Si può fermare la guerra col disarmo?
I promotori della manifestazione contro il riarmo di sabato a Roma sostengono che l’aumento di spesa militare causa la guerra. Ma chi fa la deterrenza a Putin?
Il riarmo europeo vorrebbe creare una deterrenza per scoraggiare Mosca dal tentare aggressioni analoghe a quelle degli ultimi ultimi 25 anni. La deterrenza può essere credibile o meno. Ma fermare il riarmo, anzi addirittura tagliare le spese militari, in che modo dovrebbe ridurre la probabilità di questo genere di scenari?
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I promotori della manifestazione che si terrà a Roma sabato 21 giugno non potevano scegliere un momento più adatto per protestare contro il riarmo. L’attacco di Israele all’Iran con il possibile coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nell’ennesimo conflitto Medio Orientale per abbattere un regime dittatoriale nella speranza che poi arrivi qualcosa di meglio riporta il contesto della discussione indietro di oltre vent’anni.
Era il 15 febbraio 2003, la più grande manifestazione contro la guerra della storia recente si è tenuta proprio a Roma, in occasione della visita del presidente americano George W. Bush che si preparava a lanciare un attacco preventivo in Iraq per neutralizzare armi di distruzione di massa che non esistevano.
Un recente articolo di Fabio Alberti per Il Mulino ricorda che quella protesta si inseriva nel filone del G8 di Genova del 2001, del Social Forum di Firenze, di quella fase di contestazione da sinistra che andava sotto l’etichetta di “no global”:
La preparazione della manifestazione italiana iniziò già nei primi giorni dopo Firenze, con il metodo unitario che aveva già permesso la grande convergenza nelle giornate di Genova 2001.
Una sola parola d’ordine: “No alla guerra senza se e senza ma”, diritto universale di cittadinanza e di parola sulla base di un riconoscimento reciproco di legittimità delle pratiche e delle posizioni di tutti e di ognuno.
Nelle lunghe e corali riunioni, nella assenza di barriere “posizionali”, nella ricerca di nuovi partecipanti è cresciuta, senza quasi che ce ne accorgessimo, la più grande manifestazione italiana di sempre. Sul palco di San Giovanni, insieme alle testimonianze di tanti attivisti, i presidenti emeriti della Repubblica e della Camera, Oscar Luigi Scalfaro e Pietro Ingrao sventolarono, insieme, la bandiera arcobaleno. Si parlò di tre milioni di persone.
Quella manifestazione non fermò la guerra, ma rese evidente il costo politico di aderire alla campagna degli Stati Uniti, indicò una domanda popolare per una alternativa.
E oggi? Si può fermare la guerra? E per fermare la guerra serve il riarmo o aumentare la spesa militare accelera i rischi di conflitto?
Non ci sono risposte facili o univoche, ma sono andato a guardare cosa sostengono i promotori della manifestazione di questo sabato, a Roma.
La campagna italiana Ferma il riarmo è parte di una iniziativa europea più ampia, che si oppone a ogni aumento di spesa militare, quindi sia al piano Rearm Europe /Readiness 2030 proposto dalla Commissione europea, sia alla richiesta della Nato di alzare dal 2 al 5 per cento la spesa per la difesa in rapporto al Pil.
Il manifesto della campagna Fermare il riarmo è molto breve e netto:
L’umanità si trova a un bivio in cui le decisioni politiche sui bilanci della difesa determineranno la traiettoria delle molteplici crisi in cui siamo immersi.
Disgraziatamente in questo momento i Governi stanno scegliendo di aumentare drasticamente i fondi armati (l’aumento del 6,8 percento nel 2023 è stato il maggiore su base annua dal 2009, spingendo il totale al livello più alto mai registrato dal SIPRI) e, di conseguenza, anche il pericolo di una guerra globale.
La strada da seguire è un’altra: chiediamo che il governo italiano, l’UE e tutti gli Stati riducano i propri bilanci armati. Il raggiungimento del 2% del PIL in spesa militare è un feticcio (senza nemmeno motivazioni militari) utile solo a far crescere i guadagni del complesso militare-industriale-finanziario (non a caso si chiede che un quarto di tali fondi sia usato per comprare nuove armi).
L’aumento di risorse per le aziende militari a livello UE non porterà ad una difesa comune (che è una scelta politica), a vantaggi economici ed industriali (il passato lo dimostra) o a maggiore sicurezza: il raddoppio della spesa militare globale dall’inizio del millennio è coinciso con un drastico aumento delle guerre e delle vittime civili.
La proposta è di convocare l’Assemblea generale dell’Onu per una quarta sessione speciale sul disarmo, dopo 35 anni.
Un approccio che è quantomeno controcorrente in una fase storica nella quale c’è su tutti i fronti una corsa al riarmo.
Su quali basi la campagna auspica questa inversione di tendenza? Beh, qui è dove arrivano i problemi, o almeno il maggiore distacco dalla logica di chi invece è favorevole al riarmo.
Si legge, sempre sul sito di Ferma il riarmo, che il principale argomento contro l’aumento della spesa militare è che quei soldi potrebbero essere spesi altrove: sanità, lotta alla crisi climatica, infrastrutture, istruzione.
Gli esempi, non spiegati nel dettaglio ma utili a garantire sicura presa, sono di questo genere:
Con il taglio del 20% delle spese militari potremmo mettere in sicurezza 700 scuole, tagliare del 30% le liste d’attesa per le visite mediche, finanziare interventi per la lotta al cambiamento climatico e la riduzione della povertà energetica, e sostenere gli impegni presi in sede internazionale per aumentare i fondi per la cooperazione allo sviluppo. Potremmo raddoppiare i fondi per la non autosufficienza, garantire un’accoglienza dignitosa e l’integrazione a 40mila migranti, ripristinare i fondi tagliati alle università solo qualche mese fa.
Questa però è una ovvietà che neppure i più convinti riarmisti negano. Cioè, che il denaro sia fungibile, come si dice in gergo, lo sanno tutti: puoi spendere per droni e carri armati o puoi spendere per ospedali e insegnanti.
Il dividendo della pace
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