Un nuovo patto con il lettore
Andrea Colamedici risponde alle critiche di Gianfranco Pellegrino per l’operazione Ipnocrazia, il libro scritto con l’intelligenza artificiale e attribuito al filosofo inesistente Jianwei Xun
La domanda per me non è se Ipnocrazia abbia tradito la fiducia dei lettori, ma se la vecchia forma di fiducia che si presuppone tradita sia ancora adeguata al mondo in cui viviamo. E se non lo è, come possiamo svilupparne una diversa, più robusta e consapevole, capace di resistere alle manipolazioni algoritmiche e all’ambiente cognitivo saturo in cui siamo immersi.
Andrea Colamedici
Ho letto con attenzione la newsletter di Appunti scritta da Gianfranco Pellegrino dedicata al caso Ipnocrazia. In particolare, mi ha colpito il fatto che una delle questioni centrali per il professore della Luiss riguardasse il patto tra chi scrive e chi legge, e ringrazio Stefano Feltri per avermi dato la possibilità di rispondere a quegli spunti.
Che tipo di relazione può esistere tra autore e pubblico, in un contesto attuale in cui le narrazioni sono sempre più numerose e contraddittorie? Il patto tradizionale si fondava su alcune condizioni oggi profondamente in crisi. Nella comunicazione attuale, che è plasmata da logiche di visibilità, amplificazione selettiva e automazione dei flussi informativi, queste condizioni si sono fatte opache, fluide e talvolta contraddittorie.
Gianfranco Pellegrino legge il progetto Ipnocrazia (di cui sono l’autore) come un caso di manipolazione della fiducia del lettore. L’accusa è chiara: creare uno scrittore fittizio per veicolare una narrazione, anche se “a fin di bene” (sebbene l’autore dica, neanche troppo velatamente, di considerare l’ipotesi che il tutto sia una manovra di marketing) significa rompere il patto con il lettore e “rubare per far vedere come rubano gli altri”. Io credo che questa posizione, per quanto legittima, rischi di non cogliere il quadro più ampio: il pericolo non è la credulità, ma il cinismo.
Oggi che la manipolazione della percezione è diventata estremamente pervasiva, il patto tra chi scrive e chi legge - infatti - ha bisogno di evolvere.
Eppure, di fronte a Ipnocrazia io ho avvertito la nostalgia verso la solidità di un patto, forse per far fronte all’enorme frammentazione del reale e alla messa in crisi del principio di realtà. “È già tutto tanto complicato e non vediamo niente di buono all’orizzonte. Non ti ci mettere anche tu”. È una nostalgia che, però, possiamo usare per rilanciare.
La fiducia tra chi scrive e chi legge non è mai scontata, e oggi più che mai va ripensata in termini adeguati alla complessità del presente. Quel che è necessario esplorare sono le possibilità di un nuovo patto che siano basate non sulla pretesa di una verità immediata, quanto sulla consapevolezza della natura complessa di ogni verità.
Non un accordo di fiducia cieca, ma un patto di vigilanza condivisa. In questa nuova relazione l’autore non dice semplicemente: “Fidati di me, ti dirò la verità”. Quanto, piuttosto: “Esploriamo insieme come si costruisce la verità nel mondo contemporaneo, e sviluppiamo gli strumenti per affrontare questo processo”.
Il lettore, dal canto suo, è invitato a diventare un partecipante attivo dell’esplorazione. Varie critiche al progetto Ipnocrazia sollevano intrinsecamente questa domanda: qual è il patto che lega autore, editore e lettore nell’era della manipolazione algoritmica?
La preoccupazione espressa da Pellegrino si fonda sull’idea che esperimenti come questo minino la fiducia sociale, rompendo un contratto tacito di sincerità che sarebbe alla base di ogni comunicazione autentica.
Eppure questa critica, seppur articolata e legittima nelle sue preoccupazioni, non coglie la proposta di un nuovo patto. Un patto più adeguato al tempo che viviamo, più consapevole delle sfide epistemiche che ci troviamo ad affrontare, più onesto riguardo alle condizioni in cui la verità oggi emerge.
Il patto tradizionale e i suoi limiti
Il patto tradizionale tra autore e lettore si è storicamente fondato su alcune premesse implicite: l’autore si impegna a dire la verità (o quella che ritiene tale); il lettore accetta di fidarsi, almeno provvisoriamente, della sincerità dell’autore; l’editore garantisce l’autenticità e l’integrità di questa relazione.
È un modello a tre finalizzato a tutelare lo spazio d’azione condiviso, che è anche un esercizio fondamentale di cittadinanza.
Questo modello ha funzionato relativamente bene in un’epoca in cui le fonti di informazione erano limitate e verificabili, la produzione culturale richiedeva investimenti significativi e passava attraverso processi di validazione istituzionale, e la distinzione tra vero e falso sembrava relativamente stabile.
Ma cosa accade quando questa distinzione si fa sfumata? Quando la verità stessa emerge non in quanto fondamento originario ma come effetto di processi complessi di negoziazione e costruzione (quale è sempre stata, d’altra parte, ma non con questa forza)?
Quando, poi, le tecnologie digitali rendono la produzione di realtà alternative non solo possibile ma quotidiana, non solo straordinaria ma strutturale, intrinseca al sistema di potere?
Il patto tradizionale diventa problematico non perché qualcuno lo viola, ma perché le sue premesse fondamentali non corrispondono all’ecosistema informativo e culturale in cui ci si ritrova a operare.
La tradizione letteraria e filosofica è ricca di esperimenti che hanno messo in discussione il patto tradizionale per esplorarne i limiti e le possibilità, fino ai più recenti esperimenti di Luther Blissett e Wu Ming.
Pellegrino - che con queste ultime tradizioni culturali non credo abbia rapporto diretto - sostiene che Jianwei Xun non abbia nulla a che vedere con questo filone di pratica e ricerca, e sia piuttosto affine a una truffa come quella delle teste di Modigliani.
Lo invito, allora, a leggere le riflessioni intorno a Ipnocrazia su L’Espresso di quella che fu la complice di alcune azioni di Luther Blissett, Loredana Lipperini, o quelle scritte da Mariano Tomatis, storico collaboratore del collettivo.
Ad ogni modo, questi esperimenti non sono semplici provocazioni o mistificazioni, ma tentativi - che possono anche rivelarsi mediocri o fallimentari - di creare nuovi spazi di pensiero, nuove modalità di relazione tra autore e lettore, nuove forme di curatela collettiva della verità.
Ipnocrazia si inserisce in questa tradizione, ma con una differenza: mentre gli esperimenti precedenti operavano in un contesto in cui la distinzione tra vero e falso era ancora relativamente stabile, questa agisce in un’epoca in cui quella distinzione è diventata molto più problematica.
Non si tratta di giocare con le convenzioni all'interno di un quadro condiviso, ma di esplorare le possibilità di un nuovo paradigma di riferimento.
Non si è mai trattato, poi, di mostrare la creduloneria del pubblico né, tantomeno, dei giornalisti ed esperti che hanno sostenuto le tesi di Xun.
Giornalisti che, in questo momento storico, non hanno alcun bisogno di essere sottoposti a scherzetti o test di attenzione, vista la mole disumana di informazioni che si trovano a gestire quotidianamente, oltre a compensi, ritmi e modalità di lavoro altrettanto disumani, e andrebbero piuttosto tutelati.
Sull’uso e abuso dell’IA
Il fatto è che le tesi di Xun restano valide, non sono una boutade. Interessanti o meno, chi si è rivisto in esse non è stato buggerato. Quelle tesi sono il frutto di una riflessione condotta utilizzando anche l’Intelligenza Artificiale, considerata come una tecnologia con cui analizzare la realtà mentre contribuisce pesantemente a plasmarla.
Sono io ad aver scelto di dire che nella scrittura del libro è stata utilizzata l’IA; non sono stato smascherato da nessuno. E ho scelto di dirlo perché, pur consapevole delle critiche che ne sarebbero venute, ho voluto problematizzare un tema che per me è fondamentale per la natura sperimentale e performativa del progetto: il fatto che stiamo usando male degli strumenti potentissimi, e che questo utilizzo è incredibilmente pericoloso.
Delegare l’esercizio del pensiero ai ChatGPT di turno, utilizzandoli in funzione oracolare e predatoria, produrrà conseguenze cognitive e sociali inimmaginabili.
È per questo che ho voluto portare l’attenzione su un altro modo di usare l’IA (che è il mio campo di studio all’Istituto Europeo di Design di Roma), che si fondi su una pratica contrastiva e riflessiva, e non con l’infinita conferma dei propri bias attraverso un’infrastruttura ideologica e manipolativa qual è invece ChatGPT nel suo utilizzo comune.
L’intelligenza artificiale può essere un interlocutore critico in un dialogo profondo, se smettiamo di consultarla come fosse un motore di ricerca capace di lavorare al posto nostro, dimostrando di non aver problematizzato né compreso il suo funzionamento.
La partecipazione al processo di riflessione e scrittura - che nel caso di Ipnocrazia non significa “far scrivere parti del libro all’IA”, come alcuni credono e purtroppo scrivono - non diminuisce il valore del risultato, ma lo arricchisce di una consapevolezza ulteriore: quella delle dinamiche della manipolazione algoritmica comprese attraverso un confronto diretto con le sue logiche.
In un’epoca in cui l’IA è già parte integrante della produzione culturale - quasi sempre in modo occulto - è cruciale sperimentare forme di collaborazione consapevole e critica che non deleghino passivamente il pensiero, né rifiutino aprioristicamente l’utilizzo di questi strumenti. Che non ci facciano ricadere né nella tecnofobia né nel tecnoentusiasmo, ma affrontino la sfida di un dialogo complesso tra intelligenze diverse.
Ciò che non colgono alcune critiche di questi giorni, tra le quali quella di Pellegrino è la meglio articolata, è il fatto che Ipnocrazia non ha mirato a smascherare la distrazione, né a denunciare i meccanismi della manipolazione contemporanea - che sono già fin troppo evidenti - ma a sollecitare una riflessione pubblica e a ribadire in maniera performativa le tesi del libro, che non si esauriscono affatto in un “siamo tutti ipnotizzati”.
Non basta dire ai lettori che viviamo tempi di manipolazione algoritmica della realtà; è importante, a mio avviso, che si faccia esperienza diretta di come questa può essere attraversata criticamente, e che si senta il desiderio di farlo.
Il progetto ha voluto creare uno spazio in cui questa esperienza potesse avvenire, nel quale le dinamiche dell’ipnocrazia venissero riprodotte in forma attenuata e consapevole, con l’obiettivo di sviluppare anticorpi cognitivi attraverso un’esposizione temporanea.
Il fine ultimo di questo nuovo patto non dev’essere in alcun modo la distruzione della fiducia sociale, ma la sua trasformazione in qualcosa di più solido e adeguato: quella che nel libro Xun chiama sovranità percettiva condivisa.
La sovranità percettiva non è la capacità di distinguere in modo netto e definitivo il vero dal falso – un’impresa ardua nell’ecosistema informativo contemporaneo – ma la capacità di navigare consapevolmente tra realtà multiple, riconoscendo la natura costruita di ogni verità senza per questo cadere nel relativismo o nel cinismo.
È la capacità di abitare la soglia tra credenza e scetticismo, tra immersione e distacco, sviluppando una forma di attenzione che non è né ingenuamente fiduciosa né patologicamente sospettosa, ma vigile.
Questa sovranità percettiva non è un dono naturale, ma una competenza che deve essere coltivata attraverso pratiche specifiche. Ipnocrazia è una di queste e molte altre, mi auguro, ne nasceranno.
Il caso Ron Vara: una differenza cruciale
La critica presente nel pezzo su Appunti paragona poi Ipnocrazia al caso di Ron Vara, l’economista fittizio citato da Peter Navarro, consigliere di Trump, nei suoi scritti. Ma la differenza tra i due casi è fondamentale. Ron Vara non è stato concepito come un esperimento epistemologico, ma come un dispositivo di autorità fittizia per legittimare posizioni ideologiche.
La sua scoperta non era programmata come quella di Xun, ma accidentale. La sua funzione non era esplorativa, ma persuasiva. Jianwei Xun, al contrario di Ron Vara, è stato concepito sin dall’inizio come un dispositivo di esplorazione e apprendimento, con una rivelazione programmata e con tracce sparse esplicite della propria natura sperimentale.
La sua funzione non è stata quella di persuadere ma esplorare e problematizzare. La differenza non è marginale ma costitutiva. È quella che c’è tra manipolazione e meta-riflessione, tra inganno e pratica critica.
Il futuro della cultura nell’era dell’ipnocrazia non sta nel ritorno a una purezza originaria - che non è mai esistita - né nell’abbandono a un relativismo nichilista che rinuncia a ogni forma di verità. Sta, piuttosto, nella capacità di abitare e vigilare la soglia, di sviluppare una forma di attenzione che sia simultaneamente immersiva e distaccata, critica e partecipativa.
Questa capacità è una modalità qualitativamente diversa di relazione con la verità. Possiamo sviluppare una forma di presenza che permetta di riconoscere la natura costruita di ogni verità senza per questo rinunciare alla ricerca della verità stessa.
Insomma, Ipnocrazia non è un progetto perfetto, né pretende di esserlo. È un esperimento, con tutti i limiti e i rischi che ogni esperimento comporta. Ma è un esperimento che a me è parso e pare tuttora utile, in un’epoca in cui le vecchie mappe non funzionano più, e stiamo provando a disegnare le nuove.
La critica a Ipnocrazia è legittima e necessaria, ma è importante esplorare la possibilità che il progetto non sia una semplice violazione del patto tradizionale.
La domanda per me non è se Ipnocrazia abbia tradito la fiducia dei lettori, ma se la vecchia forma di fiducia che si presuppone tradita sia ancora adeguata al mondo in cui viviamo. E se non lo è, come possiamo svilupparne una diversa, più robusta e consapevole, capace di resistere alle manipolazioni algoritmiche e all’ambiente cognitivo saturo in cui siamo immersi.
Questo è il compito che, a mio avviso, ci attende come docenti, giornalisti, intellettuali, studiosi, cittadini: non difendere nostalgicamente un modello di relazione autore-lettore ormai inadeguato, né abbandonarci al cinismo di un mondo senza verità, ma esplorare insieme le possibilità di un nuovo patto, di una nuova etica della lettura e della scrittura, di una nuova forma di comunità cognitiva.
È difficile, e avevo messo in conto che avrei ricevuto, oltre agli entusiasmi, critiche dure. Va bene così, fa parte del gioco fin dall’inizio. Ma è anche un compito necessario per tutti e, io credo, il più urgente del nostro tempo.
Siamo sicuri che Andrea Colamedici esista?
La risposta di Stefano Feltri
Ringrazio Gianfranco Pellegrino e Andrea Colamedici, e prima di loro Gloria Origgi, per aver aperto queste discussione che credo sia utile.
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