluppo di spazi digitali alternativi e una regolamentazione attenta e inclusiva, possiamo lavorare per trasformare questi ambienti in risorse preziose per una democrazia più partecipativa e resiliente.
La ricerca di canali per utilizzare positivamente questa rabbia è interessante e condivisibile, ma temo rimanga un pio desiderio verso una società ideale mai esistita e utopica. Per esempio quando si progettano "spazi [che] dovrebbero [...] essere pubblici e non soggetti alle logiche del mercato, con l'obiettivo di promuovere il dibattito democratico e la partecipazione civica" non è che tecnicamente non sia possibile, ma si corre il rischio di creare bellissime strutture che rimarranno vuote, come i tanti edifici pubblici che vediamo abbandonati nelle campagne d'Italia, perché sono mancate le persone che avrebbero potuto dare vita a oggetti inerti. Le soluzioni calate dall'alto, e in special modo quelle che dovrebbero dar voce a questa rabbia così pervasiva, credo possano poco; semmai dovrebbe essere dato spazio progettuale a chi dal basso vive questa rabbia, e in questo spazio dovrebbe essere compreso il tempo necessario per pensare a come realizzare e come abitare tali spazi. La rabbia che sentiamo crescere appartiene spesso a persone stanche di dover correre senza avere davanti una meta (un progetto di vita, la pensione che sta diventando una chimera quando non una promessa di ulteriore povertà, una "stanza tutta per sè" metaforica di uno spazio che crediamo esista ma che viene negato), come criceti che corrono senza dosta lungo una ruota socuale che non ti fa spostare di un millimetro dal disagio in cui ti trovi. Senza un prospettiva creata da uno spazio progettuale concreto temo non si uscirà da questa situazione. Sono pessimista su questa possibilità. Soprattutto oggi. Soprattutto oggi in Italia.
Io mi chiedo però, poniamo anche che tutti questi buoni propositi per rendere questa rabbia costruttiva vengano concretizzati e abbiano successo, ma quale spazio per il vero cambiamento è concesso nella società che abbiamo costruito? Perdonate il pessimismo e anche quella che forse potrebbe apparire come una mia fissazione, ma non credo che ci possa essere alcun cambiamento sostanziale - di cambiamenti solo di facciata invece ne abbiamo visti molti - all'interno del perimetro dell'Unione Europea i cui Trattati non prevedono assolutamente di poter deviare dalla traiettoria del neoliberismo? Secondo me ( sì sono molto di parte) l'unica speranza per il genere umano viene dal socialismo ecco perchè detesto questa Europa creata esattamente al fine di tacitare, mettere all'angolo, neutralizzare la gente che lavora e dare mano libera al capitale finanziario internazionale di razziare come più gli conviene nei paesi europei. Non dico niente di nuovo visto che negli anni Cinquanta del secolo scorso esistevano ancora politici coerenti che questi pericoli li avevano perfettamente individuati e avevano esattamente previsto che le cose sarebbero andate in questo modo pessimo.
E per questo mi fanno anche sorridere tutti i discorsi su come rendere l'Europa più democratica, la non .- democraticità dell'Europa era il fattore essenziale per poter portare a termine quello che io considero un grandissimo crimine contro i lavoratori (per lavoratori nel caso italiano includo anche la piccola e media impresa). Questo per dire che secondo me tutte le soluzioni che vengono palesate se non affrontano questo nodo cruciale hanno solo l'effetto di aumentare questa rabbia perché, anche se non sempre consapevolizzata probabilmente si intuisce la presa per il sedere