Un primo bilancio dell'anno super-elettorale
Nel 2024 votano 2 miliardi di persone, e spesso è la democrazia la posta in gioco. Con molte grandi elezioni alle spalle, possiamo dire che sta andando meglio del previsto. In attesa degli Usa
In questo primo momento di bilancio dell’anno super-elettorale possiamo constatare che la democrazia sta reggendo meglio del previsto. Ma non mancano gli spunti per il pessimismo. Soprattutto per gli italiani
L’anno delle elezioni sta andando un po’ meglio del previsto. Forse perché non siamo ancora arrivati a novembre, quando votano gli Stati Uniti.
Il 2024 è l’anno più elettorale della storia, con 76 Paesi al voto e 2 miliardi di persone coinvolte in elezioni spesso irregolari, talvolta fasulle, ma sempre con un margine di incertezza. E si temeva potesse andare molto male, ma se vogliamo fare un primo bilancio in questa pausa estiva, non possiamo lamentarci troppo.
In India - il Paese più grande al voto - Narendra Modi è stato confermato primo ministro per la terza volta, ma con una maggioranza risicata, senza l’investitura plebiscitaria che sperava.
Una sorpresa positiva per la democrazia indiana che ora pare un po’ meno a rischio di una deriva settaria. Il progetto di Modi di trasformare un Paese complesso e variegato in una nazione indù che discrimina i musulmani (200 milioni di indiani) forse è se non bloccato, almeno più complicato.
Nel vicino Bangladesh gli studenti hanno costretto alle dimissioni e alla fuga la premier Sheikh Hasina, che ha represso le proteste nel sangue, poi hanno fermato un colpo di Stato militare e infine hanno affidato il governo ad interim del Paese all’inventore del microcredito, il premio Nobel Mohamed Yunus.
Non significa che il Paese ora vada incontro a una stagione di calma e prosperità, ma di sicuro sono sviluppi inattesi e migliori di quelli che si temevano.
In Venezuela il presidente Nicolás Maduro ha truccato l'ennesima elezione - l’unico modo per vincerla dopo aver ridotto il Paese alla fame - ma l’opposizione resiste e contesta i brogli.
Mentre in Italia alcuni opinionisti accecati dal loro antiamericanismo difendono il successo “democratico” di Maduro, dagli Stati Uniti e dal resto del mondo cresce la pressione per impedire che Maduro conservi un potere che non gli spetta e di cui fa un uso spregiudicato e disastroso per il Paese.
Negli Stati Uniti Donald Trump già pregustava una nuova vittoria, l’unico risultato elettorale che è disposto ad accettare, e la vendetta sui suoi nemici, prima di tutti i giudici che hanno osato condannarlo, e poi i funzionari pubblici che durante la sua prima amministrazione gli hanno impedito di piegare alle sue esigenze personali la diplomazia o la politica monetaria.
Trump, tra l’altro, pretende che il presidente della Federal Reserve alzi o abbassi i tassi di interesse previo consulto con il presidente, con tanti saluti all’indipendenza su cui si reggono le banche centrali moderne.
Per fortuna l’anziano Joe Biden ha spiazzato Trump e il partito Repubblicano trumpizzato ritirandosi dalla corsa al secondo mandato alla Casa Bianca, e i Democratici ora schierano una coppia che almeno rende l’esito più incerto, con Kamala Harris e Tim Waltz. Secondo gli ultimi sondaggi, la competizione è aperta, per quanto non scontata. Addirittura pare che il ticket Harris-Waltz sia in vantaggio negli Stati decisivi.
In Francia il presidente Emmanuel Macron, dopo il disastro alle elezioni europee di giugno, ha tentato l’azzardo di elezioni anticipate che hanno lasciato la Francia senza una chiara maggioranza e senza un governo durante le Olimpiadi, ma hanno dimostrato che la barriera contro l’arrivo dell’estrema destra al potere ancora regge.
L’alleanza tattica tra le sinistre e i riformisti, nel sistema a doppio turno francese, ha quantomeno impedito al Rassemblement National di Marine Le Pen di conquistare il governo per Jordan Bardella che già lo pregustava.
In Gran Bretagna i laburisti hanno stravinto a luglio dopo che i conservatori hanno deluso tutti con le promesse miracolose della Brexit e piani irrealizzabili per deportare i migranti in Ruanda: appena eletto il premier Keir Starmer ha subito dovuto gestire rivolte razziste contro i rifugiati, ma ha dimostrato calma e fermezza, a difesa dei valori democratici e senza concedere legittimità al razzismo xenofobo coltivato per quattordici anni dai Conservatori.
A sedare i facinorosi sono state, più che i manganelli della polizia, le pacifiche manifestazioni di migliaia di persone normali, in piazza contro gli estremisti di destra.
Una riscossa di civismo, a protezione della democrazia liberale e dei suoi valori, che già si era osservata in Germania nel tentativo di arginare gli slanci neonazisti del partito estremista Alternative fur Deutschland.
La democrazia nelle urne
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