Quel che resta di Starmer un anno dopo
La vittoria del premier laburista in Gran Bretagna aveva riacceso le speranze delle sinistre socialdemocratiche in tutta Europa. Cosa è andato storto?
Starmer ha praticamente ipotecato la sua stessa sopravvivenza politica infilando una serie di banalissimi errori di comunicazione, ma anche di scelte politiche ottuse e palesemente controproducenti, puntando tutto sul piano internazionale, dalla crisi Ucraina allo sposare indiscriminatamente le posizioni di Israele, anche se va riconosciuto un recente, seppur tardivo, ravvedimento
Marzia Maccaferri
Un anno fa Keir Starmer vinceva le elezioni nel Regno Unito. Grazie al sistema elettorale maggioritario, una vittoria di portata storica. Il partito ha ottenuto 411 seggi su 650; i conservatori solo 121 – il numero più basso mai raggiunto. La maggioranza del Labour è stata appena inferiore al trionfo di Tony Blair nel 1997, anche se Starmer ha recuperato terreno partendo da una posizione ben peggiore.
A un anno di distanza, il sostegno per il governo laburista è drasticamente diminuito. Nel 2024, il partito aveva ottenuto il 34 per cento dei voti, i conservatori il 24 per cento e Reform il 14 per cento. Un sondaggio Ipsos pubblicato domenica 6 luglio assegna a Reform, il partito populista di estrema destra di Nigel Farage, il primo posto con il 34 per cento, al Labour un 25 per cento, ai conservatori un 15 per cento, mentre LibDem e Verdi rispettivamente vengono indicati all’11 e 9 per cento.
Non va meglio nemmeno per il primo ministro. Secondo Britain Elects, dopo 357 giorni, il tasso di approvazione di Starmer è -33: sei punti in meno rispetto a quello ottenuto da Rishi Sunak dopo un anno di governo (-27), 32 punti sotto Boris Johnson (-1), 31 sotto Theresa May (-2) e 77 sotto Blair (che aveva avuto un gradimento in positivo di +44 punti). Solo Gordon Brown fece peggio; non esattamente incoraggiante.
Le strategie che si erano dimostrate efficaci all’opposizione e che hanno aiutato il Labour a ottenere consenso al momento sembrano essere totalmente inadeguate; e difficilmente funzioneranno nel 2029. Cosa è andato storto?
Miopia politica e sindrome da “Seconda Repubblica italiana”
Un anno fa, Starmer aveva dunque regalato un’estate di “ottimismo della volontà” e “pessimismo della ragione” a un popolo di sinistra che, a fatica, cercava di elaborare i lutti della lunga era conservatrice e del caos-Brexit.
Non solo in Inghilterra: Starmer aveva riacceso la speranza anche tra le varie sinistre socialdemocratiche europee.
Oggi, un anno dopo, Starmer ha praticamente ipotecato la sua stessa sopravvivenza politica infilando una serie di banalissimi errori di comunicazione, ma anche di scelte politiche ottuse e palesemente controproducenti, puntando tutto sul piano internazionale, dalla crisi Ucraina allo sposare indiscriminatamente le posizioni di Israele, anche se va riconosciuto un recente, seppur tardivo, ravvedimento.
L’errore che Starmer rischia di pagare caro più di tutti è l’aver dato per scontato, in questi mesi, l’appoggio indiscusso della propria maggioranza, mostrando noncuranza, se non indifferenza, verso i propri parlamentari.
Se l’ultima goccia è stata la riforma del welfare – che lo ha costretto all’ennesima U-turn davanti alla minaccia di una fronda interna pronta a votare contro ai tagli ai sussidi per disabili, disoccupati e lavoratori a basso reddito – la riproposizione ostinata di una sorta di “austerity sotto mentite spoglie” ha spinto all’azione non solo l’opposizione interna di matrice corbynista, ma anche la cosiddetta soft-Left (l’ala socialdemocratica del partito orbitante attorno al sindaco di Manchester Andy Burnham e Louise Haigh, e alla corrente legata a Compass) che ha iniziato a organizzarsi e a far sentire la propria voce.
E poco importa che si tratti più di una comunicazione insoddisfacente da parte del governo e di una percezione distorta dell’opinione pubblica – giustificazione che lo stesso Starmer ha provato ad avanzare in un’intervista a Sky News – piuttosto che di contenuti inadeguati e politicamente contestabili del progetto riformatore. Le ricadute politiche, anche immediate, rischiano di essere gravi.
Con il suo pragmatismo oltranzista, Starmer è ora vittima – e non più capo – della sua stessa maggioranza parlamentare. È schiacciato, da un lato, da frange critiche che avrebbero potuto essere facilmente ricondotte a un confronto interno il quale tuttavia non è mai avvenuto, e che si sono invece istituzionalizzate con un voto contrario ai Comuni, certificando di fatto quanto Starmer sia ormai “ricattabile” dai suoi. E questo dovrebbe far riflettere tutti sulle premature dichiarazioni di morte del Parlamento.
Dall’altro, la sua sufficienza nei confronti delle pratiche lente della politica parlamentare ha prodotto l’ennesima defezione: quella di Zarah Sultana, che ora siede come indipendente assieme ad altri 16, di cui ben 4 provengono dal Labour.
Letta con le nostre lenti della politica “da Seconda Repubblica”, Starmer è riuscito in qualcosa di quasi impossibile: dare visibilità e peso politico al “gruppo misto” in un sistema (formalmente ancora) bipartitico. Non è un buon segnale per un leader che aveva costruito la propria campagna elettorale all’insegna della stabilità interna.
Scissioni e ricorsi storici
Poi anche la beffa finale: Sultana ha annunciato che formerà una nuova forza politica assieme all’ex leader laburista Jeremy Corbyn, anche lui ora a Westminster come indipendente. Corbyn, dopo una prima fase in cui si è mostrato evasivo e impacciato – del resto sembra essere questa la cifra dell’uomo – ha confermato che una qualche “forma di organizzazione politica alternativa al Labour” è in fase di costruzione.
In un certo senso, c’era da aspettarselo. Fin dall’inizio della sua leadership, Starmer ha smantellato con una durezza francamente incomprensibile gran parte dell’eredità corbyniana (incluso lo stesso Corbyn), marginalizzando non solo i fedeli, ma anche quelle componenti della soft-Left che non erano apertamente contro l’ex-leader. Un antagonismo che è andato a sedimentare una struttura ideologica di contrapposizione e generare ora una organizzazione politica.
Non è tanto il potenziale nuovo partito a rappresentare la minaccia maggiore per Starmer. Le speranze risposte sulla joint-venture Corbyn-Sultana hanno fatto esplodere la sinistra sul web – oltre 55 mila persone si sono iscritte alla mailing-list di Zarah Sultana, ma chi ha bazzicato la politica al tempo dei mass-media sa quanto questi numeri siano effimeri.
Chi conosce un po’ la storia della sinistra britannica sa anche che queste scene si sono già viste. Più volte. E non si sono concluse felicemente.
Nel 2003, George Galloway fu espulso dal Labour e fondò Respect, una formazione politica eccentrica che fu, di fatto, un’alleanza tra il Socialist Workers Party (SWP) e la Muslim Association of Britain.
Prima ancora, il SWP aveva partecipato brevemente a un’altra coalizione: la Socialist Alliance, un fragile patto elettorale con il Socialist Party of England and Wales (ex Militant Tendency) e altri gruppi della sinistra radicale, in opposizione al New Labour. Ancora prima, nel 1996, Arthur Scargill aveva fondato il Socialist Labour Party (SLP), in reazione alla revisione della Clausola IV da parte di Tony Blair.
In tutti questi casi, le iniziative cercarono di offrire un’alternativa elettorale al Labour, percepito come in fase di abbandono dei suoi valori fondativi. Pur suscitando inizialmente entusiasmo, questi partiti finirono però per implodere o scivolare nell’irrilevanza, ostacolati sia dal sistema elettorale maggioritario sia da divisioni interne su programmi, statuti e leadership.
Non è un caso che esponenti storici della sinistra socialista laburista come John McDonnell, Diane Abbott e Clive Lewis abbiano del resto già fatto sapere che non si uniranno a Corbyn. Tuttavia, quella in atto rischia di diventare la più significativa scissione a sinistra della storia del Labour. Per due motivi.
Le scissioni in un sistema elettorale bipartitico hanno infatti una doppia ricaduta. Da un lato, aprono possibilità di rappresentanza per settori sociali e ideologici che faticano a trovare spazio in un partito tradizionale, strutturato e burocratico come il Labour. Dall’altro, però, finiscono per dividere il voto a sinistra, spalancando la porta ai partiti arrivati secondi.
E nel caso specifico, non si tratterebbe di riconsegnare il seggio ai conservatori, ma – nei molti collegi del centro Inghilterra – di regalarlo a Reform.
In aggiunta, come Corbyn ha lasciato intendere nelle settimane precedenti, la prima prova elettorale del nuovo partito saranno le elezioni locali e nei parlamenti decentrati nel 2026, dove la combinazione di collegi urbani e sistemi proporzionali (come quelli di Holyrood in Scozia e del Senedd in Galles) offre un terreno potenzialmente fertile per un exploit elettorale.
In questo quadro, il nuovo partito Corbyn-Sultana (prima o poi anche Corbyn dovrà prendere una decisione e trovare un nome alla sua creatura) non punterebbe necessariamente al governo, ma anzi all’idea di diventare l’ago della bilancia. Un altro segnale della “italianizzazione” del sistema politico britannico?
Insomma, tutto questo potrebbe trasformarsi in una vera e propria sentenza di morte per il partito di Starmer.
“Leadership liquida” e “decontaminazione ideologica” non funzionano più
Nel 2024, la strategia del Labour si è concentrata spietatamente sull’ottenere voti e consenso nei collegi chiave per conquistare la maggioranza a Westminster, puntando su un mix di “decontaminazione” e “prudenza”. Una strategia perfettamente riuscita, favorita dal declino dei Conservatori.
Da un lato, Starmer si è focalizzato sul “ripulire il marchio Labour”, minimizzando il ruolo delle idee per trasmettere un messaggio il meno possibile astratto. Starmer ha dunque adottato una strategia di “quietismo ideologico”, evitando dichiarazioni fortemente identitarie: un approccio utile per attrarre l’elettorato socialmente conservatore dei collegi contesi, anche a scapito dell’attivismo dei centri urbani, che si dava comunque per acquisito dopo anni di caos conservatore. Ma oggi le condizioni sono profondamente cambiate e quella “leadership liquida” non funziona più.
Anche sul piano programmatico, la linea era rimasta prudente. Le promesse specifiche sono state poche, soprattutto quelle che comportavano nuove spese (salvo alcune eccezioni coerenti con la strategia di decontaminazione).
In altre parole, Starmer ha seguito la celebre metafora di Roy Jenkins: affrontare la campagna elettorale come chi trasporta un vaso Ming su un pavimento dove hanno appena passato la cera.
Da un certo punto di vista, il suo era un programma di soft-Left o, diremmo noi nel continente europeo, di socialdemocrazia tradizionale. Ma invece di attivare quell’area e ancorarsi a quelle idee, il suo primo anno di governo ha spinto la soft-Left all’antagonismo, portandola alla contro-organizzazione.
La forza della socialdemocrazia, se mobilitata, può essere formidabile e davvero rivoluzionaria. Starmer dovrebbe saperlo: il suo è il partito di Clement Attlee; e il riformismo socialdemocratico è esattamente ciò che ha utilizzato con grande efficacia nella sua campagna per la leadership del 2020.
Poi deve aver dimenticato qualche elemento, convinto di poter governare una congiuntura straordinaria come i tempi in cui viviamo senza idee e abdicando al ruolo di costruzione di un’egemonia politico-culturale.
Il Labour ha ancora tempo, non tantissimo, per ricostruire quel progetto.
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Starmer una delusione (annunciata) per tutti coloro, specialmente in Italia, che aspettavano il nuovo messia della sinistra che avrebbe fatto chissà quale mirabolante politica. Starmer è un primo ministro britannico che per natura non sarà mai un pacifista, sarà sempre il primo degli occidentali e sarà sempre alla testa di un paese che si sente impero pur essendo in maniche di camicia da decenni.
Starmer poi appena insediato ha sottolineato la propria approvazione per il progetto albanese della Meloni, insomma una posizione in Italia più a destra anche di Salvini.
Ma la vera domanda da farsi è la seguente: dove sta la sorpresa?
Starmer, Macron, Merz e Sanchez sono il baluardo contro le assurdità di Trump, Putin e, seppur meno, Meloni (quest'ultima meno squilibrata ma solo perché ha le mani legate dal colossale debito pubblico italiano). Purtroppo tutti e 4 non godono di buona salute presso l'opinione pubblica, anche a causa del lavorio ai fianchi fatto sui media non tradizionali dalle forze sovraniste spesso supportate dalla Russia. Non è la prima volta che succede peraltro, ricordiamo sempre che Churchill, senza il quale forse la storia del ventesimo secolo sarebbe completamente diversa, fu sconfitto alle elezioni. Ricordiamo che nel 1946 al referendum metà degli italiani (e forse di più) votò per i Savoia, che avevano permesso l'ascesa di Mussolini e tutto il resto. Il problema è più grande: il suffragio universale è un sistema che non funziona, è una eccezione degli ultimi 100 anni e sono sicuro che non resterà ancora per molto, visto i problemi che produce. Ricordo a tutti che nella Atene di Pericle, nella Roma repubblicana, negli USA di Washington, nella Francia della rivoluzione, non c'era il suffragio universale. Democrazia non vuol dire suffragio universale.