Reportage dal Venezuela/2: Che fine ha fatto il petrolio?
Mentre Maduro si aggrappa al potere, l'economia del Venezuela un tempo fondata sull'estrazione di greggio è collassata, in una spirale di povertà, inflazione e violenza. Ecco il racconto
Non è un Paese per poveri. Eppure quasi tutti lo sono. Dopo mezzogiorno le città sono desolate. Quasi tutti si raccolgono. Non ci sono più soldi per continuare la giornata. Non c’è nemmeno più voglia
Estefano Taburrini da Vargas
Buongiorno a tutte e tutti,
Oggi pubblichiamo la seconda parte del reportage di Estefano Tamburrini dal suo Paese natale, il Venezuela, dove è tornato nei giorni scorsi per raccontare la crisi sociale ed economica che è dietro la crisi politica.
Mentre il presidente Nicolàs Maduro cerca di rimanere al potere grazie agli ennesimi brogli alle elezioni del 28 luglio, la società è al collasso.
Dopo la prima puntata da Caracas, Estefano è andato a vedere cosa è rimasto nelle zone un tempo prospere grazie all’economia petrolifera, a Vargas.
Buona lettura,
Stefano
Che fine ha fatto il petrolio del Venezuela?
di Estefano Taburrini da Vargas, Distretto capitale
“Qui va tutto bene. È un posto sicuro”, dice l’autista mentre percorriamo il tragitto che va dall'aeroporto all'Hotel. Passiamo dalle Avenidas Bicentenario e La Marina e altre strade di Catia La Mar.
Fabbricati abbandonati, edifici senza tetto, pareti sbiadite e piene di polvere come le strade.
Le macchine circolano malapena. L'odore di benzina permea tutto l'ambiente. I passanti sono quasi tutti poveri, come la maggior parte della popolazione. Hanno l’aria stanca, indossano quel che possono.
Non ci sono punti di aggregazione. Al massimo qualcuno gioca a basket o calcetto nelle palestre di cemento battuto. Altri si riuniscono negli angoli delle strade. Chi per svago, chi per altro.
La città pare abbandonata da qualche decennio. Nessuno ha più tinteggiato le pareti. Non si sa quando le strade siano state pulite per l'ultima volta.
Le uniche insegne ancora fresche sono quelle dell'ultima campagna elettorale in favore di Nicolas Maduro. Tutte leggibili e colorate.
Al presidente è stata dedicata una gigantografia all'entrata della stazione delle corriere. Il nome del candidato oppositore non si vede da nessuna parte.
Al Municipio José Maria Vargas pare non sia successo nulla nei giorni precedenti: nessuna protesta, rivolta o manifestazione. È tutto sotto controllo. Dicono sia il Municipio più sicuro di tutti, grazie al lavoro congiunto tra governo e Poder popular.
Quello di Poder popular è uno dei concetti superlativi coniati dal chavismo. Vanta anche un’apposita Ley organica, perché in un Paese senza regole c’è una legge per ogni cosa.
Nella gerarchia delle fonti venezuelane, le Leyes organicas sono situate un gradino sotto la Costituzione e i trattati internazionali. Nell’ordinamento giuridico venezuelano, le leggi seguono un ordine piramidale. Il Poder popular è quindi un istituto rilevante nel Paese sudamericano, è definito come “il pieno esercizio della sovranità” da parte del popolo dalla Ley organica.
La norma, approvata nel 2010, resta vaga: dispone assemblee di cittadini, gestione e autogestione dei beni pubblici. Ma laddove la legge lasciava una lacuna, il capo della sicurezza nel municipio Andres Gonçalves ha individuato un’opportunità.
Secondo un cittadino, che ha chiesto di restare anonimo, Gonçalves “ha reclutato nella polizia i peggiori di ogni banda. A questo punto, non si sbaglia più quando si fa irruzione delle favelas. Il colpo è sicuro”.
Il nostro interlocutore giustifica la politica securitaria dicendo che “la polizia non uccide coloro che possono correggersi, ma soltanto gli azotes de barrio. Cioè, coloro che sono recidivi”.
Vicino all’Hotel Alto Mar vivono una ventina di soldati. La struttura alberghiera dà loro da mangiare. Bisogna tenerseli stretti.
Loro in cambio garantiscono sicurezza. Talvolta con qualche eccesso. “Qualche mese fa c’era un ragazzo con l’atteggiamento un po’ sospettoso. Girava e girava. Lo hanno preso in dieci”.
Sembra che Vargas non possa permettersi la delinquenza. Verrebbe meno quel poco di turismo che mantiene vive le attività alberghiere e ristorative su cui pende l’economia locale.
Gli abitanti vanno fieri di quello che hanno. Il Paseo de la Marina, nel lungomare de La Guaira, è il posto più frequentato. C’è chi corre, chi fa il bagno o chi semplicemente fa una passeggiata.
Si tratta di sfruttare la prossimità all’aeroporto Simòn Bolivar e ai Caraibi. Perciò il Paese reale deve restarne fuori.
Tuttavia, la bolla del Distretto capitale non tiene più come prima. Qualche crepa comincia ad insinuarsi, con la povertà in aumento.
La valuta ufficiale è il Bolivar, ma è stata divorata dall’inflazione. Nei primi cinque mesi del 2024 l’inflazione è stata di 15,3 per cento. Ma dal 2013 al 2019, il Paese ha registrato un’inflazione accumulata d del 5.395.536.286 per cento, un numero impossibile anche da pronunciare. La più alta nella storia dell’America Latina.
L’iperinflazione ha eroso salari e stipendi. E i prezzi erano in costante aumento. La Banca centrale venezuelana (Bcv) è arrivata a stampare una banconota di 100mila bolivar. Anch’essa in costante svalutazione.
Le persone preferirono possedere un dollaro anziché 100mila bolivar: i dollari mantengono un potere d’acquisto stabile nel tempo.
Attualmente, ogni dollaro vale circa 37 bolivares: ora il tasso di cambio è libero. Sono lontani i tempi del tasso di cambio fisso stabilito da Caracas. Misura che a suo tempo ha provocato la nascita di un mercato valutario parallelo.
Oggi i prezzi si misurano in dollari. Almeno non bisogna variare ogni 24 ore.
Il Paese si reggeva sul petrolio. Non è più lo stesso da quando la produzione è crollata. Ma cos’è accaduto all’economia? Perché il Paese è sprofondato nella crisi?
Per le fonti governative la crisi petrolifera è dovuta al crollo del prezzo del greggio e alle sanzioni. Per l’opposizione, il problema è conseguenza delle scelte politiche del regime.
La Costa oriental del Lago
Ci spostiamo verso la Costa oriental del lago. Lì sono stati scoperti i primi giacimenti, attorno agli anni dieci del Novecento.
Lì sono nate le prime aziende petrolifere del Paese. Erano state fondate da immigrati italiani, spagnoli ed europei. Presenti anche gli statunitensi, forti degli accordi bilaterali tra Caracas e Washington. Lì c’era l'hub produttivo che sorreggeva l'intera economia nazionale.
Tutte loro espropriate di un colpo solo. Quando Hugo Rafael Chavez diede l’ordine, in un atto pubblico che si tenne l’8 maggio 2009 nel molo “Transportes de Maracaibo”.
“Non ci servono (imprese, ndr). Per cosa? Il popolo e i lavoratori possiamo essere più efficaci nella gestione della nostra industria e di tutti i suoi servizi. E lo dimostreremo”.
Secondo l’allora presidente, lo Stato avrebbe risparmiato 700 milioni annui. E quei soldi sarebbero stati destinati ai lavoratori: “Questo si chiama socialismo”.
Poche ore dopo, le imprese erano state militarizzate.
La sua scelta ebbe un impatto immediato su 76 imprese con conseguenze su 100mila famiglie e ricadute sull’intera società. Soltanto quelle statunitensi furono risarcite dopo lunghi contenziosi. Exxon Mobil, nel 2007, ottenne 908 milioni di dollari.
Ora invece rimangono le città fantasma. Quartieri abbandonati. Case senza tetto, con porzioni di fabbricato crollate. Pareti senza tinta e l'erba a tre metri. Dove un tempo c’era ostentazione ora c’è solo miseria. Peggio di ciò che abbiamo visto a Caracas.
L’impatto della crisi
Ogni sera la città è vuota e desolata. Non ci sono quasi più auto per strada. La circolazione è molto limitata. Le persone sono poche e camminano con il passo stanco. Caldo, puzza di benzina e cattiva alimentazione non aiutano gli abitanti di queste città.
Il malfunzionamento delle cose rallenta il ritmo di vita delle persone. E non parliamo di quella lentezza che sa di sobrietà, ma di pesantezza. Cioè: una dilatazione involontaria dei tempi di ciascuno. Sembra tutto fermo, ma il tempo scorre. E questo fa disperare chiunque.
Sono lenti gli spostamenti, perché la gente non ha benzina. Poi, spostarsi a piedi è un’esperienza infernale. I marciapiedi sono rotti, l’aria è densa di monossido di carbonio, fumo e umidità.
Non è un Paese per poveri. Eppure quasi tutti lo sono. Dopo mezzogiorno le città sono desolate. Quasi tutti si raccolgono. Non ci sono più soldi per continuare la giornata. Non c’è nemmeno più voglia.
I servizi pubblici sono carenti. L’acqua arriva sporadicamente. Occorre procurarsela con apposite pompe idrauliche. Oppure pagando un camion: 6mila litri per venticinque dollari. Sono tanti, per un pensionato che guadagna 3 dollari al mese, ad esempio. Manca spesso l’elettricità, anche per quattro ore. I telefonini sono sempre attaccati alle spine elettriche per evitare di rimanere senza batteria.
Ogni famiglia è munita da più di una lanterna. I pochi ricchi hanno acquisito anche generatori elettrici. È un modo per scampare ai razionamenti elettrici.
Anche questi servizi erano forniti da ditte che gravitavano attorno alla statale Pdvsa. Sono venuti meno pian piano. Dopo le espropriazioni.
Per sopravvivere, le persone hanno cambiato mestiere. Senza industria, l’economia è diventata tutta informale. Facile trovare ex-imprenditori petroleros che gestiscono nuovi foodtruck. La città ne è piena.
Ciascuna famiglia ha visto partire almeno un componente, che aiuta dall’estero. Non più in cerca di fortuna. Qualcuno è partito in aereo o in autobus. Qualcun altro è morto nel cammino. Gli itinerari a piedi nella selva de El Darién possono essere letali. Centinaia sono scomparsi nel tentativo di oltrepassare il fiume. Mentre eravamo qui ne sono morti sei. Tutti annegati.
La gente però parte lo stesso, malgrado i pericoli.
La maggior parte dei migranti è giovane. La zona è spopolata. “Cosa ci stavano a fare qua? Meno male che qualcuno ci manda le rimesse dall’estero. Sennò sarebbe impossibile vivere nel Paese”, dice Maria Rodrìguez che ha visto partire entrambi suoi figli. Uno in Colombia, l’altro in Spagna.
La gente fa il possibile per andar via: c’è chi vende case, macchine, attività commerciali. Serve poi tempo a chi parte, per inviare qualche soldo o rimessa. Occorrono mesi e a volte anni per trovare un lavoro stabile e redditizio.
Ogni lunedì gli sportelli della Western Union si riempiono. La gente si ammassa per prelevare le rimesse che arrivano dall’estero. Da pochi anni, le succursali dell’agenzia statunitense si sono diffuse nel Paese. Ciò è accaduto in concomitanza dell’ondata migratoria nel Paese.
L’agenzia è utile agli emigrati che dal Brasile, Colombia e altrove inviano le rimesse ai loro familiari. Possono farlo tramite App. Le commissioni costano 1,50 dollari. Una volta che si preme il tasto “invia”, il denaro è pronto per essere ritirato. La gente si reca allo sportello per ritirare quel poco che arriva.
Di socialismo non parla più nessuno. Impera invece un capitalismo disumano. Tutto costa. L’accesso a un ospedale comporta l’acquisto di tutto il materiale medico occorrente, così come dei farmaci che saranno utilizzati. Si può arrivare a 100 euro.
Il servizio sanitario è assente. Conviene a quel punto andare a una clinica privata. Lì una visita normale può costare 40 euro. Un prezzo che equivale a tredici pensioni, quasi sette salari minimi. Un accesso d’urgenza costa il doppio.
Secondo i governi municipali, la carenza di servizi è dovuta all’assenza di risorse. Esse non vengono puntualmente erogate dal potere centrale.
Così, l’asticella del governo locale diviene davvero bassa. Al punto di festeggiare come un successo cose che un tempo erano ordinarie.
Tik Tok e Instagram sono pieni di video che celebrano il ripristino dell’asfalto sulle strade, il taglio del verde pubblico. Anche la consegna di cibo alle persone bisognose diviene celebrativa.
Ma a chi detiene il potere non manca nulla. E si vede. Sono gli unici ad aver aumentato di peso dopo la crisi. Siano filogovernativi od oppositori l’atteggiamento è lo stesso. Si palesano solo nei grandi eventi, scattano qualche selfie, osannano i leader. Scompaiono però dinanzi la ferialità. Troppo dura per loro.
La sicurezza
Il potere reale è in mano alla Policia nacional bolivariana (Pnb) e altri corpi di sicurezza che presidiano la città. Non più per garantire l’ordine pubblico, ma per affari poco attinenti alla divisa.
Sono loro che si spartiscono il territorio, chiedono il pizzo ai commercianti. Ma lo chiedono anche i gruppi criminali. Ogni mese, il supermercato Gran Avenida paga seicento euro alle piccole mafie. C’è chi addirittura paga più di due entità. Soltanto così si viene lasciati in pace.
L’ultimo che ha opposto resistenza ha subito un attacco di granate nella propria attività. Ora sono tornati con i sequestri di persona.
Mi dice Juan Arteaga, di 36 anni: “Non avendo uno stipendio adeguato, la polizia municipale non si occupa più delle vicende pubbliche. Li troviamo semmai a custodire le singole attività commerciali private”.
Di qui, racconta Arteaga, “l’insufficienza di agenti di polizia per le strade. Se li chiami per un furto o un incidente non vengono. Eppure ogni anno ne promuovono centinaia. Tutti giovani, con meno di vent’anni”.
L’unico reato che potrebbe attirare l’attenzione è la violenza di genere. Non per una sensibilità riguardo i diritti delle donne. “Se un uomo viene fermato per stalking o violenza deve sborsare duemila dollari. Altrimenti lo arrestano. Cinquecento vengono spartiti tra gli agenti che procedono all’arresto. Altri millecinquecento tra i superiori”.
Gli agenti trattano con gli autori di reato prima di portarli in caserma. “Sborsa seicento dollari. Altrimenti dovrai pagarne il quadruplo”.
Juan ne ha viste tante alla sua giovane età. Era presente nei movimenti di protesta che presero forma dal 2014 in poi. Dopodiché, è diventato papà. È uno dei pochi, perché la denatalità sta arrivando anche qui. Secondo Maria Alejandra, di 24 anni, “la gente non vuole fare più figli. La vita è troppo cara. Non c’è lavoro, non ci sono opportunità”. Maria Alejandra afferma quando sia diventato facile “incontrare ragazzi e ragazze di 35 anni restii a diventare genitori. Chi lo mantiene un figlio in queste condizioni? Prima i venezuelani non ci pensavano. Ora ci pensano due volte”.
Le strade un tempo erano piene di bambini e adolescenti giocavano. Ora non c’è più nessuno.
L’allarme è scattato nel 2021. Allora il tasso di natalità era calato di quasi cinque punti percentuali rispetto al decennio precedente. “Stiamo perdendo popolazione da tutte le parti” aveva sottolineato Anitza Freitez, direttrice dell’Istituto di ricerche economiche e sociali dell’Universidad catolica Andrés Bello (Ucab). “L’invecchiamento della popolazione è salito di vent’anni a conseguenza delle migrazioni che comportano la partenza di persone giovani”.
Fonti governative dicono che la causa di questo male sia il governo degli Stati Uniti. La popolazione starebbe subendo l’impatto delle sanzioni. Tuttavia, gli abitanti locali dicono che il problema sia nato un ventennio fa.
Quando Chavez si prese Pdvsa
Prima delle espropriazioni, vennero colpiti i petroleros. Una classe sociale privilegiata, che vantava stipendi abbondanti. I servizi erano tutti pagati dallo Stato. Lo erano anche le case, tutte situate nelle vicinanze dei pozzi. Vivevano in quartieri specifici, appartati dal resto degli abitanti.
Le abitazioni erano tutte uguali, sul modello dei quartieri statunitensi. C’era poi una stratificazione sociale interna: alcune zone erano riservate agli operai, altre agli ingegneri e infine ai dirigenti. I quartieri aziendali erano una ventina e ci vivevano oltre 10mila lavoratori.
Il sistema è durato anche nei primi anni di crisi dell’Industria petrolifera, dopo il 1976, subendo una battuta d’arresto nel 2002: nel periodo della crisi politica che ha colpito l’industria. Licenziamenti di massa provocati da Chàvez in un messaggio a reti unificate hanno sconvolto l’azienda.
In quei mesi Chàvez fu vittima di un colpo di Stato che prese forma nella notte tra l’11 e il 12 aprile. Con il Golpe, il Paese raggiunse il climax di tensione: “La Costituzione ci obbliga a evitare ulteriori spargimenti di sangue. Tale obbligo richiede l’uscita pacifica del presidente e la sostituzione dell’Alto comando militare”, aveva detto un gruppo di generali.
Qualche ora prima c’era stata una manifestazione nei pressi del Palazzo di Miraflores: 19 morti, oltre 90 feriti. I cecchini appostati a Puente Llaguno, nelle vicinanze del Palazzo di governo avevano cominciato a sparare sulla folla che attraversava l’Avenida Baralt.
Era nato tutto da un’improvvisazione, mentre gli operai manifestavano a Caracas. Carlos Ortega Carvajal, segretario generale della Confederaciòn venezolana de trabajadores (Ctv), aveva detto: “Non escludiamo che questa massa, questo fiume umano, raggiunga Miraflores”. Bastò l’appello. I manifestanti partirono in corteo verso il tragico epilogo. Non c’era più spazio per la società civile. C’erano solo le cupole: militari, politici, imprenditori che si contendevano le sorti del Paese.
All’epoca, la Confindustria venezuelana spinse la formazione di un governo di transizione. Ne facevano parte i partiti politici dell’opposizione. Lo presiedeva Pedro Carmona Estanga, che arrivò persino ad annullare la Costituzione. Si prospettava così un governo neoliberista, che nel giro di poche ore fu nuovamente rovesciato. I militari riportarono il comandante al potere. Si aprì così un’altra stagione politica, fatta di restrizioni alle libertà fondamentali.
La fazione di Chavez voleva monopolizzare i settori chiave della produzione. A dividere il Paese erano state 49 decreti legge volte a statalizzare terre, idrocarburi e altri ambiti. Tali decreti furono approvati sotto la figura delle “Leyes habilitantes”. Tali leggi, regolate dall’articolo 3 della costituzione venezuelana, richiedono l’approvazione di tre quinti dell’assemblea nazionale.
Tra gli episodi più eclatanti c’è il licenziamento di 18mila lavoratori da Pdvsa, azienda petrolifera statale, a reti unificate.
All’epoca di Chàvez, i messaggi a reti unificate erano quasi quotidiani. Erano il principale mezzo di comunicazione alla nazione. Di colpo s’interrompeva ogni altra trasmissione e la rete pubblica veniva monopolizzata. Tali discorsi raggiungevano persino le otto ore. Poi, ogni domenica, c’era un’apposita trasmissione, “Alò presidente” a cura dell’allora presidente venezuelano.
I lavoratori licenziati hanno perso tutto. Sono stati costretti a trasferirsi immediatamente, perdendo appunto le case e i servizi.
Li si vedeva appostati nei parchi, a rivendere i loro beni per potersi sostentare. Molti pernottavano fuori. I loro figli dovettero cambiare scuola a metà anno. Altri andarono all’estero. Io ne conobbi alcuni. Quelle case, scuole e servizi rimanevano proprietà di Pdvsa, che non era più sotto la direzione dei manager ma di un partito politico.
Tuttavia, lo Stato non volle riabitare quei quartieri ma decise di costruire altre case. I campos petroleros vennero così abbandonati a sé stessi.
Per capire com’è andata a finire visiteremo i campos petroleros di Cabimas e Ciudad Ojeda, due città che dipendevano dalla produzione del petrolio e quindi dalla statale Pdvsa.
Leggi qui la prima puntata della serie:
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Come rispondere alla politica della rabbia: il dibattito su Appunti
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Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate.
Appunti e Dieci Rivoluzioni
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Un podcast realizzato da Stefano Feltri, Giorgio Meletti e Federica Tourn, realizzato grazie al sostegno della comunità di Appunti. Con la collaborazione di Carmelo Rosa e la consulenza per musiche ed effetti di Stefano Tumiati.
Bellissimo approfondimento!! Grazie