Qualcuno crede davvero alla propaganda di Putin?
DE FACTO - La rubrica di Maurizio Mascitti su quello che crediamo, sul perché lo crediamo e su quanto è distante dalla realtà
Quando una credenza non è orientata alla verità delle cose il suo portatore potrebbe non sentire nessuna necessità di difenderla argomentando sulla base di evidenze; proprio perché quella credenza non è fondata davvero su di esse
Maurizio Mascitti
Nella prima settimana di marzo si è svolta a Sochi, in Russia, la ventesima edizione del Festival Mondiale della Gioventù. Si tratta di un forum internazionale aperto a delegati provenienti da centinaia di paesi in tutto il mondo.
Tra di loro ci sono giovani scienziati, imprenditori, sportivi, artisti, diplomatici o semplici volontari. E in una delle giornate del festival compare anche il presidente russo Vladimir Putin, che presenzia rispondendo alle domande dalla platea. In quell’occasione un giovane ragazzo dal pubblico si alza in piedi, sbracciando per farsi notare da Putin e il suo staff.
Il giovane prende poi la parola, e con un inglese un po’ stentato si rivolge direttamente al presidente russo chiedendogli di fare una foto per «mostrare all’Italia e a tutti che lei [Putin] è umano e che la propaganda che viene diffusa è falsa perché siamo tutti esseri umani e facciamo tutti parte della tribù umana».
Il giovane in questione si chiama Ciro Cerullo, in arte Jorit. È un noto street artist di Napoli che ha realizzato diversi murales nel capoluogo campano.
Il suo intervento al festival di Sochi – e la successiva foto concessagli da Putin – hanno ovviamente scatenato polemiche in patria, vista la posizione internazionale dell’Italia nel conflitto Russia-Ucraina.
Intervistato da Fanpage.it sulla vicenda, Jorit è un fiume in piena che ripete come un disco rotto le stesse quattro o cinque frasi a ogni domanda. L’intervista merita davvero di essere ascoltata, perché l’effetto di spaesamento è notevole.
Quando la giornalista (Gaia Martignetti) fa ad esempio notare a Jorit che c’è un mandato di arresto internazionale per Vladimir Putin emesso dall’Aja, lo street artist napoletano inizia ad affastellare una serie di accuse sconclusionate contro l’Occidente colonialista e amico dei dittatori, tanto che l’intervistatrice è costretta a fargli notare che la domanda era un’altra.
Ma Jorit non demorde e incalzato su Putin torna a menzionare lo spettro dell’Occidente, in una sorta di ossessione per le risposte elusive.
La parte interessante di questa intervista non sta tanto nel suo contenuto: dopo averla vista non scoprirete granché su Jorit e le sue posizioni. Quello che conta è il modo in cui lo street artist esprime le sue idee e (non) le difende.
Da un lato infatti Jorit fa mostra di credere alla propaganda di Putin, ma se interrogato su quelle credenze non riesce a costruire un discorso di senso che non sia vuota ripetizione. Viene spontaneo chiedersi se Jorit, e tanti altri come lui, crede davvero a quello che dice.
Il vantaggio delle credenze vere
Nella scorsa uscita di De Facto parlavamo un po’ di come funzionano le credenze. Si diceva che le credenze sono stati mentali sensibili alle evidenze: se noto che esce del fumo dalla mia moka sul fornello crederò più facilmente che il caffè è pronto. Questa sensibilità non è un caso, ma risponde a una logica evolutiva del nostro cervello.
Da un punto di vista cognitivo è infatti evolutivamente vantaggioso mantenere e formare credenze vere, perché se ho informazioni corrette su come funziona il mondo ho anche più possibilità di sopravvivere. E per formare credenze vere ho bisogno di costruirle su una base affidabile: le evidenze, appunto.
Non è evolutivamente vantaggioso affidarmi al caso. Ha più senso pensare “il caffè è pronto” perché vedo il fumo uscire dalla moka che non perché ‘vado a sensazione’. Considerato tutto questo molti filosofi, specialmente i più ‘cognitivisti’, condividono l’idea che le credenze sono un stato mentale orientato alla verità delle cose.
Questo discorso forse è talmente intuitivo che ci sembra praticamente ovvio, ma se ci pensiamo un attimo non vale sempre.
Un individuo spesso intrattiene numerosissime credenze che non manifestano un orientamento verso la verità delle cose. Pensiamo solo un attimo alle credenze religiose.
Le persone che aderiscono sinceramente a una confessione religiosa non lo fanno raccogliendo questa o quella evidenza empirica della verità dei sacramenti o dell’esistenza del loro dio. E se accade di certo è una cosa ben strana; un’eccezione più che la regola.
Ma questo non vale solo per le credenze religiose. Anche le credenze politiche spesso, se non sempre, sono così.
Quando ragioniamo di politica o ci facciamo delle idee su quale partito votare ci capita spesso di essere selettivi verso le evidenze, e di accettare solo quelle che confermano la nostra opinione; mentre tendiamo a dimenticare, sottostimare e ignorare le evidenze che vanno in direzione opposta.
Questo non vuol dire che le credenze che ci formiamo sulla politica o sulla religione siano necessariamente false. La differenza sta nel processo di formazione, non nel risultato.
Quando l’oggetto, o l’evento, della nostra attenzione non è neutro come il caffè della moka, entrano in gioco delle distorsioni nel processo di mantenimento e formazione delle nostre credenze (bias cognitivi, cognizione protettiva dell’identità ecc.) che tendono a farci sbagliare, cioè ad avere con più probabilità credenze false.
Possiamo tranquillamente formarci credenze vere, nonostante tutto. Ma il punto centrale è che l’esistenza di credenze di questo tipo mette in crisi il modello iniziale: non tutte le credenze sono orientate alla verità.
Questa difformità ha spinto alcuni scienziati sociali a classificare le credenze politiche (e altre simili) come stati mentali socialmente adattivi, e non come orientate alla verità delle cose.
In breve, il loro vantaggio evolutivo non sta nell’essere aderenti alla realtà, ma nel garantirci certi benefit di tipo psicologico che derivano dal sentirci parte di un gruppo o di una comunità. E quali sono queste comunità? Esatto, quella delle persone che la pensa come noi sulla politica, che condividono i nostri stessi valori e ideali.
In pratica, significa che siamo disposti ad accettare e difendere idee più probabilmente false – perché non formate per forza su evidenze empiriche – per un bisogno di riconoscimento e inclusione sociale. Questo è in parte il motivo per cui facciamo veramente fatica a modificare radicalmente le nostre credenze politiche.
Quando una credenza ha un costo di formazione e mantenimento praticamente nulli – perché non la sottopongo a verifica – e allo stesso tempo mi dà un beneficio sociale altissimo, perché mi permette di essere parte di un gruppo dove ricevo apprezzamento, sostegno e inclusione; beh se il rapporto costo-beneficio della credenza è questo, è normale che facciamo fatica a rinunciarvi.
Atteggiamenti
Qualche teorico più radicale si è addirittura spinto a dire che forse se questi stati mentali si comportano così non sono poi davvero credenze, dopotutto.
Forse si tratta semplicemente dell’espressione di un atteggiamento; un comportamento paragonabile al tifoso di una squadra di calcio. Non importa cosa faccia la sua squadra del cuore, il tifoso sarà sempre lì a sostenerla e a dare il suo appoggio.
Tradotto per la politica: non importa se il mio leader/partito/movimento di riferimento dice cose vere/fa cose giuste, io lo sosterrò a prescindere perché è il mio leader/partito/movimento. Ma che sia vera la prima o la seconda ipotesi non ci importa qui; sulla classificazione più corretta se la vedranno gli scienziati.
Quello che ci interessa qui è la conseguenza di avere credenze che non sono orientate alla verità delle cose, e come questo si leghi all’incipit dell’articolo.
Qualche lettore arrivato sin qui potrebbe infatti chiedersi che cosa diamine c’entri tutto questo con le dichiarazioni di Jorit.
La risposta breve è questa: può darsi il caso che Jorit e molte persone che dicono di pensarla come lui non credono davvero a quello che dicono.
Nei termini del discorso fatto finora significa che forse Jorit e altri non hanno credenze ‘genuine’, cioè orientate alla verità, sull’argomento, ma potrebbero stare solo esprimendo un atteggiamento privo di una credenza sottostante (oppure avere una credenza socialmente adattiva). Questa ipotesi ha i suoi ovvi limiti.
Banalmente non sappiamo a quali dichiarazioni di Jorit si applica e a quali no. Verosimilmente c’è una parte del suo discorso su Putin a cui crede davvero, ma non siamo nella sua testa e non possiamo sapere quale.
Altri, più radicali, potrebbero essersi bevuti tutta la propaganda del Cremlino. In quel caso la nostra ipotesi è interamente falsa. Ma per ora accontentiamoci di pensare che almeno una parte delle credenze di costoro non siano genuine.
Da cosa è possibile sospettarlo? In parte dal modo in cui si argomenta.
Quando una credenza non è orientata alla verità delle cose il suo portatore potrebbe non sentire nessuna necessità di difenderla argomentando sulla base di evidenze; proprio perché quella credenza non è fondata davvero su di esse.
Quando Jorit è incalzato dalla giornalista di Fanpage.it sul suo intervento al forum di Sochi, lo street artist è elusivo: non risponde mai nel merito delle domande, sposta l’attenzione su altro, ripete meccanicamente frasi fatte.
Questo non è esattamente l’atteggiamento che ci aspetteremo da chi vuole difendere una certa credenza.
Poniamo che io sia davvero convinto che Putin è uno statista illuminato e che lo scoppio della guerra in Ucraina è da addebitarsi all’espansionismo della Nato (qualsiasi cosa voglia dire ‘espansionismo’ per un’alleanza militare ad aderenza libera).
Se una giornalista sfida le mie posizioni farò di tutto per portare argomenti ed evidenze che dimostrino la mia tesi. Non importa se sono false o fallaci: l’importante è che ci sto almeno provando.
Quello che invece fa Jorit nell’intervista, e tantissimi altri individui che si dichiarano ‘per la pace’ o addirittura pro-Putin, è solo di esprimere questa posizione, senza difenderla. Un tifo, per l'appunto.
Questo non rende la loro posizione meno problematica, ma rende invece vani i nostri sforzi di ragionare con loro. I tifosi infatti non sentono ragioni. È inutile dibattere con loro perché
Che fare allora?
Se il vantaggio di avere certe credenze (o certi atteggiamenti) è il riconoscimento e l’inclusione sociale, bisogna fare leva su questi due elementi. La chiave non è quindi elaborare un buon argomento razionale. Questo funziona solo per le credenze genuine.
La chiave è invece trovare un modo per rendere socialmente meno ‘appetibili’ queste credenze e atteggiamenti. E in che modo è possibile farlo? Ci torniamo nella prossima uscita di De Facto!
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Molto interessante . Temo che la mancanza di lettura di quotidiani e l’attingere tramite internet solo a certe fonti da tifoseria alimenti in maniera importante il meccanismo di cui qui si parla
Ottimo articolo