Appunti - di Stefano Feltri

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Oltre Telemeloni

Oltre Telemeloni

Si discute dell’influenza della destra sulla Rai, ma l’egemonia culturale si costruisce anche altrove come dimostra l’evoluzione del pubblico della Zanzara di Cruciani e Parenzo. Una analisi dei dati

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Maurizio Mascitti
lug 06, 2025
∙ A pagamento
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Appunti - di Stefano Feltri
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Oltre Telemeloni
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Nel 2022 Fratelli d’Italia aveva ricevuto voti trasversalmente da tutte le fasce di età. Il partito di Giorgia Meloni aveva dominato soprattutto nella fascia 45-64, ma c’era un solo gruppo in cui non era riuscito a primeggiare: quello dei giovani di età compresa tra i 18 e i 24 anni. La stessa fascia di età che negli ultimi anni sembra interessarsi di più ai contenuti della trasmissione La Zanzara di Cruciani e Parenzo

Maurizio Mascitti

Poco più di un anno fa scoppiava la polemica sul caso di Antonio Scurati e il monologo cancellato dai vertici della Rai. Ne seguì un dibattito, un po’ di nicchia, che ruotava attorno a un’espressione fortunata: quella di “TeleMeloni”. Questa formula, che già circolava dal 2023, ha anche una voce di Treccani dedicata:

Telemeloni (Tele-Meloni, TeleMeloni) s. f. (iron.) Nella polemica politica, la televisione pubblica della Rai trasformata in un servizio privato che fa gli interessi di Giorgia Meloni e del suo governo.

Di TeleMeloni si discute a fasi alterne, di solito in concomitanza con le contestazioni dei giornalisti Rai. Ora se ne risente parlare per il provvedimento disciplinare ai danni del conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, colpevole, secondo i vertici Rai, di aver partecipato a programmi televisivi di altre emittenti senza autorizzazione.

L’occasione consente a Sandro Ruotolo, eurodeputato del PD, di tuonare contro la lottizzazione meloniana: “È l’ennesimo segnale di una deriva preoccupante. TeleMeloni vuole mettere a tacere i giornalisti scomodi mentre smantella i programmi di approfondimento”.

Non più di un mese fa era intervenuta anche Concita De Gregorio, firma autorevole di Repubblica, per dire che sì, esiste un progetto di egemonia culturale che la destra porta avanti con l’assalto alla televisione pubblica e l’esclusione sistematica di giornalisti, comici, artisti e intellettuali dai canali Rai. De Gregorio coglie forse un aspetto centrale della questione TeleMeloni, che spesso si perde in mezzo agli strali dell’opposizione; quello dell’egemonia:

L’egemonia culturale si realizza convincendo, non per censura e per decreto. È l’adesione delle moltitudini a una proposta che convince e genera consenso. La Rai, per esempio. Ha la destra un progetto di informazione e spettacolo in grado di generare egemonia? Al momento non sembra, anzi: la nuova programmazione è un’ecatombe. I numeri non sono amici del governo, diciamo.

La domanda che pone De Gregorio – se la destra ha un progetto di informazione e spettacolo per la Rai – è giusta, così come è giusta la risposta: verosimilmente no, perché i programmi della Rai meloniana non hanno molto successo.

E tuttavia c’è un grande rimosso: esattamente quando avremmo stabilito che la destra, questa destra, sta puntando solo sulla Rai per creare egemonia culturale? Perché non si prendono in considerazione altre fonti di informazione e soprattutto di spettacolo?

La destra e la tv

È vero: sembra che gli elettori di centrodestra siano ancora molto fedeli alla televisione come mezzo di informazione. Secondo le analisi dell’associazione Itanes sulle elezioni politiche del 2022, la maggiore preferenza per la televisione degli elettori del centrodestra (FdI, FI e Lega) è un fatto acclarato.

Il grafico di Itanes che vedete qui sopra indica la percentuale di elettori di tre aree politiche differenti (centrodestra, centrosinistra e Movimento 5 stelle) che dichiarano di utilizzare la televisione come mezzo principale per informarsi di politica.

Nell’ultima grande tornata elettorale, quella del 2022, circa il 55 per cento degli elettori della coalizione di centrodestra ha scelto la televisione come canale di informazione privilegiato, mentre ‘solo’ il 35 per cento degli elettori di centrosinistra e M5s ha fatto lo stesso.

Il dato del centrodestra è interessante perché in controtendenza con quello che si registra dalle elezioni politiche del 2013 in avanti.

Infatti, anche se l’Italia è un paese ancora molto ‘attaccato’ alla televisione, soprattutto per ragioni anagrafiche, negli ultimi dieci anni c’è stato un lento e inesorabile declino a favore di altri mezzi informativi; principalmente internet e social media.

Il digital news report di Reuters del 2024 stimava che la percentuale di consumo della TV come mezzo di informazione – per tutto il pubblico, sia di destra che di sinistra – è scesa dall’85 per cento del 2017 al 65 per cento dello scorso anno.

Quindi si può dire che in generale la TV è usata sempre meno per informarsi, ma quando si filtra il pubblico per schieramenti politici si scopre che gli elettori di centrodestra consumano più televisione della loro controparte.

Se a questo si somma che, nei dati di Reuters sui consumi settimanali, i telegiornali della Rai sono sempre al primo o al secondo posto per preferenze, l’idea che Giorgia Meloni debba occupare la televisione pubblica per generare consenso, o anche solo per consolidarlo, sembra convincente.

Ma le cose non sono così semplici, e ci sono altri fattori da tenere in considerazione. Per quanto concerne lo spettacolo, vale ancora l’osservazione di De Gregorio: oggettivamente i programmi della Rai meloniana sono un fallimento sistematico di share. E lato informazione le cose non vanno troppo meglio: anche i principali telegiornali della televisione pubblica hanno visto diminuire i loro ascolti.

C’è inoltre una questione di credibilità.

In Italia la gente si fida poco dei media. Negli ultimi anni il livello generale di fiducia verso tutti i mezzi di informazione viaggia attorno al 35 per cento; cioè in una scala da 0 a 10 gli italiani si fidano in media 3.5, sempre secondo i sondaggi di Reuters (a quanto pare non siamo i peggiori, visto che in Grecia e Ungheria la percentuale è poco sopra il 20).

Se poi ci si sofferma sui punteggi delle singole emittenti, si scopre che la fiducia verso i notiziari della Rai si è erosa nel tempo. Quando Reuters ha cominciato a misurarla, nel 2018, il livello di fiducia verso i telegiornali della Rai si attestava tra il 65 e il 70 per cento. Ora siamo al 58 per cento: quasi dieci punti persi in sette anni.

Significa che sì, la gente consuma ancora molta televisione per informarsi, specie se di destra, ma spesso lo fa con uno sguardo disincantato, se non di sospetto. Tutto questo fa pensare che la destra di governo in Italia potrebbe essere costretta a diversificare i propri canali di influenza. Non sarebbe nemmeno il primo caso, d’altronde.

Modello Trump

Negli ultimi mesi, molti analisti hanno attribuito una parte del successo di Donald Trump alle presidenziali del 2024 alla sua strategia mediatica innovativa, centrata sui podcast. Mentre le campagne tradizionali puntavano su comizi, interviste televisive e spot mirati sui social, il team di Trump ha scommesso su un ecosistema in piena espansione ma ancora relativamente poco presidiato dalla politica tradizionale: quello delle video-interviste lunghe, senza troppi filtri editoriali.

Da un lato, Trump ha trovato nei podcast un canale per aggirare le restrizioni e le diffidenze di molti media tradizionali. Dall’altro lato, il formato stesso del podcast – lungo, conversazionale, informale – gli ha offerto l’occasione di presentarsi in modo meno aggressivo, più familiare, capace di suscitare empatia o almeno curiosità anche tra gli elettori meno ideologizzati.

Le partecipazioni di Trump non si sono limitate a podcast politici o di commento conservatore. Al contrario, hanno incluso ospitate in talk di cultura popolare, sport, intrattenimento comico.

Questa scelta ha permesso di ibridare le audience: ha intercettato elettori che non avrebbero mai guardato un comizio tradizionale o seguito un dibattito presidenziale, ma che ascoltano volentieri ore di chiacchierata con i loro podcaster preferiti.

Se ci si pensa è un po’ la stessa strategia che politici come Roberto Vannacci o Marco Rizzo, entrambi di destra (anche se da fronti diversi), hanno intrapreso nell’ultimo anno e mezzo.

Il loro obiettivo è una forma di disintermediazione ancora più radicale di quella dei social media classici. Le lunghe interviste dei podcast permettono loro di spiegare le proprie idee (o rispondere alle critiche) con toni più morbidi, raccontare aneddoti personali e ribadire la propria narrazione di outsider perseguitato dal sistema.

Questo stile, meno da comizio e più da conversazione amichevole, ha come effetto quello di edulcorare le tesi più estreme e di empatizzare di più con l’intervistato, con la conseguenza che politici come Vannacci e Rizzo appaiono improvvisamente meno ‘indigesti’ tra gli indecisi, o tra chi in passato li ha percepiti come irricevibili.

Il generale Vannacci è stato ospite di Pulp Podcast, il podcast di Fedez e Mr. Marra, e di un episodio di Gurulandia. Rizzo invece fa da tempo il giro delle sette chiese dei canali YouTube, come quello di Ivan Grieco (youtuber romano che ospita dibattiti tra politici e analisti); ma è anche ospite fisso del programma radiofonico di Cruciani e Parenzo: La Zanzara.

Il caso Zanzara

La Zanzara è forse l’esperimento culturale che più si presta all’esigenza di diversificazione della destra. Il programma radiofonico di Giuseppe Cruciani e David Parenzo è da qualche anno anche su Spotify come podcast, riscuotendo successi enormi.

Se a fine anno si guardano le classifiche di ascolto, La Zanzara si piazza sempre tra i primi tre podcast più seguiti su Spotify Italia (di recente ha anche vinto lo “Spotify Milestone Creator Award”, un premio che si ottiene superando i 50milioni di ascolti).

Per curiosità sono andato a spulciare i dati di ascolto disponibili per La Zanzara, i dati degli Editori Radiofonici Associati (cioè i dati TER). Si tratta degli ascolti che provengono dalla radio, e quindi non comprendono Spotify.

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Maurizio Mascitti
Sono dottorando in filosofia all’università Vita-Salute San Raffaele. Mi occupo di fake news e disinformazione. Coltivo la passione per la scrittura collaborando con testate e blog, tra cui Corriere della Sera e Valigia Blu
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