Ma cos’è un prete?
Da figura centrale ad alieno spaesato in società secolarizzate. Una testimonianza a partire dal dibattito aperto da Fabrizio Sinisi - Domani la diretta Substack
Ho pensato di organizzare una diretta Substack con Fabrizio Sinisi per giovedì 9 ottobre alle ore 17.30. Un’ora per parlare - con voi - del suo libro. Un’iniziativa che si inserisce in un mio tentativo più ampio di costruire discussioni intorno ai libri qui su Appunti
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Buon pomeriggio,
Questa estate il drammaturgo Fabrizio Sinisi ha anticipato i temi al centro del suo nuovo romanzo in un pezzo su Appunti che ha fatto molto discutere: La religione del mio tempo.
Adesso il romanzo è uscito, l’ho finito da poco e ho pensato che fosse un libro importante da discutere qui su Appunti. Si chiama Il prodigio, pubblicato da Mondadori.
All’improvviso, in una città senza nome che sembra molto Milano, appare nel cielo un Volto: è una nuvola? è Dio? è un’operazione politica? Qualunque sia la risposta, si mettono in moto una serie di eventi che rivelano molto del rapporto delle nostre società così secolarizzate con il sacro, con il mistero, con il potere.
Il racconto è dal punto di vista di don Luca, prete con molti dubbi, una fidanzata, una carriera da opinionista televisivo e parecchi problemi nel gestire la “concorrenza” del Volto nel cielo.
Ho pensato di organizzare una diretta Substack con Fabrizio Sinisi per giovedì 9 ottobre alle ore 17.30. Un’ora per parlare - con voi - del suo libro. Un’iniziativa che si inserisce in un mio tentativo più ampio di costruire discussioni intorno ai libri qui su Appunti, ma ne riparliamo (c’è anche un evento dal vivo, a breve, a Roma, di cui vi dirò).
Vi aspetto qui su Substack domani.
Intanto, vi condivido un articolo interessante che è arrivato dalla comunità di Appunti dopo il primo pezzo di Sinisi.
Andrea Cavallini è sacerdote da 15 anni nella diocesi di Roma e lavora all’Università Gregoriana, insegnando filosofia.
Questo suo pezzo è un’analisi e una testimonianza di grande profondità e franchezza.
Fateci sapere cosa ne pensate
Stefano Feltri
Ma quello è veramente un prete?
di Andrea Cavallini
Ma quello è veramente un prete? Ho appena finito di celebrare una messa per i dieci anni di matrimonio di una coppia di quarantenni. La piccola chiesa è piena di gente. La domanda arriva da un’amica della sposa.
Non è la prima volta che mi capita. Quest’estate la stessa domanda mi è stata rivolta in un altro contesto: ero al mare con una famiglia di amici e il figlio adolescente invita un suo amico a passare la giornata con noi.
Il quindicenne scopre che sono un prete e se ne esce con: ma tu sei veramente un prete? Qui però la genesi della domanda mi è chiara: un ragazzo che ha fatto il catechismo in parrocchia e ha visto il sacerdote sempre in quell’ambito, impegnato in “cose religiose”, nel vederlo al mare si sorprende come se vedesse un animale fuori del suo habitat naturale. Come trovare in spiaggia un orso polare.
Nel caso della messa di anniversario, però, non ero fuori contesto: ero in una chiesa, avevo addosso la casula (la veste liturgica), avevo appena concluso la celebrazione. Voi direte: quali assurdità ti sei inventato nella messa per suscitare la domanda? Nessuna, è stata una messa normale, con tutti i crismi e con tanto di solenne benedizione degli sposi inginocchiati.
Insomma, mi sono incuriosito e più tardi ho avuto modo di chiacchierare con la persona e scoprire che non è un’abituale frequentatrice di chiese. Il che in parte giustifica la domanda, perché non conosce personalmente preti e le capita raramente di incontrarne uno. Questa è una caratteristica del nostro tempo: per molti, i preti sono degli sconosciuti.
Le ho chiesto comunque il perché del suo commento: cosa intendevi chiedendo se sono davvero un prete? Risposta: mi è sembrato strano il tuo modo di parlare. Strano perché? – chiedo. Non so – risponde lei – sembravi normale.
Normale… sono indeciso se prenderlo come un complimento o come una critica.
La tensione tra normalità e diversità è uno dei punti su cui la figura del prete è in bilico.
Anormale e familiare
Fino a metà del Novecento il prete cattolico era programmaticamente anormale. Celibato, tonsura, abito talare, casa canonica, esenzioni giuridiche, piccoli privilegi, studi superiori alla maggior parte della popolazione, seminari pensati come ambienti separati dal mondo.
Ho trovato in un mercatino un libretto del 1918 che si chiama Il seminarista in vacanze. Lo scrive un sacerdote che fa il direttore spirituale di un seminario ed è pensato come vademecum per il seminarista che torna a casa per le vacanze, e là sarà esposto ad ogni genere di tentazioni, perché “il mondo” è pieno di pericoli per la fede e la morale del giovine: quindi, caro seminarista dei primi del Novecento, “evita alla vigilia della partenza dal seminario quell’eccesso di allegria, simile alla gioia dei carcerati che hanno saputo esser prossimo il giorno della liberazione, e piuttosto preparati ad entrare nel mondo con una certa diffidenza”.
Stupendo: il paragone tra la gioia dei seminaristi che vanno in vacanza e la gioia dei carcerati liberati è un capolavoro di autoironia, del tutto inconsapevole, da parte dell’autore.
Un secolo fa, dunque, il prete era progettato per l’anormalità sociale: ai preti era vietato andare in bicicletta, così come era vietato andare in osteria, a teatro, a caccia o giocare d’azzardo.
Anormale, il prete era però saldamente inserito nella scala sociale, in posizione alta, accanto al sindaco, al medico del paese, al farmacista, al notaio. Anormale, il prete era però una figura familiare, conosciuta direttamente da tutti.
E, soprattutto, in una società permeata di religiosità, il prete era l’uomo sacro, il depositario unico e il dispensatore della grazia divina mediante i riti cristiani: celebrava la messa, confessava, guidava l’adorazione eucaristica e le processioni, dava l’estrema unzione, insegnava la dottrina. Il suo ruolo era considerato essenziale. Proprio questa unicità del prete come mediatore della grazia giustificava e richiedeva la sua anormalità sociale, che era voluta e celebrata.
Cosa resta oggi di quel mondo e di quel prete, figura anormale ma familiare? Poco. Il processo che chiamiamo secolarizzazione ha creato una società che non è più strutturata dall’elemento religioso, come quella dell’Ancien Régime, e non ha più un posto chiaro per i preti.
Non siamo nemmeno nella situazione dei primi del Novecento, quando la società era nettamente divisa tra clericali e anticlericali, tra credenti apologetici e atei liberali.
L’ateismo militante è ormai residuale, evaporato insieme al cristianesimo sociologico a cui si opponeva. Anche il tempo di Peppone e don Camillo, con la contrapposizione tra casa del popolo e parrocchia, è passato. Insomma, tutto appare meno schematico e meno definito.
Allora, cos’è un prete oggi? Vorrei provare a guardare la cosa da due punti di vista, uno esterno e generico – chi è il prete per la gente – e uno interno – chi è il prete secondo i preti. In entrambi i casi la risposta non è unitaria.
Chi è il prete per gli italiani?
Per abbozzare una mappa degli atteggiamenti degli italiani rispetto ai preti, possiamo prendere i numeri del Rapporto Censis del 2024 riguardo alla pratica religiosa.
Partiamo dai cattolici praticanti. Secondo i dati Censis, sono circa il 15% degli italiani. La realtà però varia da zona a zona: la mia esperienza nelle parrocchie romane è che i praticanti reali oscillano tra il 5 e il 10%, a seconda dei quartieri.
Comunque sia, per questi il prete è un punto di riferimento indiscusso, che fa parte della loro vita. Lo vedono regolarmente in chiesa e quasi tutti lo conoscono personalmente; alcuni collaborano con lui.
Non è “il prete”, ma “don Andrea”. È quello con cui si confessano o fanno un colloquio spirituale, è quello a cui chiedono di essere aiutati nell’educazione religiosa dei lori figli, è quello che celebra la messa e che fa la predica (predica che viene valutata con la competenza di chi ne ha ascoltate tante: questo parla troppo, questo è bravo, questo è noioso, ecc.), è quello con cui parlano di come dovrebbe andare la chiesa.
Per i cristiani più convinti, il prete non è più una figura anormale come poteva essere cento anni fa, ma non è nemmeno un cristiano come gli altri.
Del prete come unico mediatore della grazia resta qualche retaggio: al prete molti chiedono la benedizione o di pregare per loro – e fin qui nulla di particolare – aggiungendo a volte affermazioni come “perché Dio ascolta di più la tua preghiera”, oppure “tu che sei più vicino a Dio”.
Ma, a parte questo, per i cattolici praticanti la relativa anormalità del prete sta nella sua scelta di consacrazione, nel suo “avere la vocazione”, nel suo essere esperto di vita di fede, nel suo ruolo centrale nella comunità cristiana.
Essendo una figura essenziale per la loro fede personale, i cattolici praticanti hanno spesso sentimenti forti nei confronti del “loro prete”: affetto, fiducia, stima, ma anche delusione, rabbia, sconforto… insomma, tutta la gamma di cose che si possono provare verso una persona che si ritiene centrale per sé e per la comunità, e da cui ci si aspetta molto. A questo possiamo aggiungere che in alcune zone d’Italia i preti scarseggiano, e c’è una generale preoccupazione per il fatto di vederne sempre di meno.
La chiesa italiana, però, non è solo questo 10 o 15 per cento di fedelissimi. Una seconda area, più vasta, è costituita dai praticanti occasionali: sempre secondo il rapporto del 2024, sono circa il 35 per cento della popolazione.
Hanno meno familiarità con i preti, perché si affacciano in chiesa ogni tanto, senza regolarità, spesso nelle feste e nei momenti forti dell’anno cristiano, come la Settimana Santa o il Natale, oppure per portare il figlio al catechismo.
Per loro, il prete è “il parroco”, una figura che ha un’identità chiara. È quello che dice la messa a Natale, ti battezza il bambino e ti celebra il funerale del nonno.
A lui si ricorre per i riti di passaggio della famiglia (battesimi, prime comunioni, matrimoni, funerali), per i certificati, ma anche per sfogarsi in momenti difficili, per ricevere una parola di fede, una sorta di richiamo e incoraggiamento.
A lui si ricorre anche per una serie di questioni non religiose che spaziano dall’uso dei locali della parrocchia (mio figlio fa 10 anni, possiamo fare la festa in parrocchia?) fino al comitato di quartiere per rifare la piazza.
Il parroco è considerato un gestore del volontariato e della carità: si dà per scontato che raccolga vestiti usati e che organizzi attività benefiche.
Nei piccoli centri il parroco è anche quello che organizza la festa del paese, con la relativa processione del patrono, che resta un momento identitario importante anche per chi non è credente.
Dunque, chi è il prete per i praticanti occasionali? È una figura un po’ alla “Don Matteo”: una figura necessaria nel panorama sociale, immagine di sicurezza, da cui ci si aspetta sì una parola di fede, ma soprattutto aiuto pratico, presenza istituzionale, esortazione morale, rassicurazione, vicinanza, buon senso.
Lo sconosciuto
Insieme, praticanti regolari e occasionali sono circa il 50 per cento degli italiani. L’altro 50 per cento è costituito da coloro che si autodefiniscono “credenti non praticanti” – un 20 per cento della popolazione, che si affaccia in chiesa solo per matrimoni e funerali – e da quelli che non sono cattolici – circa il 30 per cento della popolazione.
Questa metà degli italiani è quindi un mondo complesso, che comprende persone che si richiamano alla tradizione cristiana ma solo in chiave identitaria, credenti di altre confessioni cristiane e di altre religioni, atei e agnostici, persone di varia spiritualità, ecc.
Ovviamente, in questa ampia fascia di popolazione si trovano gli atteggiamenti più vari verso la categoria “preti cattolici”, che spaziano dalla critica feroce, alla stima generica, all’alleanza politica, alla curiosità, al disinteresse totale.
Si trovano anche persone, come quella che ho citato all’inizio, che si stupiscono della normalità di un prete. Ma, più che normale o anormale, per questa metà degli italiani il prete è soprattutto uno sconosciuto.
Questa è una novità. I non cristiani di cento anni fa sapevano benissimo chi fosse il prete: era il nemico del progresso e dello Stato liberale. I non cristiani di oggi, per la maggior parte, non hanno le idee così chiare.
Prendendo a criterio la conoscenza reale dei preti, abbiamo dunque una minoranza di persone per cui il prete è “don Andrea”, quello che conoscono da vicino, che seguono, aiutano, apprezzano o criticano. Poi abbiamo circa un terzo degli italiani per i quali il prete è “il parroco”, che conoscono da lontano, a cui ricorrono e da cui si aspettano una serie di servizi religiosi e sociali. Infine, metà della popolazione per cui la figura è un anonimo “i preti”, oppure direttamente “il Vaticano”.
È normale che avvenga: quanto meno si frequenta la chiesa, tanto più la percezione del prete tende a stereotiparsi e a generalizzarsi.
Ci sono però due aspetti su cui anche chi non conosce nessun prete ha idee chiarissime: la questione economica (la chiesa non paga l’IMU! L’8x1000 è un furto!), realmente problematica ma anche ampiamente fraintesa, e la questione sessuale (i preti sono abusatori e pedofili! I preti dovrebbero sposarsi!), certamente una ferita aperta nel mondo cattolico.
Chi è il prete per i preti?
Il secondo aspetto della questione è chi è il prete secondo i preti. Essendo io un prete, potrei scrivere direttamente chi è il prete secondo me. Ma vorrei cercare di allargare lo sguardo. Quindi ho scelto di consultarmi con altri.
Ho detto a un amico teologo che volevo scrivere su questo e ha replicato a bruciapelo: che coraggio… è un mistero più incomprensibile della santissima Trinità! In cerca di una risposta meno sibillina, ho posto la questione a un paio di parroci e mi hanno detto, tra il serio e il faceto: ah, boh, e chi lo sa cos’è un prete?!
Molti preti non hanno le idee chiare su cosa sia un prete. Non però per ignoranza, come quella metà degli italiani che ignora il mondo clericale, ma per un fenomeno più strutturale che dagli anni Settanta in poi è chiamato “crisi di identità del prete”. I preti italiani si autopercepiscono come una categoria in crisi, funzionari di una istituzione in crisi.
Provo a fare un elenco parziale dei fenomeni che contribuiscono a dare questa percezione.
Gli aspetti della crisi
C’è una crisi numerica: tra i preti l’età media sale, le vocazioni scendono e gli abbandoni, cioè le richieste di dispensa dal ministero, non diminuiscono.
C’è una crisi religiosa: le vecchie forme di chiesa del tempo della cristianità sono finite o molto ridotte, e lo spazio tra la proposta parrocchiale e la mentalità comune si allarga.
La pratica religiosa diminuisce costantemente (in un passato recente si teorizzava una “eccezione italiana” rispetto alla secolarizzazione europea, ma oggi questo discorso convince poco).
D’altra parte, le nuove forme di chiesa nate attorno al Concilio, come i movimenti, sembrano aver perso il loro slancio e la forte partecipazione laicale che ha caratterizzato le parrocchie nei decenni del post-concilio si è esaurita. Infine, la ricerca attuale di spiritualità, pur diffusa negli italiani, non trova nelle forme classiche del cattolicesimo una risposta.
C’è una crisi di ruolo sociale: quel 50 per cento di italiani non praticanti e non cattolici ritiene in genere che la chiesa sia una istituzione fuori dal mondo, e anche tra i praticanti moltissimi pensano che le posizioni ufficiali su alcuni temi siano del tutto insensate.
In molti contesti, se un prete ha peso sociale non è perché è un prete, ma perché è una persona in gamba. Per un ragazzo diventare prete non è una scelta socialmente approvata, ma spesso una decisione da giustificare agli occhi degli altri.
C’è una crisi psicologica: varie ricerche hanno messo in luce percentuali non piccole di disagio psicologico e fenomeni di burnout tra i preti. Non è difficile capire perché: c’è una difficoltà di vivere che i preti condividono con tutti gli uomini e le donne della nostra società (per esempio la solitudine o l’ansia).
Ci sono problemi di frustrazione personale legati a situazioni contingenti, oppure alla situazione generale che stiamo descrivendo. E c’è un problema specifico per chi ha la responsabilità di una parrocchia.
Alcuni anni fa, un prete tedesco ha scritto un libro che ha venduto moltissime copie. Si intitola Così non posso più fare il parroco e racconta che essere prete è bello, ma essere parroco è insostenibile, perché è un grande sforzo inutile.
L’inutilità dipende dalla secolarizzazione: facciamo cose che non interessano più alla maggioranza delle persone. Il grande sforzo dipende dalla struttura della parrocchia: al parroco spetta non solo la cura pastorale delle persone, ma anche la ricerca degli operatori (catechisti, caritas, ecc.), la manutenzione delle strutture, la gestione della carità, la contabilità, la responsabilità legale per tutto ciò che succede.
Questa struttura parroco-centrica, che ereditiamo dal passato, dà ai parroci italiani grande libertà e autorità, ma li grava di un peso difficile da portare. Il modello “un uomo solo al comando” si scontra con una realtà la cui complessità è cresciuta a tutti i livelli e oggi sembra difficilmente sostenibile, mentre una gestione partecipata e sinodale della parrocchia è ancora lontana.
C’è una crisi strutturale-istituzionale: la crisi numerica è sotto gli occhi di tutti, ma la capillare rete delle parrocchie, con la sua forza e le sue pesantezze, non è stata davvero ripensata. Man mano che i preti diminuiscono, le caselle restano vuote.
Allora si uniscono le parrocchie e si cercano soluzioni diverse per garantire un minimo di funzionalità. Ma il tutto dà l’impressione della lenta ritirata di un esercito i cui comandanti sono riluttanti ad abbandonare le posizioni conquistate.
Tra i problemi strutturali c’è il tragico tema degli abusi sessuali e psicologici perpetrati nei decenni scorsi da alcuni preti ai danni di minorenni e maggiorenni, abusi mal gestiti o addirittura coperti dai vescovi e dagli altri preti: un tema che in Italia non è mai esploso con la virulenza che ha avuto altrove, ma che sembra ribollire sotto lo scorrere ordinario della vita della chiesa.
C’è una crisi educativa. Il sistema formativo del clero non sembra aver realmente assunto la fine della cristianità: secondo alcuni, i seminari stanno formando preti per un mondo che non esiste più. Secondo altri, anche la struttura dei seminari è da rivedere, perché non più adeguata al tipo di ragazzi che oggi vi entrano.
Qualche tempo fa un seminarista mi confidava che l’entrata in seminario, avendo lui qualche anno di lavoro alle spalle, gli aveva dato l’impressione di tornare indietro a quando era ragazzino, in una sorta di infantilizzazione dovuta alla perdita di indipendenza.
Quale modello di prete
E, a proposito di entrata in seminario, c’è la questione dei modelli. Quando ho varcato la soglia del seminario, avevo in mente la figura del prete che mi aveva conquistato pochi anni prima, un prete romano famoso per le sue catechesi, a cui partecipavano (e partecipano tuttora) migliaia di persone: era un mix di annuncio esplicito e radicale di Cristo come chiave della vita, lettura esistenziale e psicologica della Bibbia, e grande carisma personale. Un prete centrato sull’annuncio del Vangelo e sulla catechesi.
Col tempo ho imparato a relativizzare quel modello, ma è indubbio che negli anni di formazione avevo in mente di diventare, a parte l’elemento del carisma personale, quel tipo di prete.
Credo sia inevitabile: chi intraprende la strada per diventare prete ha in mente un modello, che nasce dalle persone che ha conosciuto e dall’ambiente ecclesiale che ha frequentato. Il seminario poi, in quanto struttura formativa, propone anch’esso un modello.
Il problema è che oggi, di fatto, abbiamo una pluralità di modelli. Oltre al prete evangelizzatore, c’è il prete impegnato nel sociale.
Nel secolo scorso ci sono state diverse figure caratterizzate da un forte impegno etico e politico, dalla denuncia della violenza, dall’opposizione a dinamiche malate, dalla vicinanza agli ultimi, siano questi i più poveri, le vittime della guerra, i disabili, o i discriminati. Non sempre questi preti vengono coronati con la canonizzazione ufficiale, ma è indubbio che sono considerati da molti dei profeti del loro tempo (citiamo almeno don Giovanni Minzoni, don Primo Mazzolari, don Carlo Gnocchi, don Lorenzo Milani, don Oreste Benzi, don Tonino Bello, don Pino Puglisi).
Novecenteschi sono anche i modelli di prete nati dai movimenti ecclesiali, che si affermano soprattutto dopo il Concilio Vaticano II.
Parlando molto in generale, nei movimenti l’enfasi è posta sulla comunità carismatica, con la sua spiritualità che accentua questo o quell’aspetto del cristianesimo. Il prete, quindi, è anzitutto un membro della comunità, di cui condivide e diffonde l’ideale, e al cui servizio si pone con la sua particolare consacrazione. È sì un evangelizzatore, ma insieme con i laici, ed è il garante dell’unione del movimento con la gerarchia.
Anche il classico modello dei primi del Novecento è più vivo che mai: l’immagine sacrale del sacerdote (come san Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars), abbandonata dal Concilio, è ora guardata con interesse da chi pensa che lasciare certe forme sia stato un errore, un cedere a spinte esterne alla chiesa, che non ha portato a nulla se non a una grande confusione. Meglio quindi tornare indietro, alla veste talare e alla tradizione. È un fenomeno in crescita soprattutto nel clero giovane.
Potremmo citare poi il prete diocesano missionario (con la formula “fidei donum”) e altri modelli.
Gli studiosi ne elencano quattro o cinque o sei, a seconda degli schemi. E andrebbero aggiunte altre tipologie più specifiche: i preti impegnati nel mondo della cultura, come don Giuseppe De Luca, e della scienza, come don Georges Lemaître; o i preti di curia, come don Domenico Tardini (poi cardinale) e don Giovanni Battista Montini (poi papa Paolo VI). E così via. Ma il punto che ci interessa è precisamente che non abbiamo un unico modello di prete e che questa molteplicità è una caratteristica della nostra epoca.
I preti in questa crisi
Come vivono i preti gli aspetti di crisi e la molteplicità dei modelli? Tra le mie limitate conoscenze pretesche, c’è chi apprezza le possibilità di questa situazione e chi la considera una sciagura, addossandone le colpe a questa o a quella scelta fatta dalla chiesa. Ma tutti concordano sull’esistenza di un problema profondo.
I preti italiani si autopercepiscono come una categoria in crisi. Ovviamente, questo non vuol dire affatto che i preti vivano tutti una crisi personale né una crisi vocazionale. A me sembra che a livello personale i preti vivano più o meno le stesse dinamiche di soddisfazione e insoddisfazione che vivono tutti gli altri.
Ma dei vari aspetti della crisi si parla costantemente, si scrive sulle riviste, sui social, sui blog, si riflette a livello di Conferenza episcopale. E forse uno dei lati positivi della crisi è proprio che spinge a pensare e a sperimentare.
Personalmente, tra gli aspetti positivi di quest’epoca vedo una visione più umana, e perciò più cristiana, del prete e del suo ministero.
Torniamo così alla questione della normalità o anormalità: con il tramonto dell’ideale sacrale e con l’attuale molteplicità dei modelli, non si è sostituito il vecchio modello anormale con un nuovo modello opposto, ma è stata relativizzata la questione stessa del modello.
In molti ambienti si insiste sul fatto che il prete non può né deve avere un’identità standard già fatta e finita quando esce dal seminario, ma che c’è un serio e costante compito di crescita personale e relazionale.
La grande attenzione attuale alla storia personale di ciascuno si affianca all’idea che un vero sacerdote sia plasmato dall’incontro vero con gli uomini e le donne al cui servizio si pone. Così, diventano centrali le esperienze pastorali, le questioni dell’ascolto attento delle persone, della vicinanza alle loro sofferenze, dell’accompagnamento dei percorsi di vita.
L’immagine del pastore non viene usata solo in chiave di guida, ma anche di adesione piena a una realtà (pensiamo alla ricorrente espressione di Papa Francesco: il pastore con l’odore delle pecore). E questo si accompagna a una crescente attenzione all’umanità del prete: la dimensione emotiva e quella affettiva sono più presenti di prima, sia in fase di formazione iniziale che permanente; la fragilità e la vulnerabilità cominciano timidamente a essere considerate aspetti normali della personalità.
Insomma, la crisi di cui tutti parliamo, che fatichiamo a inquadrare e ad accettare, lascia a noi preti un terreno poco stabile, che a volte frana, e senza un sentiero tracciato. Ma è il terreno su cui dobbiamo imparare a camminare e, in parte, lo stiamo già facendo.
Ecco, forse a quella persona che mi ha detto che non le sembravo veramente un prete perché ero troppo normale avrei dovuto dire che era ferma a un’idea un po’ antica, che i preti di oggi sono un mondo strano e complesso, e non puoi sapere che tipo di prete ti trovi davanti.
O forse avrei dovuto dirle solo di avere un po’ di pazienza con noi, che siamo una categoria in crisi di identità e stiamo ancora cercando di capire chi siamo.
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D'accordo con il "reverendo" (questo vecchio termine va ricordato per quello che dirò dopo), riconosco la generalità del malessere, cioè della mancanza di risposte alle domande, in cui siamo calati tutti. Evito di affrontare le cause dei malessere per affrontare il tema. Quando, per amore di perfezione o per fratellanza umana, una persona decide di uscire dalla folla per dedicare l'intera vita a un senso pieno di speranza, uscendo dalla lotta fratricida in corso tra i suoi simili, cambia aspetto, atteggiamento, motivazioni rispetto agli altri. Ma reta uomo come gli altri. Anche le sue prediche non possono evitare la visione che ha della società, verticale o orizzontale. Gli integralisti, ad esempio, ritengono che l'aver incontrato Cristo, Maometto ecc. lo abbia 'cambiato'. E così il prete è un reverendo. Chi invece porta con sè la sua umanità piena di dubbi e di ricerca delle risposte, per avere le quali sa di aver bisogno degli altri, può essere visto come 'normale'.
Bella riflessione. Mi colloco nella categoria di italiano di "varia spiritualità", con atteggiamento di "stima generica" e "curiosità" verso i preti, e provengo da tradizione familiare cattolica di praticanti occasionali. Mi piace la considerazione che la crisi costringe a pensare in modi nuovi.
Vorrei vedere donne nel ruolo di prete, ma sono sicuro di non vederle entro la mia vita "terrena".