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Rubare il tempo a noi
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Rubare il tempo a noi

VITA-LAVORO La rubrica di Valeria Croce racconta le vostre storie e la ricerca di un equilibrio- forse impossibile - tra vita privata e professionale

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Valeria Croce
dic 29, 2024
∙ A pagamento
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Questa è una storia diversa dalle altre, perché non parla di cambiamento. Racconta semmai il contrario: lo stallo, la sensazione di immobilità. La stessa di chi si ritrova alle sette di sera bloccato in macchina nel traffico della Capitalel

Valeria Croce

Un’ora e mezza è il tempo che Bianca ci mette per attraversare Roma e arrivare a lavoro. Un’ora e mezza all’andata, un’ora e mezza al ritorno. Tre ore al giorno sottoterra, nelle gallerie della metropolitana, sfrecciando accanto ai resti sepolti di una civiltà antica e sotto le fondamenta dei monumenti impacchettati per il Giubileo. Nelle cuffiette si mette un audiolibro, per non sentire le persone litigare. Per riappropriarsi come può di quel tempo che ogni giorno le sembra rubato.

Quando arriva in ufficio si apposta dietro la scrivania con la schiena rigida e le orecchie tese. Sembra solo concentrata sul computer ma in realtà è in ascolto. "Come i gatti", dice, "che anche quando dormono restano sempre all'erta, vigili. Pronti a reagire in caso di pericolo".

Questa è una storia diversa dalle altre, perché non parla di cambiamento.

Racconta semmai il contrario: lo stallo, la sensazione di immobilità e trappola che vive chi si sente incastrato in una routine e un lavoro da cui non riesce a fuggire.

La stessa di chi si ritrova alle sette di sera bloccato in macchina nel traffico della Capitale. Con la pioggia. Durante il Giubileo. E si domanda come mai ci sia finito.

Roma, in superficie, vista dagli occhi di Bianca

Bianca ha trentanove anni e vive a Roma da sempre, adesso con il suo compagno, con cui sta da dieci anni. Da bambina voleva fare la giornalista: appena laureata ha preso il tesserino da pubblicista e già durante l’università ha iniziato a scrivere per delle testate locali. Ma quando si è resa conto che mantenersi sarebbe stato difficile, ha deciso di fare un compromesso e si è buttata nella comunicazione. Il mondo era nel pieno della crisi economica e Facebook era appena arrivato in Italia.

“All’inizio è stato molto divertente”, ricorda. “Nasceva il marketing sui social network, il rapporto diretto dei brand con le persone che commentano… Quando una cosa è nuova e ancora non ha una sua struttura è più intrigante perché non ci sono regole. Ognuno si butta, vede che succede. Adesso è tutto già stabilito, tutto più noioso”.

La crisi è arrivata dopo il Covid. Dopo dodici mesi di cassa integrazione Bianca ha trovato un nuovo lavoro in un’agenzia di comunicazione, ed è lì che ha iniziato a stare male.

“Ero sottopagata e sottoinquadrata per quello che facevo e la mia responsabile aveva una visione molto tossica del lavoro. Non era una cattiva persona, ma la sua etica - che cercava di trasmettere a tutto il team - era quella che il lavoro venisse prima di tutto, anche della salute. È finita in ospedale più volte, per il lavoro. Io non volevo fare la stessa fine, quindi me ne sono andata".

A quel punto però, complice anche la scadenza di un progetto importante a cui in quelle ultime settimane stava lavorando, Bianca era già in burnout.

Roma, in superficie, vista dagli occhi di Erika, non di Bianca, perché Erika per andare a lavoro può spostarsi in bicicletta e quindi fare più foto a ciò che c’è sopra (io le ho chiesto di mandarmene alcune)

Senza neanche uno stacco tra un lavoro e l'altro lascia la sua vecchia azienda ed entra per la prima volta nell’ufficio comunicazione di una multinazionale. E subito se ne pente, dice. "Amaramente".

Qui le cose, infatti, vanno ancora peggio.

“Dovendomi occupare di coordinare la comunicazione sui social, sia a livello locale che Europeo, mi aspettavo che in un'azienda così grande ci fosse una certa organizzazione. Una gestione strutturata delle cose da fare. Invece non c'è una pianificazione, non c'è un calendario delle collaborazioni da annunciare o degli influencer da coinvolgere. Non c’è una programmazione degli eventi da coprire. Solo tanta frustrazione di tutti, che rende conflittuali i rapporti. Soprattutto quelli con la persona responsabile".

Di nuovo, Bianca si ritrova in una situazione problematica con la sua referente. “Ma se con quella di prima avevo comunque trovato un modo per conviverci, adesso proprio non riesco. Da parte sua non c’è fiducia, né stima per il lavoro che faccio, e questo è molto scoraggiante”.

Bianca sa di essere brava. Sa che nella sua vecchia azienda ha aiutato diversi colleghi a crescere, a esprimere il proprio potenziale. Alcuni di loro ancora la chiamano per dirle che da quando se ne è andata fanno più fatica, che hanno perso un punto di riferimento. “Ma in questo posto non riesco a far valere nemmeno me stessa”, dice, “perché è tutto molto confuso, molto caotico. C’è chi si chiude in bagno per riprendere fiato. Per avere un attimo di tranquillità”.

Bianca adesso si risente come a scuola, quando un professore all’inizio dell’anno decideva che eri da sette e quindi ti metteva sette anche quando facevi un compito da nove. “Solo che a quarant’anni non ne puoi più, non è più tollerabile. Vivo con la costante sensazione di essere la persona sbagliata, nel posto sbagliato”.

Roma, in superficie, vista dagli occhi di Erika (i lavori per il Giubileo)

Per prima è arrivata la tachicardia. All’inizio solo ogni tanto, poi sempre più spesso. “A un certo punto era diventata così frequente che sono dovuta andare dal medico, per capire se ci fosse qualcosa. Ma no, niente: erano attacchi d’ansia”. Poi è venuta la confusione e la perdita di memoria: “sono così preoccupata per tutte le cose che devo riuscire a incastrare che alla fine esaurisco le energie mentali e mi perdo anche le cose personali e importanti. Mi sfuggono totalmente di mente”.

A questo si è aggiunto un peggioramento di alcuni problemi fisici che già aveva, soprattutto una scoliosi dalla nascita che negli anni le ha causato seri problemi di cervicale. “Ma come molte patologie che colpiscono più le donne degli uomini”, dice, “non è riconosciuta. Quindi io con tre protrusioni, schiacciamento di nervi ed emicranie paralizzanti, non ho nessun tipo di esenzione. Né per questo né per l’endometriosi, perché ho anche quella”.

Allo stress psicologico di trovarsi in un posto in cui non riesce a lavorare come vorrebbe, e quindi ad esprimere se stessa, si somma così una sofferenza fisica che rende tutto ancora più difficile. “Alcuni giorni, per riuscire ad andare al lavoro, devo prendere antidolorifici e miorilassanti, con la consapevolezza che tutto ciò non sia sano, che non mi faccia bene”.

Bianca prova a far uscire un sorriso mentre confessa che la sua vita, quella che va dal lunedì al venerdì è diventata, da un po’, veramente faticosa.

In mezz’ora di videochiamata Bianca mi parla di molte cose. Dei vari torrenti più o meno impetuosi che sono andati man mano a confluire in questo fiume in cui adesso, lei, si sente di affogare: l’ambiente di lavoro poco sano, il non riuscire a esprimersi, la mancanza di stimoli e di riconoscimenti, l’assenza di fiducia e la discriminazione di genere che si declina anche in forme a cui a volte non pensiamo, o che proprio non sappiamo.

Soprattutto, però, Bianca mi parla del tempo.

"Io sono un po' anomala rispetto alla mia generazione", dice. "Ho sempre sofferto il full time. Mi identifico di più coi giovani, che hanno capito che il tempo che dedichiamo al lavoro forse è troppo e non lascia spazio al resto”.

“A me piace andare al cinema, a teatro. Mi piaceva scrivere, ma non riesco più a farlo: non ho il tempo. Perché poi il tempo che serve è un tempo di qualità, non quella mezz’ora rubata prima di andare a dormire. Noi diciamo che “ci rubiamo il tempo”, ma è una definizione terribile, che non sopporto. “Rubarsi del tempo” per riuscire fare qualcosa. Il tempo in fondo è l'unica cosa che abbiamo, no? E dobbiamo rubarlo a noi stessi per riuscire a non perdere del tutto quella parte di noi che siamo al di fuori del lavoro".

"Io", dice Bianca e lo ripete anche a se stessa, "non sono il mio lavoro. Sono anche e soprattutto quello che c'è oltre, la Bianca che esiste al di fuori del suo job title". Anche in questo, dice, forse assomiglia di più alle nuove generazioni.

“Ma il part time è un lusso che in pochi si possono permettere”.

Roma, in superficie, vista dagli occhi di Erika (altri lavori per il Giubileo)

Bianca si sveglia alle sei per attraversare la città e raggiungere l’ufficio. Fa le sue otto ore - “che con la pausa pranzo diventano nove” -, e poi riparte. “Quando arrivo a casa la giornata è quasi finita. E quelle ultime ore che mi sono rimaste devo usarle per fare la spesa, cucinarmi la cena, stendere la lavatrice”. Non le resta il tempo e l’energia per essere se stessa, per dedicarsi alle cose in cui si riconosce, adesso che nel lavoro non riesce più a farlo. Adesso che, inoltre, ha solo sei giorni di smart working al mese, rispetto alla quasi totale flessibilità che aveva nel lavoro di prima.

“E non ho nemmeno figli”, dice, “quindi non devo destinare il mio tempo a qualcuno che ha bisogno di me e che, giustamente, richiede attenzioni”.

“Forse sono anche diventata più vecchia”, pensa, “forse mi sono un po’ stancata”. “Ma comunque”, mi dice Bianca, “credo che ci sia un errore di fondo nella valutazione del tempo che le persone devono dedicare al lavoro. E sono contenta che qualcuno stia finalmente alzando un po’ il dito, per dire che forse dovremmo lavorare di meno. Tutti, anche quelli che non se ne rendono conto, anche quelli che lo pensano ma non lo dicono. Perché poi anche loro stanno meglio, il giorno in cui si stacca prima o il giorno che si sono presi libero”.

Nel più grande esperimento mai realizzato al mondo sulla settimana corta, condotto nel 2022 dall’organizzazione non profit 4 Day Week Global in Regno Unito, 2.900 dipendenti di 61 diverse aziende hanno lavorato per sei mesi quattro giorni a settimana anziché cinque, ovvero per l’80 per cento del loro orario contrattuale (ma a parità di salario). I risultati sono stati non soltanto che il 71 per cento dei lavoratori coinvolti presentavano al termine dell’esperimento un livello ridotto di burnout e stress lavorativo, nonché un generale miglioramento della loro salute mentale e fisica, ma anche un aumento medio dei ricavi del 35 per cento per le aziende partecipanti.

L’interpretazione è tanto illuminante quanto semplice: un lavoratore più sereno è anche più produttivo. Poter dedicare più tempo alla propria famiglia e ai propri interessi permette di arrivare al lavoro con più energie e soprattutto con più determinazione. Lavorando di meno, insomma, si lavora meglio.

Delle 61 aziende che hanno partecipato al test, 56 hanno deciso di mantenere la settimana lavorativa di quattro giorni.

Roma, in superficie, vista dagli occhi di Erika (l’autunno che intanto, di sopra, accade)

Tuttavia, come a voler confermare e in qualche modo proseguire il tema sollevato da Francesca Coin nel suo articolo su Appunti di qualche giorno fa (dal titolo “Il senso del lavoro”), quando chiedo a Bianca, come ultima domanda, che cosa cambierebbe della sua vita se avesse la possibilità di modificare, in un istante, una singola cosa, la sua risposta va a cadere esattamente lì, sul senso.

“Io cambierei proprio il lavoro che faccio”, risponde. “Forse sono stanca del lavoro che faccio. Sono stanca di fare comunicazione, di inseguire sempre il nuovo trend, di cercare di essere sempre un po’ in anticipo sugli altri. Secondo me produciamo troppi contenuti e troppo velocemente, e tutto questo è inutile, e mi ha stancata”. Si ferma, ci pensa. “Però in realtà credo che semplicemente vorrei fare comunicazione per qualcosa che mi piace, qualcosa in cui mi riconosco. Magari qualcosa di artistico o di culturale. Ecco”, decide infine, “se potessi cambiare qualcosa sceglierei un lavoro in cui poter esprimere di più me stessa. In cui rispecchiarmi un pochino di più”.

Ancora più delle ore di lavoro, della distanza dall’ufficio. Ancora più dello smart working o di una cura definitiva per la sua scoliosi: più di tutto la motivazione, il riconoscimento, il senso.

“Poi certo”, dice Bianca ridendo, “se uno potesse realizzare tutti i suoi sogni allora lo farei anche per meno tempo, con molto smartworking. E l’ufficio sarebbe vicinissimo a casa!”

Ma più di tutto, ripete, “insieme a un ambiente di lavoro sereno”, il senso.

“Per le intervistate e gli intervistati”, scrive Coin citando il libro Working di Studs Terkel, uscito in Italia solo qualche giorno fa per Marietti editore e curato dalla stessa Coin, “il lavoro non è solo una specie di morte che accade dal lunedì al venerdì, ma una ricerca di significato quotidiano oltre che di pane quotidiano, di riconoscimento oltre che di denaro, di stupore piuttosto che di torpore”.

Roma, in superficie, vista dagli occhi di Erika e da molti altri occhi, insieme (25 novembre, Non Una Di Meno)

Nel 1997, mentre Bianca varcava le soglie dell’adolescenza e già sognava di fare la giornalista, i Subsonica cantavano Cose che non ho / Cose che non avrei potuto avere mai e lei, alcuni anni più tardi, avrebbe ascoltato a ripetizione quei versi tra le pareti della sua stanza, mischiandoli al calcestruzzo bollente e duttile con cui a vent’anni ognuno inizia a costruire la persona che sarà.

“Quella canzone è un inno alle nostre mancanze”, dice anni dopo prima che il suo viso scompaia dallo schermo del mio telefono. “La rivendicazione del fatto che non tutti partiamo dallo stesso livello, con le stesse possibilità. E probabilmente questo alla nostra generazione non l’hanno voluto dire, c’hanno raccontato una storia fasulla perché “se vuoi, puoi” è una gran cazzata”.

“Ci sono delle cose che non puoi avere, ma questo non vuol dire che non ne hai altre, o che non sei qualcosa”. Sorride Bianca da un angolo del suo appartamento, nella città in cui vive da sempre. “A volte ci vuole del tempo per capirlo, per capire quello che non vuoi e che non vuoi essere. In tutto, anche nel lavoro. Io adesso l’ho capito, ho capito cos’è che non voglio. Cercherò di andare in quella direzione”.

Forse è così, io vivo fuori tempo /

È vero ciò che sento sotto pelle /

È come una costante sensazione di /

Mancata appartenenza

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Nel full time mi occupo di promozione e progettazione per il settore artistico e culturale. Nel resto del tempo mi interesso di politica, cultura e economia. Da sempre ascolto e racconto storie.
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