Tu sei diverso
Diversità è la rubrica del giornalista e scrittore Angelo Molica Franco per Appunti su identità individuali e narrazioni collettive . Qui si parla di Sandro Penna, Orlando, Pasolini, Truman Capote...
Da bambino diverso mi calzava a pennello. Ero troppo sensibile, troppo femminile, troppo bizzarro, troppo introverso. Ero sempre troppo qualcosa.
Buon sabato,
è stata una settimana lunga e itinerante, che ha incluso l’uscita del nuovo libro. Ringrazio qui collettivamente i tanti e le tante che mi hanno scritto in privato per commentare e congratularsi, non tanto per le Dieci rivoluzioni nell’economia globale (Utet) quanto per l’undicesima, l’arrivo della piccola Linda.
Oggi su Appunti torna il giornalista e scrittore Angelo Molica Franco con la sua rubrica Diversità e un pezzo-manifesto strepitoso. Angelo ha sviluppato questi temi nel suo ultimo libro, Il buio straordinario. La nascita dell'identità omosessuale nel romanzo del Novecento (People), quindi nessuna sorpresa che sia bravo e acuto. Però c’è una cosa che va sottolineata.
Come leggerete, Angelo tratta di questioni - quelle di genere, di identità sessuale, di discriminazione - che sono ormai le più ossessivamente commentate sui social.
La differenza tra apporre una bandierina arcobaleno al proprio account o fare qualche post indignato e il tentativo di scavare - nella letteratura, nella propria biografia, nella storia - é quella che passa tra banalizzazione e comprensione.
Il chiacchiericcio social sui diritti non sposta di una virgola sensibilità e idee, genera soltanto un nuovo conformismo politicamente corretto (come ogni conformismo, del resto).
Angelo offre una prospettiva diversa, ci costringe a cambi di visuale, ci porta a pensare, a leggere.
Sono contento che esista Appunti perché così idee e ragionamenti come quelli di Angelo hanno uno spazio accogliente che li aspetta e una comunità attenta e partecipe che non vede l’ora di leggerli.
Buon sabato,
Stefano
Felicità diversa
“Tu sei diverso” è un marchio che mi sento cucito addosso dacché ho memoria. La prima volta che da piccolo qualcuno ha inarcato pensieroso le sopracciglia davanti a me, fissandomi, con la faccia di chi si sta chiedendo come mai io non sembro uguale agli altri, la rammemoro a malapena, perché rimane appiccicata, schiacciata sul fondo da un ammasso di repliche.
Da bambino, del resto, diverso mi calzava a pennello. Ero troppo sensibile, troppo femminile, troppo bizzarro, troppo introverso. Ero sempre troppo qualcosa.
Anche i miei sogni erano diversi: diventare scrittore in un piccolo paese della Sicilia dove non erano previste né una biblioteca comunale né le scuole medie superiori. E come una pistola carica che non smette di avermi sotto tiro, la diversità è stata una costante di questi miei quarant’anni con la sensazione ricorrente di ritrovarmi adocchiato nel mirino di chi pensa di dovermi colpire, disprezzare, aggredire, di chi crede di avere il sacrosanto diritto di punire una mia colpa.
Nanni Moretti in una scena iconica di quel film cult che è Palombella Rossa (1989) grida che “le parole sono importanti”. E allora, prima di tutto, facciamo un passo indietro e torniamo alle parole.
Cosa significa “diverso”?
In un’altra direzione
In questa puntata della mia rubrica vorrei provare a tenere insieme il fascio di significati, attesi e inattesi (“non coincidenti” direbbe Ludwig Wittgenstein), che racchiude questo termine-ombrello.
Etimologicamente “diverso”, dal latino diversus – che proviene a sua volta dal verbo divèrtere – significa propriamente “volto altrove”, “voltato in altra parte”.
Essere diversi, dunque, significa percorrere un’altra direzione. Da nessuna parte si trova scritto che sia una direzione sbagliata, perché è soltanto una direzione non conforme a quella tracciata in precedenza.
Poi, per una di quelle capovolte che richiedono decenni e a volte secoli di uso del linguaggio, a partire dal tardo Settecento “diverso” ha iniziato a diventare eufemismo, cioè sinonimo temperato, di “invertito” e perciò di “sodomita”.
Non a caso, è dell’anno scorso la polemica su La Repubblica a proposito del Dizionario dei sinonimi e contrari della Hoepli (ospitato sul sito del quotidiano), che alla voce “diverso” lo riferiva quale sinonimo di omosessuale.
L’accusa dei lettori era quella di tenere in vita una certa stigmatizzazione nei confronti delle persone gay, perché fino all’ultima edizione del citato Dizionario non era previsto il contesto d’uso, e cioè, apporre tra parentesi la dicitura “spreg.” al fine di indicare l’uso in accezione dispregiativa e dissuadere da future imitazioni.
La domanda dunque spontanea è: invertito o diverso rispetto a cosa, rispetto a quale rotta?
Maya De Leo, nel suo approfondito testo Queer. Storia culturale della comunità lgbt (Einaudi, pagine 260, euro 19) ricostruisce chiaramente come a partire dal XVIII secolo la codifica progressiva degli orientamenti sessuali è il frutto di un cambiamento nel modo di concepire il genere, o meglio, i generi.
Questo perché, spiega la studiosa, “la concezione predominante fin dall’età classica, infatti, immaginava le categorie di maschio e femmina sostanzialmente come gradazioni diverse di un unico sesso. Nello specifico, le gradazioni erano definite dalla quantità di ‘calore vitale’ necessaria a ‘cuocere’, cioè a produrre, il seme. A causa della minore quantità di calore, le donne si trovavano a svolgere le funzioni di gestazione e allattamento, ritenute meramente ricettive e segno della loro inferiorità”.
In più, questo quadro “a un solo sesso” – dove il sesso unico è quello maschile – resta prevalente per tutta l’età medievale e moderna e viene messo in crisi soltanto nel XVIII secolo, quando la fisiologia della riproduzione – grazie ai progressi della scienza medica – viene ridisegnata progressivamente attorno a due poli distinti: il maschio e la femmina.
Nonostante ancora sexus e genus – dunque il sesso e il genere – coincidessero, tale nuova concettualizzazione consentì infatti di immaginare differenze di qualità tra gli apparati riproduttivi come polarizzati su due alterità incommensurabili ma complementari.
Ciò ha comportato, culturalmente e socialmente, una progressiva esaltazione del sesso riproduttivo eterosessuale e l’idealizzazione della maternità. E a partire dall’Ottocento ogni opposizione a tale schema è una perversione (da cui ecco comparire “i pervertiti), è un’inversione (da cui, ecco comparire “gli invertiti”).
C’è questo dentro quell’uso (spreg.) di “diverso”. Ma c’è anche altro.
La lingua diversa
La mia prima esperienza in editoria, fu come lettore alla casa editrice Nottetempo. Mi occupavo, cioè, di valutare i moltissimi manoscritti che affollavano settimanalmente gli scaffali della redazione.
L’allora caporedattrice, una volta, leggendo i miei pareri di lettura assai severi, mi diede un grande insegnamento. Mi disse, cioè, che la lingua non è mai perfetta ma sempre diversa, perciò un romanzo poteva essere scritto in modo diverso ed essere bellissimo.
Quante cose può significare diverso, allora?
Nel 1950, all’interno della sua seconda silloge, Appunti – titolo qui come non mai caro –, il poeta Sandro Penna scrive: “Felice chi è diverso/ Essendo egli diverso./ Ma guai a chi è diverso/ Essendo egli comune.”
La grandezza di Penna non ha certo bisogno di un mio elogio, ma mi limiterò a spiegare come questo breve componimento lo si può leggere al pari sia di un manifesto di poetica, sia di una profonda testimonianza di vita.
Nella sua abbacinante chiarezza, Penna racconta del proprio vissuto: lui che non aveva mai fatto mistero della propria omosessualità e che nelle sue poesie scriveva: “Non sono belli gli operai?” oppure, “Sempre fanciulli nelle mie poesie!/ Ma io non so parlare d’altre cose”. E soprattutto, che voleva narrare i poveri, gli umili, gli emarginati.
Nelle sue liriche, però, la diversità è soprattutto l’amore. Soprattutto il sesso. Scriveva con assoluta libertà, beffandosi della società ipocrita del tempo, che lo rimproverava di essere osceno.
Testimoniava un amore fatto di sguardi, sentimenti, sussurri, risultando ancora oggi per noi commovente proprio perché tutto veniva rappresentato nella purezza del suo esistere.
Il poeta qui prende la diversità come parola nella bocca dei perbenisti, e la appiccica alla sua esistenza.
Nel fare ciò indica l’esistenza di una coscienza diversa e una felicità diversa, e concorre a sgretolare la demonizzazione e la mortificazione del diverso proprio perché testimonia che la diversità è vita.
Similarmente, prima di Penna, si erano mossi già Henry James ne L’allievo (1891) – tra i primi racconti ad ospitare il termine diverso, riferito al giovane protagonista Morgan (fragile e sensibile), come eufemismo di omosessuale –; André Gide ne L’immoralista (1902) – il primo monologo interiore di un protagonista che fa coming-out con se stesso, accettando e accogliendo la propria natura –; e poi, Edward Morgan Forster in Maurice (1914) – il primo romanzo in cui un uomo dice a un altro uomo “Io ti amo” –; e ancora, qualche decennio più avanti, Truman Capote in Altre voci altre stanze (1948), il primo finale della gay literature in cui un personaggio scorge una vita felice compatibile con la propria omosessualità.
Ciascuno di loro con le proprie parole scritte hanno contribuito a far emergere dalle acque buie del moralismo un isolotto nell’arcipelago felice dei sentimenti diversi.
Non tutti gli scrittori omosessuali, però, si adoperano come i sopracitati e come Sandro Penna. Non lo fa, per esempio, Pasolini, il quale nella Poesia in forma di rosa (1963) scrive di sfogliare una rosa – simbolo della sessualità – come recitasse una preghiera laica, come sgranasse il proprio “rosario” delle colpe e degli errori.
“Ho sbagliato tutto” scrive Pasolini, che si considera un “maciste magretto”, un “verme”. L’errore di cui si accusa afferisce al pensiero e all’esistenza. E qui affronta il tema dell’omosessualità, indicata come “terribile voglia” che genera “ossessione” e lo rende assolutamente “inconciliabile con la Storia”.
Penna, invece, rivendica il suo posto. Si appropria della parola “diverso” usata con disprezzo e la rivendica come identitaria, ne fa un vessillo, un vanto, un grido del diritto di amare, vuole svuotarla, questa parola, di tutto il suo traboccante odio, e scrive un inno di felicità. Per cui è felice chi è diverso!
Del resto, è ciò che da sempre fanno le minoranze: trasformare le parole d’odio in richiami collettivi e identitari. Per comprenderlo meglio, dobbiamo tornare indietro di circa un secolo.
Mi scusi signora, ma io sono gay
Berlino, 6 aprile 1929: il poeta Wystan Auden, nemmeno trentenne, si trova in città da circa sette mesi. È scappato dalla giudicante Inghilterra per vivere a Berlino la propria omosessualità, e reputa la capitale tedesca “un sogno a occhi aperti”.
Sul tram, sta andando alla stazione ferroviaria per raggiungere il suo fidanzato dell’epoca, tale Gerhard. Mentre aspetta di scendere, una giovane donna tenta di attaccare bottone, gli rimane appiccicata per tutta la corsa e inizia a guardarlo sorridendo.
Finalmente, arriva la fermata di Wystan, il quale scende sollevato. Alla sera, sul suo Diario Berlinese, annotando l’episodio, il poeta scriverà che per dissuaderla “Avrei dovuto fare un inchino in stile settecentesco e dirle: ‘Entschuldigen Sie, Madam, Aber ich bin scwul’”. La traduzione della frase che Auden scrive e pensa in tedesco è “Mi scusi signora, ma io sono gay”.
A rendere espressivo questo episodio, di per sé comico, è l’utilizzo di un non-tedesco del termine scwul, che merita qualche riga di ricostruzione etimologica. Appartiene al dialetto berlinese e, letteralmente, significa umido. Ed è l’evoluzione di un compound desueto warme Bruder (fratelli caldi), termine con cui si indicavano gli uomini che amano gli altri uomini.
Il termine, nella metà dell’Ottocento, aveva una connotazione solo dispregiativa, così erano definiti i criminali dediti a certe immoralità; tuttavia, già lo studioso e attivista Albert Moll nel 1899 in un saggio etno-antropologico sull’omosessualità, afferma come la comunità gay berlinese (sia uomini che donne) aveva assimilato, epurato e cambiato volto alla parola schwul nell’unico modo possibile: diffondendola, e adottandola per descrivere se stessi. In questo modo, a Berlino è nata la prima parola della comunità omosessuale.
Con questa rubrica, dunque, mentre racconto le rappresentazioni della non conformità, soprattutto voglio anche provare a fare un passo in alto rispetto a questa parola: diversità.
Come accade nel film Fire Island, una brillante commedia che segue le vicende di una “chosen family” – una famiglia fatta di legami non di sangue – che mi ha fatto piangere e ricedere insieme; e poi, in Bottoms, la storia di due ragazze lesbiche, impopolari dopo un pettegolezzo secondo cui avrebbero passato l’estate precedente in carcere, che decidono di fondare un gruppo di autodifesa per sole donne.
Soprattutto, come aveva intuito, circa un secolo fa, Virginia Woolf nel suo perturbante romanzo Orlando, la storia di un personaggio che travalica i confini di tempo di genere, una creatura immortale, maschile e insieme femminile, diventata negli anni un punto di riferimento per le persone queer e non binarie.
Tant’è che è stato di ispirazione per il regista Paul B. Preciado per un documentario dal titolo Orlando, ma biographie politique: un racconto corale commovente, collettivo e politico, in cui 26 persone trans e non binarie danno vita a una nuova narrazione del romanzo woolfiano.
Tutto questo potrà significare “diversità”.
Tuttavia, è arduo da immaginare un futuro in cui avremo allargato così tanto i confini della diversità da annullare la sua connotazione discriminante, così da starci dentro tutte e tutti.
Soprattutto, è arduo, se pensiamo che qualche settimana fa, a Pisa, un ragazzo di 18 anni, ancora studente liceale, è stato cacciato di casa dopo aver fatto coming-out con la famiglia.
Ha dormito fuori casa prima, da alcuni amici poi, finché un professore non si è offerto si ospitarlo per permettergli di affrontare la maturità. La famiglia, invece, non vuole più saperne.
La colpa del ragazzo? Solo l’essere diverso.
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Un podcast realizzato da Stefano Feltri, Giorgio Meletti e Federica Tourn, realizzato grazie al sostegno della comunità di Appunti. Con la collaborazione di Carmelo Rosa e la consulenza per musiche ed effetti di Stefano Tumiati.
Un autentico concentrato di informazioni dotte, sembra quasi scritto tutto d'un fiato. Si potevano addirittura scrivere alcuni articoli con tutti questi elementi. Anche a me era sfuggito il fatto di cronaca riportato in chiusura, fa molto riflettere. E può anche questo essere lo spunto per un prossimo articolo, sarebbe interessante indagare le ragioni dell'oscurità che alberga nell'intimità di una famiglia.
Grazie. Molto interessante. Mi era sfuggito la storia del ragazzo cacciato da casa dopo aver dichiarato in famiglia la propria omosessualità. Mi dispiace tanto che in Italia possano esserci ancora situazioni così culturalmente arretrate. Certo la situazione politica non aiuta. Un piccolo aiuto arriva dal Papa che tuttavia dopo alcune aperture è spesso costretto a fare marcia indietro oppure a non dare concretezza alle sue parole. Speriamo bene