Reportage dal Venezuela/3: Dopo la civiltà "petrolera"
La nazionalizzazione delle industrie petrolifere non ha risolto i problemi del Paese, anzi, lo ha proiettato in un presente distopico fatto di povertà, ritorno all'agricoltura e declino
Colui che aveva lo sguardo cupo e profondo disse subito: - Io non ho visto le case, né le rovine. Ho solo visto le piaghe degli uomini
Otero Silva
Buongiorno a tutte e tutti,
oggi vi propongo la terza e ultima parte del reportage di Estefano Tamburrini dal suo Paese, il Venezuela. Oggi Estefano è rientrato in Europa sano e salvo, nonostante il regime di Nicolas Maduro reprima ogni forma di giornalismo indipendente, soprattutto ora che sta disperatamente cercando di conservare il potere dopo i brogli alle elezioni del 28 luglio.
Dunque, il lavoro di Estefano ha un valore particolare, come capirete leggendo anche questa parte.
Estefano mi ha chiesto di aggiungere una nota al suo testo, che vi metto qui e che chiarisce il contesto in cui si è mosso:
“Il reportage che state leggendo su Appunti letto è frutto di uno sforzo collettivo. Hanno collaborato giornalisti e leader sociali che vivono lì. Senza di loro queste righe non sarebbero state scritte.
E avrei voluto elencarli uno a uno, come si fa da questa parte dell’oceano. Ma li metterei a rischio, visti gli antecedenti. Sarebbe una leggerezza imperdonabile.
C’è chi ha procurato contatti e informazioni utili; chi ha investito il proprio tempo a raccontare i cambiamenti degli ultimi anni; chi ha dedicato più ore a percorrere i Campos petroleros e altre zone che qui abbiamo raccontato.
Qualcuno ha messo a rischio la propria incolumità: il colloquio sulla corruzione dei militari si è tenuto ai piedi di una caserma della Guardia nacional bolivariana mentre le riprese qui condivise sono state realizzate in zone sotto sorveglianza. Questo non sarebbe stato possibile senza le attenzioni dei residenti, che mi hanno aiutato a non rischiare più del dovuto.
Ci sarebbero volute altre puntate per documentare i gesti di gratuità di chi ha contribuito a questo trabajo, come lo chiamano loro. Azioni improbabili dinanzi a una crisi del genere.
O forse sarà stata la crisi stessa a tirare il meglio della loro umanità. E questo fa ben sperare, nonostante tutto”.
Buona lettura, e buona giornata
Stefano
Dopo la civiltà “petrolera”
di Estefano Tamburrini
Siamo nei “Campos petroleros”, che nella seconda metà del Novecento simboleggiavano la prosperità della Costa oriental del Lago.
Troppe case abbandonate, senza porte né finestre e con l’erba alta più di un metro. Alcuni recinti sono caduti, altri sono passati dal bianco al rosso/arancione. Sono arrugginiti. Lo sono anche i macchinari, ammucchiati nell’atelier generale della azienda petrolifera statale Pdvsa. Sono montagne di attrezzi, lamiere e parti di vetture arrugginite.
Le strade sono sporche, piene di buche e prive di manutenzione. Sembra siano andati via tutti. Quei pochi operai che rimangono sono radunati sotto un albero. Altre installazioni, che un tempo erano produttive, ora non funzionano più. Alberghi, supermercati, centri commerciali sono falliti. Al loro posto sono stati attivati nuovi reggimenti militari, l’unica idea del regime per riabitare questi spazi.
Anche i servizi essenziali versano in condizioni di abbandono. La scuola “Unidad Educativa Antonia Esteller”, ad esempio, è stata dimenticata dal potere centrale. Mancano porte e finestre. “Ogni tanto se ne occupano i vicini: tagliano l’erba e cercano di evitare che il degrado si mangi la scuola” spiega Christian, che insieme a Fernando mi guida nei Campos.
Arriviamo davanti alla clinica dei Campos. Christian poggia la mano destra sulla mia spalla e dice: “Qui è morta mia madre. Aveva il cancro. Quando siamo arrivati qui non c’erano medicine. Non c’era niente. Sarebbe bastata un’iniezione. E invece è spirata dopo venti minuti di attesa. Mi è morta fra le braccia”.
Sua madre è morta un anno e mezzo fa, qualche mese dopo la mia che avrebbe potuto salvarsi, con qualche sigaretta in meno e più attenzione verso sé stessa. La mamma di Christian non ha avuto scelta. Ma Christian non abbandona la casa dei genitori. Neppure dopo che è diventato papà.
“Mi invento sempre una scusa. Vengo a far la lavatrice, a tinteggiare e altro”. Mentre siamo lì, Christian viene salutato da un passante che gli chiede “c’è ancora qualche speranza?”, riferendosi alla politica. Pare che in Venezuela non si parli d’altro dal 28 luglio, il giorno delle elezioni che Nicolàs Maduro ha vinto con gli ennesimi brogli, repressione e violenza.
Christian fa di tutto per restare. Anche se in quei campi tutto parla di morte: le case, le strade, i ricordi. Tutto per colpa della politica: quella per cui Christian e Fernando si battono ancora, intenti a cambiare le cose. Il primo fa il consigliere comunale, il secondo fa il consulente per i movimenti di opposizione. Fernando è riuscito a cavarsela con 40 euro nella scorsa campagna elettorale. Risparmia un po’ sulla macchina perché sa fare il meccanico.
Fernando si sofferma spesso su ciò che era il Welfare dei Campos petroleros. “La classe dei petroleros non pagava acqua, gas né elettricità. Era tutto fornito dall’impresa. Le scuole e lo sport dei ragazzi erano garantiti.
Non mancavano l’offerta culturale né l’intrattenimento. “Le provviste settimanali che il comisariato consegnava a ogni lavoratori coprivano il fabbisogno di quattro famiglie”. Passiamo davanti la sede di Pdval, il programma alimentare promosso dal regime per i petroleros. Un deposito inaccessibile, chiuso e senza cibo. “Le cose inventate dal regime sono una parodia dei diritti che un tempo c’erano e che ora sono inaccessibili”.
La pittura rossa sulle pareti, per identificare i servizi con la Revoluciòn, è stata l’unica novità apportata ai servizi. “Così almeno sappiamo chi è il colpevole”, ironizza Fernando. Fino ai primi anni Duemila, gli altri abitanti del municipio trascorrevano il weekend a Lagunillas. Ora invece sembra si siano dimenticati tutti dei Campos.
A pochi chilometri c’è una diga che protegge la località dal Lago di Maracaibo, che lasciato a sé stesso sovrasta la terra ferma.
“El muro de contenciòn”, lo chiamano. Mentre ci avviciniamo, notiamo che l’erba ha coperto le tubature e altri macchinari che tuttora trasportano petrolio. È una zona rurale. Dopo le 15 non si esce più di casa. Passa solo una corriera al giorno.
Guardiamo al Lago, che prima era invaso di navi e rimorchi operativi nell’estrazione. Ora non c’è più niente. I Jack pump che estraevano il petrolio sono quasi tutti fermi. A vista ne rimane attivo soltanto uno. La produzione è calata da un 1 milione e mezzo di barili giornalieri a circa 300mila.
Lo stop improvviso della produzione ha causato più danni agli ecosistemi dell’estrazione a pieno regime: le attività estrattive prevedevano anche un minimo di manutenzione degli impianti. Le acque del Lago venivano periodicamente pulite. Ora invece il petrolio fuoriesce dai tubi rotti e dalle cisterne arrugginite.
Le navi abbandonate sul Lago perdono combustibile oppure affondano. Ora il Lago di Maracaibo è praticamente morto. I suoi 13mila chilometri sono invasi da cianobatteri che liberano tossine e bloccano l’ossigeno delle acque. Non c’è più fotosintesi nelle acque.
All’uscita dai Campos petroleros de Lagunillas ci siamo fermati. Toccava lasciar passare una mandria. Mucche, una dietro l’altra, nei Campos. Non si era mai visto. L’agricoltura è tornata.
La storia fa giri strani. I venezuelani abbandonarono l’agricoltura negli anni Venti del Novecento. La maggior parte della popolazione lasciò le zone rurali. Le città vennero abitate, anche in eccesso. Si crearono le grandi periferie di Caracas. Nel giro di pochi anni, tutte le energie si concentrarono sul petrolio. Per l’estrazione s’investiva tutto. L’agricoltura rimase invece nel Medioevo. Ora invece le mucche sono tornate.
Salutiamo Lagunillas per andare verso Cabimas. Posti di blocco, agenti e pattuglie. I confini municipali sono militarizzati. Ci sono anche lunghe file di macchine che aspettano per fare benzina. Quella sussidiata dal governo costa poco. Le persone ne approfittano. Neppure la benzina si trova tutti i giorni. La caduta del petrolio ha colpito anche il fabbisogno interno.
Arrivati a Cabimas incontriamo due leader sindacali nelle vicinanze della sede della Guardia nacional bolivariana. Faccio domande sull’attualità politica, ma noto il disagio. Parlano solo con garanzia dell’anonimato.
Uno di loro è ancora dentro al giro dei sindacati. L’altro non lavora più nel settore da una ventina d’anni. “Ero cameriere – mi dice –. E guadagnavo 1.700 dollari al mese. Quando nei primi anni duemila Chavez fermò la produzione, sono stato licenziato. Presi 45mila dollari di buona uscita. Andate a vedere quanto guadagna ora un lavoratore petrolero. Meno di 200 dollari al mese”.
Dicono che l’impresa è ferma.. Ogni tanto si attivano nuovi servizi, ma sono tutti legati ai militari o a oligarchi vicini al regime. “Qui vicino – spiegano – sono venuti degli arabi. Hanno aperto un’attività di servizi estrattivi. Altre aziende, qui a Cabimas, sono vicine al generale Nestor Reverol e ai suoi parenti”.
Risiede lì, secondo loro, l’origine del problema. “Hanno politicizzato l’azienda”. Rispondo che le ragioni di Chàvez erano legittime: voleva chiuderla con i privilegi, con lo sfruttamento dei lavoratori. Occorreva nazionalizzare i settori strategici. Uscire dall’abbraccio, troppo stretto, degli Stati Uniti.
“Qui però hanno fatto fuori ingegneri e personale qualificato per far spazio ai militanti di un partito. Sono stati messi dentro anche i loro amici e parenti. Tutti contrattati senza alcuna qualifica”. L’accordo era quello di presenziare le attività politiche del Partido socialista unido venezolano in cambio dello stipendio. Erano tenuti anche a fare campagna elettorale, cercando voti a ogni elezione. “Ancora oggi, ciascuno deve portare un elenco di almeno di dieci persone. I lavoratori sono tenuti a persuadere amici e parenti per votare il regime”.
Si è così creato un habitus clientelare per il quale a un certo punto non si lavorava più. “Contava solo l’adesione ideologica – osservano i sindacalisti –. Qui lavorava solo chi era vicino alla revoluciòn. Nel frattempo la produzione andava a picchiata. E a nessuno importava niente”.
Oggi le cose sono degenerate ulteriormente. Per sopravvivere, si cercano altre fonti di guadagno. “Chiunque lavori a Pdvsa porta a casa tutto ciò che può. Si prende il cibo e lo si rivende. Prendono anche parti, ricambi o rame delle imbarcazioni che poi vengono fatte affondare”.
A queste azioni partecipano anche i militari. Mi sono confrontato con uno di loro, che mi diceva: “Eravamo tenuti a custodire gli spazi abbandonati di Pdvsa. Non c’era più nessuno, né si faceva più niente. Molti soldati hanno cominciato a estrarre il rame dentro le imbarcazioni per rivenderlo. Il rame è infatti molto ricercato. Così è andata con altro materiale. Anche con il cemento”.
Partecipano anche le autorità locali. Militari, politici, imprenditori.
“Un giorno vennero dov’ero, a prendere del materiale – racconta l’ex-soldato –. Volevano rivenderlo un gruppo di imprenditori siriani. Io mi opposi all’operazione. Mi dissero che venivano per conto del sindaco di Lagunillas, che allora era Leonidas Gonzalez. Io dissi che, in quanto responsabile dell’installazione, non potevo permettere un’operazione del genere”.
“Fui chiamato direttamente dal sindaco, che cominciò a pressarmi – aggiunge –. Non ho ceduto. E fui immediatamente trasferito. Succedeva sempre così. Ogni volta che non cedevo mi trasferivano”.
A sentirli parlare viene in mente la teoria delle finestre rotte, coniata da James Q. Wilson e George L. Kelling nell’articolo scientifico “Broken Windows”.
L’esistenza di una finestra rotta in quartiere può provocare “fenomeni di emulazione” dando inizio a una catena di degrado urbano e sociale. Ebbene: a oggi le finestre rotte sono tante. E anche le autorità vi lanciano i sassi, smontando il Paese pezzo dopo pezzo.
Le espropriazioni
In Venezuela, così come in Italia, l’istituto dell’espropriazione è regolato dalla costituzione che garantisce il “diritto alla proprietà” sottoponendola però ai limiti dell’utilità pubblica e dell’interesse generale. “Soltanto per causa di utilità pubblica o interesse sociale, mediante sentenza firme e opportuno pagamento di giusto indennizzo, potrà essere dichiarato l’esproprio di ogni classe di beni”.
E potremmo pur ammettere che l’interesse pubblico ci fosse. L’intenzione: nazionalizzare ogni servizio connesso al petrolio. Soprattutto per superare la subalternità nei confronti degli Stati Uniti.
Allora l’assemblea nazionale approvò una serie di leggi che davano all’esecutivo la facoltà di espropriare i beni in maniera più celere. È il caso de la Ley de defensa de las personas en el acceso a los bienes y servicios.
Qualcosa era già stato anticipato dal Plan de desarrollo econòmico y social de la naciòn varato dal 2007 al 2013 che prevedeva “il controllo totale delle attività produttive che siano di valore strategico per lo sviluppo del Paese(…) Questo richiede di identificare, per i mezzi di produzione, il tipo di proprietà che sia maggiormente al servizio dei cittadini”.
Il Plan ribadisce l’importanza dei settori strategici per uno Stato Nazione. Viene rivendicata la funzione pubblica della proprietà, anche senza farne esplicita menzione.
Una volta espropriate le aziende petrolifere, circa 8 mila operai coinvolti festeggiarono la scelta. Era stato promesso loro l’assorbimento da parte della statale Pdvsa. In realtà ne hanno fatto fuori 20mila. Tre mesi dopo gli espropri c’erano già le prime proteste. Chiedevano chiarimenti all’assemblea nazionale.
Ma lo Stato rispose inviando i militari. Non c’è stato nessuno sforzo per risolvere il problema. Nessuno ha fatto ripartire le imprese. Già a novembre la produzione era in calo. Quel mese i lavoratori di 17 imprese paralizzarono le attività. Non percepivano lo stipendio da sette settimane, riportava la testata El Universal digital.
Gli operai denunciavano anche l’assenza di sicurezza sul lavoro. La questione salariale proseguì fino a fine anno. Si arrivò anche allo sciopero della fame a cura di una sessantina di lavoratori della ditta Petroboscàn. Esigevano il rispetto dei contratti. Altri bloccavano le autostrade.
I lavoratori restarono inascoltati e le loro richieste disattese. Anche proprietari delle imprese espropriate furono dimenticati. Non ricevettero mai un indennizzo.
Oggi le imprese appaiono in stato di abbandono. Qualcuno vi si apposta a bere e giocare domino. Restano i militari, ma anche i vagabondi.
Ma i più intraprendenti hanno trovato qualche alternativa. Ogni sera, davanti a ciò che resta della sua vecchia ditta, Giovanni D’Agostino apre il suo foodtruck. Ormai si è rassegnato a vendere hamburger e hotdog sulle macerie della ditta di famiglia.
“Le entrate sono molto più basse, ma occorre sopravvivere” racconta: “Non ci possiamo lamentare”. La ditta famigliare di Giovanni era stata fondata dai genitori negli anni cinquanta. Offriva servizi alla statale Pdvsa, mettendo a disposizione logistica e macchinari.
Dopodiché, l’impresa è stata espropriata. Poi abbandonata e riconsegnata al vecchio proprietario.
“Non c’erano più soldi da spartire. Nessuno ha mai risarcito la mia famiglia per l’espropriazione. Fu una politica ostile ed ecco le conseguenze”, dice Davide mentre ci mostra depositi abbandonati, fari spenti e macchinari arrugginiti che ricordano altri tempi.
Giovanni è simbolo di un’economia stanca, che ha subito un’eclatante de-industrializzazione. Ora si sopravvive con le attività informali. Quelle che tra l’altro non contribuiscono alla politica fiscale del Paese, perché impossibili da tassare.
Lo sapevamo tutti. Il boom del petrolio non sarebbe durato per sempre. Molto prima di questa triste storia, nel 1936, un altro connazionale Arturo Uslar Pietri sottolineava la necessità di “seminare il petrolio”. Uslar Pietri si riferiva alla necessità “di investire proventi del petrolio” nello sviluppo economico del Paese.
Non si poteva vivere di rendita per sempre. Tantomeno ora che il mondo svolta verso la transizione ecologica. Si sapeva che sarebbe finita già allora. Ma poteva essere tutto più graduale. Non in maniera così violenta e strepitosa.
Ora c’è poco da fare. Cambi o meno il governo, quelle regioni resteranno depresse. Colpa della centralizzazione. Il Paese concentra quel poco che ha su Caracas. Il resto deve cavarsela.
Mentre rivolgo un saluto alla città che non vedevo da otto anni, mi vengono in mente alcuni stralci di Casas muertas. Un romanzo di scritto dal poeta Miguel Otero Silva e pubblicato nel 1955 da Editorial Losada.
Quello che aveva i sopraccigli storti disse dopo: Quanto erano belle da vivere, quelle case morte! / E quello degli occhi inquieti sotto le lenti dottorali: - Sono state fatte con un solido e sobrio senso dell’architettura. / E colui che aveva occhi azzurri e sereni: - Una casa senza porte e senza tetto è più commovente di un cadavere. / E il meticcio, con baffi e gesti armonici: sarà necessario rialzarle di nuovo.
E ancora:
Colui che aveva lo sguardo cupo e profondo disse subito: - Io non ho visto le case, né le rovine. Ho solo visto le piaghe degli uomini.
Quella di Otero Silva è una fotografia delle aree interne del Paese. La città di Ortìz, un tempo detta Flor de los llanos e poi abbandonata dal potere centrale.
L’autore ben descriveva la tendenza dei regimi venezuelani, democratici o militari, di arroccarsi nella capitale. Casas muertas non è solo un romanzo del passato, ma un avvertimento al Venezuela; una profezia sulla solitudine delle società in crisi. Finché c’era prosperità venivano tutti alle feste patronali. Arrivata la crisi Ortìz venne dimenticata.
Correva l’anno 2006 quando lessi quel romanzo. Conclusa l’ultima pagina, ho deciso di farlo a pezzi. Era come se parlasse già del futuro distopico verso cui il Paese stava andando. E io volevo scongiurarlo. Ma non bastava distruggere il libro per evitarne la profezia. Occorreva invece interiorizzare tutto quel contenuto, tutta quella contraddizione.
Leggi qui la prime due puntate della serie:
Appunti è possibile grazie al sostegno delle abbonate e degli abbonati. E’ con il loro contributo che Appunti può crescere e svilupparsi anche con progetti ambiziosi come La Confessione. Se pensi che quello che facciamo è importante, regala un abbonamento a qualcuno a cui tieni.
Come rispondere alla politica della rabbia: il dibattito su Appunti
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate.
Appunti e Dieci Rivoluzioni
Il Podcast: La Confessione
Ascolta La Confessione, il podcast di inchiesta che rivela per la prima volta da dentro come funziona il sistema di copertura e insabbiamento degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica italiana.
Un podcast realizzato da Stefano Feltri, Giorgio Meletti e Federica Tourn, realizzato grazie al sostegno della comunità di Appunti. Con la collaborazione di Carmelo Rosa e la consulenza per musiche ed effetti di Stefano Tumiati.