La firma digitale salva la democrazia
Il boom di sostegni al quesito referendario sulla cittadinanza ha allarmato qualcuno. Ma è la Costituzione ad auspicare che i cittadini possano usare i referendum per incidere sulla politica
Non è vera, però, l’equazione “velocità-facilità” nel caso della firma digitale; così come non è vero che basta depositare un quesito, anche il più bizzarro, perché lo stesso possa ottenere le firme necessarie. Lo dimostrano i dati
Andrea Morrone
Buongiorno a tutte e tutti,
Buongiorno a tutte e tutti,
ormai è quasi tutto pronto per la partenza di Revolution, da lunedì 30 settembre su Radio3 alle 19.45 e poi in podcast su Rai Play Sound e tutte le piattaforme.
Ogni venerdì ci sarà una diretta Instagram per parlare dei temi della settimana, raccogliere le vostre domande, le vostre critiche e suggestioni.
Ieri abbiamo fatto la prima, che potete trovare qua:
Molti hanno chiesto cose sul tema del referendum sulla cittadinanza, e qui trovate la tempestiva analisi di Andrea Morrone, che è il costituzionalista di riferimento di Appunti, professore all’Università di Bologna e soprattutto storico dei referendum, ai quali ha dedicato un bel libro recente per il Mulino, La Repubblica dei referendum.
Siamo un Paese molto strano, nel quale ci si lamenta sempre della scarsa partecipazione alle elezioni, del dramma dell’astensionismo, e poi quando un'innovazione procedurale - la firma elettronica - cambia tutto, allora ecco i timori per una democrazia troppo facile.
Come se complicare l’esercizio dei diritti democratici fosse un punto di merito e non una vergogna.
Con una decisione bizzarra, il ministero dell’Interno ha perfino deciso di anticipare la chiusura della raccolta delle firme, da lunedì a oggi, come se contare firme elettroniche, già certificate, fosse più complicato che validare migliaia e migliaia di documenti cartacei scritti a penna.
Comunque, la svolta digitale della democrazia è iniziata e sarà difficile tornare indietro. Ma leggete l’analisi di Andrea Morrone che è molto più sofisticata di così.
Buon sabato,
Stefano Feltri
Stefano
La firma digitale rivoluziona la partecipazione politica
di Andrea Morrone
Che la raccolta delle firme per il referendum sulla cittadinanza (che riduce da dieci a cinque anni il termine perché lo straniero possa richiederla) e contro la legge sull’autonomia differenziata (che, grazie alla Lega e al ministro Roberto Calderoli, rischia di “spaccare” il Paese) abbia superato 500 milasottoscrizioni è una notizia. Ma non perché il risultato è stato ottenuto grazie alla “firma digitale”.
Lo è perché i referendum – quando riguardano questioni di interesse generale – stanno facendo discutere l’opinione pubblica vitalizzando la nostra democrazia. E questa è una buona notizia.
È stato merito di Riccardo Magi essere riuscito a portare a termine, nella scorsa legislatura, un’iniziativa politica tante volte tentata dai Radicali ma senza successo: introdurre la raccolta online delle firme per promuovere i referendum o le iniziative legislative popolari.
Approfittando della conversione di un decreto-legge, Magi era riuscito ad anticipare l’attivazione della “piattaforma pubblica”, che la legge di bilancio per il 2021 aveva previsto per favorire la partecipazione di persone affette da disabilità.
Mancando il relativo decreto di attuazione, Magi feceapprovare una norma che consentiva subito la raccolta col digitale, estendendola a tutti gli elettori, mediante una piattaforma privata (in attesa di quella pubblica), a spese dei promotori.
Grazie all’emendamento Magi era stato possibile completare la raccolta delle firme per promuovere il referendum per l’eutanasia attiva – la cui iniziativa era già iniziata prima nella forma tradizionale dei banchetti allestiti in piazza – e, soprattutto, per il referendum sulla “cannabis legale”, che, solo così, in pochi giorni, aveva superato 650 mila sottoscrizioni.
Oggi, finalmente, lo Stato ha attivato la “piattaforma nazionale dei referendum e delle iniziative popolari”, raggiungibile dal sito del ministero della Giustizia, consentendo a tutti gli elettori di sottoscrivere online, accedendo con la propria identità digitale (tramite lo Spid, la Cie ecc.).
Troppo facile?
La firma digitale ha rivoluzionato la partecipazione politica. Dopo il caso del referendum sulla cannabis, anche per il referendum sulla cittadinanza sono stati sufficienti pochi giorni perraggiungere e superare la soglia delle 500 mila firme. Quello sull’autonomia differenziata si è avvalso di una modalità mista: se la maggior parte delle firme sono venute dai banchetti, quelle ottenute digitalmente hanno comunque oltrepassato il quorum.
La velocità ha allarmato. In occasione dei referendum sull’eutanasia e sulla cannabis ci fu una pioggia di critiche. Opinionisti di vaglia dichiararono che tramite la firma digitale si sarebbe realizzata una “cliccocrazia”, una “spid-democracy”, un “direttismo legislativo”, una “Fedez-crazia” (evocando il potere “social” degli influencer); insomma, una deriva plebiscitaria che avrebbe provocato la fine della democrazia rappresentativa.
Toni dei tutto simili si possono sentire in questi giorni. Anche un osservatore attento come Antonio Polito (Un’arma a doppio taglio, in Corriere della sera, 26 settembre 2024) ha parlato di “referendum speedy gonzales”, che attribuiscono a “piccole minoranze attive un potere troppo grande”, che si risolvono in “referendum finti”, per essere destinati, molto probabilmente, a non superare o il controllo della Corte costituzionale o lo scoglio del quorum funzionale di partecipazione al voto (il 50 per cento più uno degli elettori).
In tale scenario, Polito propone di correre ai ripari modificando la legge: “in entrata” innalzando le firme a un milione (come se ciò potesse arginare la speditezza del digitale); “in uscita” abbassando il quorum di validità alla metà dei votanti alle ultime elezioni (una proposta che, per contrastare l’astensione organizzata, io e Augusto Barbera avevamo fatto nella La Repubblica dei referendum del 2003).
Come è facile dimostrare, i critici della raccolta digitale sbagliano. Farlo mediante i banchetti era un’impresa davvero faticosa e dispendiosa.
Io l’ho fatto più volte. Nondimeno, possono permetterselo solo i gruppi ben organizzati e con abbondanti risorse (per i Radicali era stata una vera e propria professione politica), capaci di mobilitare e di convincere persone. Il digitale, com’è proprio di questo medium, ha senza dubbio semplificato le cose.
Non è vera, però, l’equazione “velocità-facilità” nel caso della firma digitale; così come non è vero che basta depositare un quesito, anche il più bizzarro, perché lo stesso possa ottenere le firme necessarie. Lo dimostrano i dati.
Per limitarci a questa tornata, chi accede alla piattaforma nazionale può trovare 12 quesiti referendari e 11 progetti di legge popolare. Di questi, tuttavia, solo i due referendum su cittadinanza e autonomia differenziata hanno superato il tetto.
Vista la scadenza imminente del 30 settembre (data ultima per poter presentare le firme in Cassazione), è probabile che per gli altri non ci sia più tempo.
Non saranno gli unici referendum sui quali si potrà votare, se supereranno i controlli. Come forse si sa, la Cgil ha depositato quattro quesiti in materia di tutela del lavoro (tra cui spicca l’abrogazione del “Jobs Act” sul contratto a tutele crescenti), per i quali le firme sono state recuperate solo in modo tradizionale.
Inoltre, cinque regioni contrarie all’autonomia differenziata hanno presentato alcuni quesiti di parziale abrogazione della legge Calderoli (che si aggiungono a quello “totale” di cui s’è detto). Risulta quindi difficile sostenere che la firma digitale ha sostituito la mobilitazione nelle piazze o l’iniziativa delle regioni.
Il digitale non basta
Pure volgendo lo sguardo all’estate del 2021, si ha conferma del fatto che il digitale non funziona sempre, e non per tutti. Questa opportunità hanno colto solo i promotori dei quesiti sull’eutanasia e sulla cannabis; mentre, sorprendentemente, visto il clamore della pandemia e dei critici alle misure restrittive, non era riuscito a coglierla il Comitato “no green pass”, che aveva proposto ben sei referendum (così come non c’erano riusciti il Comitato promotore dei referendum sulla caccia e la stessa Lega che, per aggirare le incognite della raccolta offline, preferì fare presentare i sei quesiti sulla “giustizia giusta” dalle regioni di centrodestra, tradendo i Radicali, con i quali, almeno inizialmente, sia erano trovati alleati).
Perché tutto questo è accaduto? Perché – al netto delle energie che occorre investire per collegarsi alla piattaforma ministeriale e per capire come fare a sottoscrivere una proposta online – non tutte le domande che vengono presentate meritano di essere firmate.
Gli elettori non sono quel “popolo bue” di cui parlano molti osservatori. I cittadini che decidono di collegarsi sono – forse più di coloro che vengono fermati o si rivolgono ai banchetti – ben informati, scelgono consapevolmente, firmando ciò che pensano abbia valore (questo è finora accaduto).
Il punto più importante è che non siamo affatto all’alba di una “speed-democracy”, che sta prendendo il posto della democrazia rappresentativa. Chi decide nel Paese, ancora oggi, non sono le minoranze ben organizzate che propongono i referendum.
Del resto, la crisi delle istituzioni politiche, dei partiti e del Parlamento soprattutto, non dipende da queste timide iniezioni di “democrazia digitale”, ma da ragioni diverse, antiche e profonde, che è inutile ricordare perché ampiamente note, anche se spesso dimenticate.
Se “in entrata” i referendum più interessanti (e per questo scelti dagli elettori) sfruttano le virtù di un dispositivo tecnologico (ma dove sono quanti celebravano il digitale come medium decisivo per aumentare la libertà?), va detto che “in uscita”anche i referendum digitali devono superare tutti gli ostacoli che la legge, i giudici, la politica, hanno eretto per intralciare l’esercizio di questo dispositivo democratico.
Col digitale si possono raccogliere le firme per presentare una richiesta. È solo il primo step, e il meno insidioso. Ogni richiesta deve poi affrontare i controlli della Cassazione e della Corte costituzionale.
La giurisprudenza di quest’ultima prova che i giudici sono più inclini a cercare “i peli nell’uovo” (come li ha chiamati il presidente Giuliano Amato quando si decise l’inammissibilità del quesito sull’eutanasia) invece di agevolare, nel rispetto della Costituzione, l’esercizio del diritto al referendum.
E, ancora, come se non bastasse, c’è l’ipoteca del quorum funzionale. Dal 1995, tranne l’eccezionale caso dei referendum sul nucleare (c’era stato l’incidente di Fukushima) e sull’acqua pubblica (2011), l’astensione dal voto ha sempre vinto (grazie ad un illegittimo “invito a disertare le urne”, organizzato da minoranze, queste sì davvero “potenti”, che hanno sfruttato a proprio vantaggio l’astensione fisiologica, per impedire ai cittadini di decidere democraticamente e senza imbrogli con un “sì” o con un “no”).
La pressione sulla politica
E, allora, perché tanto allarme? Chi ha memoria storica sa che la democrazia referendaria – ammesso che possa usarsi questa espressione – è sempre stata ritenuta “nemica” della democrazia rappresentativa. I partiti hanno in genere tenuto due atteggiamenti: o impedire che, al loro posto, fossero i comitati referendari a stabilire i contenuti dell’agenda politica; o cavalcare i referendum quando da questi poteva derivarne un vantaggio.
In questo orizzonte, anche il referendum sulla cittadinanza turba la politica ma non perché è stato “facile” firmarlo: viceversa perché, come altre volte in passato, sollecita il potere politico su un tema urticante, tanto per la maggioranza, quanto per le opposizioni, guarda caso “diversamente indecise” su questo argomento fondamentale (nonostante la retorica sull’immigrazione clandestina, sul deficit di natalità, sull’esigenza di nuova forza lavoro, sull’accoglienza degli stranieri, sullo ius culturae o sullo ius scholae quale presupposto per estendere la cittadinanza). Lo stesso vale per il referendum sull’autonomia differenziata, che oltre al Nord e al Sud, divide la destra (che pure ha approvato a tamburo battente la legge) e le sinistre (al cui interno da tempo manca una linea sulla “questione regionale”).
Ogni volta che un referendum riguarda un tema decisivo suscitando perciòl’interesse dell’opinione pubblica (non mi riferisco quindi alle tante domande inutili, ridicole e prive di rilevanza), i partiti e i rappresentanti improvvisamente si attivano con discussioni, ordini del giorno, proposte. Non importa, in fondo, se questo interesse della politica sia reale o funzionale alla partitocrazia. È comunque importante.
Il referendum era stato pensato dai Costituenti come un grimaldello per sollecitare il legislatore a intervenire su questioni fondamentali trascurate dalla politica e dal Parlamento; come un essenziale contropotere democratico all’ostruzionismo del potere, non solo quello della maggioranza di governo, ma pure degli stessi partiti di minoranza (quante volte abbiamo visto le opposizioni muoversi contro referendum che, pur su temi comuni, toglievano loro la scena?).
Contrariamente a quanto pensano gli allarmisti, ciò che conta davvero, allora, è che alcuni referendum su questioni decisive, anche grazie al digitale, siano stati presentati, e che, in questo modo, la democrazia italiana ne possa trarre linfa. I nostri sforzi vanno perciò indirizzati a prendere sul serio le domande popolari, facendo tutto il possibile affinché, come pure altre volte è accaduto (divorzio, aborto, legge elettorale maggioritaria, elezione diretta del sindaco), il Parlamento se ne faccia carico, o in alternativa, affinché il corpo elettorale possa decidere.
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Leggo troppa diffidenza e son convinta che ciascuno di noi lavori/interagisca tramite internet... Mi chiedo perché, dato che in tantissimi Paesi si vota (!) tramite internet
Uso Internet dal 1995; e lo Spid da anni. Oggi ho provato a entrare nella mia piattaforma dello SPID e ho scoperto che vi e' qualcosa che non funziona (disturbo segnalato anche da altri utenti della stessa piattaforma): il numero random dato dalla mia app Non corrisponde a quello della piattaforma del Referendum. Ho l'impressione che il provider in questi gg non funziona. Chiederò Lunedì (30 settembre !) . Continuo a pensare che non e' saggio usare un solo emisfero ( quello telematico), quando abbiamo due emisferi (il mondo degli sportelli e della carta non sono evaporati).
Ne' dobbiamo escludere due ipotesi: i server privati dei provider Non si sono preparati alla richiesta massiccia di uso delle firme online; siamo indotti inoltre a sospettare, spero di no, che vi siano pressioni indebite su questi provider, pressioni che bloccano un po' la loro evoluzione, proprio ora che abbiamo necessita di più democrazia digitale.
Per cui resto dell'idea che, accanto alle piattaforme digitali, gli organizzatori debbano prevedere un certo numero di banchetti (non si puo passare da tanti banchetti a zero banchetti) e istruzioni per andare a firmare in comune
Francesco Del Zotti - https://qualereteinsanita.blogspot.com/2024/