Possiamo ancora salvare Internet?
I modelli di business hanno stravolto la promessa originaria della rete, privatizzata, commercializzata, piattaformizzata, gentrificata, deumanizzata. Ma si può ancora fare qualcosa
In quanto «cittadini» di Internet abbiamo il diritto e il dovere, se non di determinare, quantomeno di spingere per la creazione di un modello di business diverso: uno che si allinei maggiormente ai bisogni delle persone, e non punti soltanto a generare la maggior quantità possibile di profitti per pochi colossi della tecnologia
Valerio Bassan
Buona domenica a tutte e tutti,
oggi vi offro una perfetta lettura domenicale, firmata da Valerio Bassan, che ha scritto un libro importante sul destino di Internet. Cosa è andato storto? Cosa si può fare?
Il libro si chiama Riavviare il sistema. Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla, ed è appena stato pubblicato da Chiarelettere.
Se il pezzo vi piace, se il tema vi interessa, o se volete semplicemente fare due chiacchiere dal vivo, io e Valerio vi aspettiamo domani, lunedì 15 aprile, alle ore 18, alla libreria Feltrinelli di piazza di Torre Argentina, a Roma, per parlarne.
Valerio Bassan è un giornalista che da alcuni anni ha scelto di evolvere il suo lavoro in quello di consulente di strategie editoriali, in particolare di strategie digitali. Lavora per gruppi editoriali grandi e piccoli per aiutarli a ricostruire un modello di business sostenibile dopo che l’evoluzione di Internet ha distrutto quelli del passato.
Proprio in quanto giornalista ed esperto di media, Valerio è arrivato a interrogarsi sulla vera origine dei problemi dell’editoria e - più in generale - della nostra sfera pubblica: la deriva del web da spazio di libertà a palinsesto di contenuti polarizzanti utili soltanto a profilare gli utenti per esporli a inserzioni pubblicitarie personalizzate.
Il libro di Valerio è molto “americano”, nel senso che di solito libri così li scrivono giornalisti e scrittori americani con ampio budget e un pubblico potenzialmente mondiale. Valerio è molto italiano, ma ha fatto un lavoro ambizioso, che incrocia storie, reportage, e analisi in un modo raro per la saggistica italiana. E già per questo meriterebbe attenzione, ma se leggete il pezzo qui sotto capirete che di spunti ce ne sono tantissimi.
Valerio Bassan ha anche una seguitissima newsletter che trovate sempre qui su Substack, Ellissi. Ovviamente ve la consiglio.
E adesso, la parola a lui, a Valerio Bassan.
Noi ci vediamo domani, se volete
Buona domenica,
Stefano Feltri
Il futuro del web e dei nostri tecnofossili
di Valerio Bassan
Nell’ottobre del 1900 un peschereccio, sorpreso da una tempesta, ormeggiò nei pressi di Anticitera, una rocciosa isola situata a sud del Peloponneso. A bordo c’era un gruppo di pescatori greci di rientro dall’Africa.
Quando la furia della mareggiata si spense, uno degli uomini infilò lo scafandro da palombaro e si tuffò in acqua, in cerca di spugne marine da raccogliere e rivendere.
Quello che trovò fu un tesoro ben più grande. A circa 60 metri di profondità, il pescatore si imbattè nel relitto di una nave d’epoca romana che giaceva pressoché intatta sul fondale.
All’interno dell’imbarcazione l’uomo intravide un prezioso carico - statue, anfore, armi e gioielli di bronzo - tanto che credette di avere immaginato tutto, in preda a una visione causata dalla scarsità di ossigeno. Risalito in superficie, ancora frastornato, chiese ai colleghi di scendere a controllare. Era tutto vero: il relitto c’era.
Nei mesi successivi, la Marina greca organizzò diverse missioni di ripescaggio. Tutti i reperti raccolti dal relitto - ci vollero anni e decine di spedizioni - furono trasportati nelle sale del Museo archeologico nazionale di Atene, dove sono conservati ancora oggi. Ci fu però soprattutto un oggetto, tra quelli rinvenuti dal fondale marino, che destò la curiosità degli archeologi.
Era un misterioso congegno bronzeo, ricco di ingranaggi e dentature, che sembrava provenire da una linea temporale parallela.
Il meccanismo, frammentato e ossidato da due millenni di riposo subacqueo, si rivelò essere un sofisticato planetario meccanico: il primo nel suo genere.
Le analisi e i tentativi di ricostruire il marchingegno - oggi conosciuto comunemente come “Macchina di Anticitera” - rivelarono che il calcolatore era composto da una serie di ruote dentate e di ingranaggi ad altissima precisione, e ipotizzarono anche una possibile datazione, il 178 avanti Cristo.
Ma a sorprendere furono soprattutto le funzioni che la macchina permetteva: per calcolare i movimenti degli astri del sistema solare, le fasi lunari, la data dei prossimi Giochi Olimpici e persino prevedere le eclissi.
Una tecnologia all’avanguardia, tanto che per quasi un secolo gli archeologi dibatterono sull’effettiva possibilità che un sistema così complesso risalisse a un’era così lontana.
Oggi definiremmo la Macchina di Anticitera come un “tecnofossile”. Il termine è stato coniato nel 2014 dal geologo Jan Zalasiewicz e dai suoi colleghi dell'Università di Leicester per descrivere le tracce che, come esseri umani, lasceremo sul pianeta a chi ci succederà.
A differenza di quelli lasciati dalle popolazioni che ci hanno preceduto, però, i nostri tecnofossili saranno probabilmente molto più ingombranti, numerosi e drammaticamente meno preziosi di quelli antichi: milioni di tonnellate di infrastrutture fatiscenti e rifiuti di plastica non biodegradabile che andranno a comporre un nuovo strato artificiale della crosta terrestre simile a una immensa discarica a cielo aperto, la tecnosfera.
In questo cimitero di scarti troveranno posto anche i manufatti tecnologici quotidiani, destinati a sopravviverci: telefoni, smartwatch, computer portatili, router, tablet, visori per la realtà aumentata, consolle per il gaming, batterie al litio ed elettrodomestici che oggi definiamo “intelligenti”, e che si trasformeranno nei souvenir indistruttibili di un’era ipertrofica.
Sarà analizzando i resti di questi manufatti che, tra centinaia o migliaia di anni, altri esseri viventi si interrogheranno, cercando di dedurre chi eravamo, cosa pensavamo, e come comunicavamo.
Saranno queste future scoperte archeologiche che definiranno la nostra impronta storica. cosa diranno di noi i tecnofossili che lasceremo sulla terra? Verremo capiti oppure fraintesi? I nostri discendenti ci disprezzeranno, oppure ci guarderanno con ammirazione? Saremo considerati innovatori o perditempo?
La caducità del web
Quello che è probabile, se non certo, è che gli archeologi del futuro avranno un bel daffare a collegare i puntini della nostra epoca. Questo perché, se i nostri device fisici saranno ancora intatti, l’Internet che utilizziamo sarà invece, in larga parte, svanita.
Miliardi di petabyte di dati, conversazioni, siti, video, immagini, documenti in pdf e meme in jpeg si saranno sbriciolati, arrugginiti insieme ai server che in tempi antichi li ospitavano, insieme tubi e ai cavi di rame che li trasportano sotto gli oceani e fino alle case delle persone, alle aziende, alle istituzioni.
La caducità innata del Web presuppone una scomparsa costante delle informazioni; per quanto ci possa sembrare paradossale, è plausibile che un giorno lontano pietre, papiri e libri di carta si riveleranno archivi più resistenti degli odierni cloud.
Così come gran parte delle informazioni che viaggiavano su Internet negli anni Ottanta e Novanta, oggi ormai perdute per sempre, anche gran parte del contenuto che popola l’Internet di oggi farà la stessa fine.
Quello che resterà - ma in quale forma? - sarà ospitato all’interno di musei fisici o biblioteche digitali costruiti da un’alleanza digitale di istituzioni globali, oppure sui server anti-atomici progettati da qualche miliardario. E diventerà, a sua volta, un tecnofossile: la nostra impronta di dinosauro, l’incisione nella caverna, la pergamena ingiallita che diventerà fonte antropologica di testimonianza e speculazione, ma che sarà uno zero virgola di tutti i contenuti che viaggiano in rete.
Fa sorridere pensare, oggi, che in un giorno d’autunno lontano qualcuno riuscirà a scoprire che cosa conteneva il primo video su YouTube, e che quella data sarà ricordata come un momento storico (per chi non lo sapesse: un filmato di 19 secondi che ritrae un giovanissimo Jawed Karim, uno dei cofondatori della piattaforma, mentre parla davanti alla gabbia degli elefanti nello zoo di San Diego).
Che Internet vogliamo lasciare a chi verrà dopo di noi? Non serve viaggiare con la mente verso un futuro così distante per porci questa domanda, che io stesso mi sono posto nel mio libro Riavviare il sistema, pubblicato da Chiarelettere.
Se un giorno la rete sarà diventata un fossile, un reperto come un altro nella grande discarica della tecnosfera, implicherà che la sua utilità sarà venuta meno. Vorrà dire che una delle invenzioni più importanti della storia avrà smesso di essere considerata “abitabile”, e sarà stata prima abbandonata, e poi messa da parte.
Significherà che gli ideali delle sue fondatrici e dei suoi fondatori - che videro nella rete uno spazio di liberazione democratica e personale e uno strumento di costruzione della conoscenza dalle potenzialità infinite - saranno stati traditi, risucchiati nel vortice gentrificante e capitalistico sostenuto dagli imperativi di privatizzazione e commercializzazione del mezzo.
Questo processo di decadimento, credo, sta già avvenendo, proprio sotto i nostri occhi.
I modelli di business che hanno stravolto la promessa originaria della rete - privatizzata, commercializzata, piattaformizzata, gentrificata, deumanizzata - sono i veri “regolatori” della Internet odierna.
I processi di mercificazione dei dati lasciano oggi poco spazio all’azione delle persone: ci incasellano in processi di monetizzazione algoritmica dei contenuti che produciamo, degli interessi che esprimiamo - più o meno consapevolmente - sulle piattaforme, mentre un gruppo ristretto di veri e propri monoliti governa la rete sfuggendo sistematicamente alle logiche “normali” del mercato: parlo, ovviamente, di Meta, Alphabet, Alibaba, Apple, Bytedance, Amazon e dei loro simili.
Oggi, se qualcuno ci dicesse che noi “umani” possiamo migliorare il funzionamento di Internet, difficilmente ci crederemmo.
La scrittrice e attivista americana Alice Walker disse che «il motivo principale che spinge le persone a rinunciare al proprio potere è pensare di non averne alcuno»: e in effetti la pervasività della rete e delle sue applicazioni ci permea, oggi, di una sensazione annichilente di impotenza.
Eppure la rete, in un certo senso, “siamo noi”; siamo noi a popolarla con i nostri contenuti, le nostre azioni, i nostri soldi, i nostri click, le nostre relazioni. Quindi qualcosa dovremmo pur contare, no? In quanto consumatori abbiamo dei doveri (etici e morali), certo, ma dovremmo avere anche dei diritti.
Acquisire questa consapevolezza è fondamentale: un po’ come sta avvenendo su altri grandi fronti delle sfide della contemporaneità - come la gestione della cosa pubblica, il cambiamento climatico, le resurgenze belliche o l’allevamento intensivo della carne - abbiamo bisogno di sviluppare un maggiore senso di responsabilità individuale nei problemi collettivi di Internet.
E sebbene non sia facile, il momento sembra propizio. Non solo la fiducia nelle cosiddette «big tech» è ai minimi storici, una spirale innescata dopo lo scandalo che coinvolse Facebook e Cambridge Analytica.
Dopo anni di apatia qualcosa si sta muovendo: l’Unione Europea ha introdotto due leggi ambiziose - il Digital Markets Act nel 2022 e il Digital Services Act nel 2023 - che mirano a limitare i poteri dei cosiddetti gatekeepers, le grandi corporation tecnologiche che negli ultimi 15 anni hanno fagocitato Internet, limitando la concorrenza e monopolizzando i nostri dati, mettendo il profitto, e non le persone, al primo posto.
Alcune di queste misure hanno già dato i primi frutti, costringendo diverse aziende a modificare i propri servizi per evitare di privilegiare i propri servizi su quelli della concorrenza (come successo a Apple, Google e Amazon); a offrire alternative meno invasive al tracciamento pubblicitario; a rendere trasparenti e ispezionabili i funzionamenti dei propri algoritmi; ad accettare l’interoperabilità tra sistemi proprietari (il motivo per cui, a breve, potremmo ricevere su Whatsapp messaggi provenienti anche da servizi terzi come Telegram e Messenger); a tutelare i minori per prevenire l’esposizione a contenuti violenti e lesivi ed evitare che sviluppino dipendenza dalle app.
Non è una battaglia facile, tutt’altro. Le big tech hanno già intentato una serie di cause contro la Commissione europea per cercare di mettere in discussione le regole e proteggere i loro profitti: in caso di violazioni, infatti, rischiano multe che possono arrivare al 10% o al 20% del loro fatturato annuo. Miliardi di euro.
Inoltre, queste nuove norme per ora sono valide solamente in Europa, e l’effetto potrebbe dunque essere limitato ai cittadini del vecchio continente. Trovare un consensus globale sulla governance della rete, oltre che paradossale per una tecnologia che nasce decentralizzata, soffre il contrasto generato dagli interessi commerciali dei singoli stati, Cina e Stati Uniti in testa.
Eppure il cosiddetto «effetto Bruxelles», negli ultimi anni, ha avuto impatti anche altrove – basti pensare al GDPR, la legge europea che dal 2018 ha stabilito regole ferree sul trattamento dei dati, e che ha avuto ripercussioni anche al di fuori dei confini europei, tracciando una strada seguita poi da paesi, dall’Australia alla Cina, dal Brasile alla California.
Senza paradisi
Il tecnosoluzionismo - l’idea di applicare soluzioni tecnologiche a problemi creati dalla tecnologia - ha già dimostrato di avere fallito.
Oggi abbiamo bisogno di tracciare una rotta di miglioramento graduale, che non cerchi di creare in rete il “paradiso all’improvviso” schiacciando un bottone o sollevando una leva, ma una società digitale più equa di quella attuale attraverso un processo di azioni congiunte, regolamentazioni e innovazioni tecnologiche.
Per arrivarci dovremo, innanzitutto, affermare che la nostra presunta dipendenza da internet è, in realtà, un’interdipendenza: noi dipendiamo da internet, certo, ma anche internet dipende da noi. Senza le persone che le abitano, infatti, le piattaforme e i loro modelli di business crollerebbero.
Se le piattaforme ci vogliono “massa”, dunque, noi dobbiamo diventare “collettivo”: questo significherà anche incanalare i nostri contenuti, le nostre emozioni, le nostre energie e il nostro screen time in una direzione diversa e migliore.
La soluzione non è quella di disconnettersi tutti insieme, cancellando improvvisamente i nostri profili social o tornando a comprare i prodotti esclusivamente nelle botteghe di quartiere - sarebbe illusorio e anacronistico - ma sviluppare una coscienza etica digitale sufficiente a trasformarci da attori passivi a partecipanti attivi.
In quanto «cittadini» di Internet abbiamo il diritto e il dovere, se non di determinare, quantomeno di spingere per la creazione di un modello di business diverso: uno che si allinei maggiormente ai bisogni delle persone, e non punti soltanto a generare la maggior quantità possibile di profitti per pochi colossi della tecnologia.
Come ha scritto Ben Tarnoff nel suo libro Internet for the People, la tecnologia dovrebbe «smettere di essere qualcosa che viene fatto alle persone, e diventare qualcosa che le persone fanno insieme».
Tutto conta, anche il nostro voto alle prossime elezioni europee, un primo passo per sostenere una visione di Internet oppure un’altra.
Per evitare che la tecnologia che utilizziamo di più si trasformi, anzitempo, in un tecnofossile, ennesimo relitto sommerso di un processo di innovazione sociale divenuto, a un certo punto, non più sostenibile.
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