L’età dell’incertezza
Bipolarismo, globalizzazione e terrorismo: queste nozioni servivano a comprendere molto. Ma Queste certezze, per quanto fragili e superficiali, ora non sembrano esistere più
La nuova guerra dei dazi lanciata dall’amministrazione Trump, unita a quelli che appaiono come inquietanti arretramenti della democrazia e dello stato di diritto negli Stati Uniti, stanno smontando due dei pilastri su cui si era costruito il “secolo americano” e la sua rappresentazione
Fabio Amato, Raffaele Nocera e Paolo Wulzer
Milano, 15 maggio, ore 18, libreria Egea
Come può rispondere l’Ue alla doppia sfida di Russia e Stati Uniti? E con quali risorse? Con Daniel Gros (IEP@BU), Graziella Romeo (Bocconi), Eleonora Tafuro Ambrosetti (ISPI) e Stefano Feltri (IEP@BU). Iscrivetevi qui
di Fabio Amato, Raffaele Nocera e Paolo Wulzer
Da più di quindici anni, la storia ha ripreso a correre. Tra la crisi economica del 2008 e il ritorno di Trump alla Casa Bianca, la politica internazionale non è più organizzata lungo assi chiaramente definiti e identificabili, ma appare frammentata in una pluralità di partite geopolitiche e di fronti di crisi che alimentano il senso di un generale disordine globale.
I paradigmi universali, totalizzanti e in un certo senso anche rassicuranti delle dinamiche globali hanno lasciato spazio a una scomposizione degli assetti internazionali dagli esiti ora difficilmente prevedibili.
Il sistema bipolare della Guerra fredda, l’idea di Occidente universale tipica degli anni Novanta, la guerra al terrorismo islamico, caratteristica del primo decennio del nuovo secolo, non assorbivano certo all’interno del loro perimetro tutte le molteplici ramificazioni della politica e della società internazionale.
Non pochi processi storici si dispiegavano, a volte sottotraccia e altre volte sotto le luci della ribalta, in controtendenza rispetto ai parametri dominanti, oppure si dimostravano restii a farsi assorbire dalle narrazioni egemoniche.
Si pensi, ad esempio, agli sviluppi in campo economico, sociale, culturale e tecnologico tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, non inquadrabili in una nozione di bipolarismo statico che, pur continuando a mantenere il suo valore esplicativo in termini securitari e strategici, si mostrava inadeguato a cogliere la portata reale dei cambiamenti più profondi.
Oppure, alle molteplici resistenze, sospinte sia da attori statali che da forze sociali transnazionali, ai processi di occidentalizzazione, globalizzazione e democratizzazione andati in scena, nel decennio Novanta, nell’illusione unipolare degli Stati Uniti.
O, infine, al doppio binario di Russia e Cina negli anni della war on terror, durante i quali l’allineamento strategico a fianco degli Stati Uniti (“di fronte al terrorismo internazionale tutte le grandi potenze stanno dalla stessa parte”, recitava la National Security Strategy statunitense del 2006) si accompagnava alla costruzione o al rilancio degli indicatori di grandezza di Mosca e Pechino e al primo affacciarsi di una narrativa alternativa a quella di Washington in tema di governance globale.
Tuttavia, nozioni come bipolarismo, globalizzazione e terrorismo, per quanto inadatte a spiegare tutto, servivano a comprendere molto e fungevano quanto meno da ancoraggio interpretativo per capire in che mondo stessimo vivendo.
Queste certezze, per quanto fragili e superficiali, ora non sembrano esistere più. Siamo, a tutti gli effetti, all’interno di una nuova età dell’incertezza.
La grande scomposizione
Dal 2008 in poi abbiamo infatti assistito a una lunga e complessa fase di scomposizione degli assetti internazionali nati all’indomani della fine della Guerra fredda, fondati sull’idea di naturale e progressiva universalizzazione di modelli, istituzioni e pratiche uscite vincitrici dalla stagione del confronto bipolare.
Si trattava di un percorso che, pur avendo già subito periodiche scosse di assestamento, si riteneva tuttavia destinato a sfociare, in ultimo, in quell’enlargement degli spazi di democrazia, libertà e libero mercato preconizzato nel 1993 da Anthony Lake, consigliere della sicurezza nazionale dell’amministrazione Clinton, come la direzione obbligata della storia.
Già nella prima metà degli anni Dieci, emergevano una serie di fattori che annunciavano con chiarezza il cambiamento di grammatica e di griglie interpretative del sistema internazionale.
Al progressivo ripiegamento degli Stati Uniti avviato dalla presidenza Obama e alle nuove declinazioni dell’egemonia nordamericana facevano da contraltare il ritrovato protagonismo della Federazione Russa nello spazio ex-sovietico e le sue ambizioni come potenza multiregionale e, soprattutto, l’ascesa della Cina, prima economica e poi condita da una sempre maggiore assertività politica e militare, dato indubbiamente nuovo nella storia della politica estera di Pechino.
Lo shock economico e finanziario tra il 2007 e il 2008 e il suo impatto sulla distribuzione del potere su scala globale scoperchiavano e accentuavano le storture e gli squilibri del processo di globalizzazione.
Il processo d’integrazione europea, tradizionale cardine dell’ordine liberale, per le sue implicazioni geopolitiche ma anche per il sistema dei valori che lo ha alimentato, entrava in una fase di preoccupante stallo e forse irrimediabile declino.
Contestualmente, il dinamismo e le rivendicazioni dei paesi del Global South, categoria controversa ma comunque esemplificativa dei nuovi equilibri internazionali, testimoniava la forza e il radicamento di istanze e visioni difficilmente compatibili con il sistema a guida statunitense.
Infine, la disarticolazione del tradizionale ordine mediterraneo e mediorientale, funzionale al mantenimento di quella macroregione all’interno del sistema di regole costruite da Washington ma fondato su una fragilità portata alla luce in maniera evidente dalle primavere arabe iniziate nel 2011, avviava nella regione una transizione verso un “post-American Middle East” dagli esiti incerti.
La fase 2
Tale traiettoria di frammentazione si sarebbe intensificata nella seconda parte del decennio per una serie di fattori.
In primo luogo, la prima amministrazione Trump segnava un divorzio quasi paradossale tra i principi cardine dell’ordine neoliberale e il Paese che più di tutti aveva contribuito a plasmarli.
Di conseguenza, la capacità statunitense di proiettare egemonia mostrava il fiato corto, anche in aree in cui la Casa Bianca si era dimostrata tradizionalmente abile a dettare l’agenda regionale, come il Medio Oriente e l’America Latina.
In secondo luogo, la competizione tra le grandi potenze, messa in sordina negli anni Novanta dal momento unipolare degli Stati Uniti e nel decennio successivo dalla sfida del terrorismo di matrice islamica, tornava a essere la categoria fondamentale della politica internazionale, arrivando addirittura a prefigurare, secondo alcune analisi forse un po’ frettolose, una “nuova Guerra fredda” tra Washington e Pechino.
In questo quadro, la Cina di Xi Jinping cominciava a farsi esplicitamente portatrice di un modello di governance internazionale alternativo a quello occidentale e a rivendicare lo spazio del Pacifico, tradizionalmente popolato di attori filo occidentali, come regione a trazione cinese.
In terzo luogo, l’arretramento di pratiche e valori democratici nel mondo che, sebbene circoscrivibile a una crisi nella democrazia più che a una crisi della democrazia, intaccava in maniera significativa uno dei pilastri dell’ordine liberale e della sua stessa narrazione, così come la proliferazione di (neo)populismi, sovranismi e di forme di contestazione radicali dei principi fondamentali del sistema liberale.
Infine, sul piano europeo, la Brexit cambiava (in positivo o in negativo, a seconda delle prospettive) la fisionomia dell’Unione Europea, che si manteneva però incapace di esprimere una compiuta actorness internazionale.
La doppia sfida
L’ordine liberale, già provato da un decennio di cambiamenti complessi (e in molti casi colpevolmente sottovalutati) si trovava ad affrontare, all’inizio degli anni Venti, le due sfide forse più drammatiche.
La prima, la pandemia da Covid-19, che rivelava, allo stesso tempo, sia la profondità e l’irreversibilità dei processi di globalizzazione, sia le carenze e i limiti degli strumenti e dei meccanismi di governance internazionale.
La seconda, il ritorno della guerra interstatale nel cuore dell’Europa, a seguito dell’aggressione russa contro l’Ucraina iniziata nel febbraio del 2022, che rappresentava forse l’ultimo tassello della “fine di un mondo” (per citare il titolo perfettamente centrato di un rapporto dell’ISPI di alcuni anni fa), senza che ancora si potessero intravedere i contorni di credibili equilibri futuri.
Inoltre, il percorso di scomposizione di tradizionali assetti appariva accelerato dalla permanenza, riproposizione o irruzione di vecchie e nuove issues che cambiavano le consuete categorie di riferimento della politica internazionale.
Oltre alla crisi del sistema democratico liberale (con il risorgente sovranismo e la crescita dell’ultradestra) e la grande incertezza dell’economia internazionale, si sono delineate nuove tematiche strategiche per la politica internazionale: la cybersecurity, l’intelligenza artificiale, la propaganda e la disinformazione.
Due temi dal profilo globale che esprimono meglio il cambiamento del mondo sono la crisi energetica e il cambiamento climatico (con le ripercussioni sulle politiche economiche nazionali e sovranazionali) e le migrazioni internazionali.
In particolare, il processo migratorio ha assunto una grande rilevanza nelle relazioni internazionali sia nel processo di governance globale che nelle logiche dei singoli Stati come asset elettorale per i risorgenti sovranismi (dalla Brexit al rinnovato successo di Trump), diventando vera e propria arma di distrazione di massa come esemplificato dalle tensioni di confine tra Polonia e Bielorussia e dall’uso che ne ha fatto Erdogan per giustificare gli attacchi della Turchia nella Siria settentrionale.
Un trend di polverizzazione del vecchio ordine che appariva senz’altro confermato dai risvolti sistemici del conflitto tra Russia e Ucraina e dalla crisi multifattoriale in corso in Medio Oriente dall’ottobre del 2023 e in ultimo dal ritorno di Trump alla Casa Bianca, a seguito della netta vittoria elettorale del 5 novembre del 2024, che riproponeva il vecchio interrogativo che aveva accompagnato il tycoon alla fine del suo primo mandato: Trump come causa o prodotto della crisi del sistema liberale?
Il post-post Guerra fredda
Il post-1989 è dunque finito da ormai un quindicennio, proiettandoci in un sistema “post – post Guerra fredda” dai contorni molto meno decifrabili.
Se la competizione tra le grandi potenze, categoria riesumata dal Novecento che sembrava averla definitivamente sepolta, rappresenta forse la cifra dominante del mondo di oggi, essa non appare tuttavia in grado di dettare da sola coordinate e allineamenti della politica internazionale.
La crescita e l’assertività di attori regionali (Israele, Turchia, Iran, Messico, Brasile, solo per citarne alcuni), la concorrenza tra raggruppamenti (ultimo dei quali i Brics soprattutto se consideriamo il recente allargamento), l’affermazione di nuovi epicentri geopolitici e la creazione di alleanze o blocchi a geometria variabile che si pongono in alternativa rispetto all’ordine a guida occidentale, rappresentano altrettante partite fondamentali di una competizione che si gioca ormai su diversi livelli.
Questo scorcio di 2025 ha acuito il senso di disorientamento rispetto alle dinamiche internazionali.
Arroccata su stessa, con la connivenza di Washington e il silenzio complice di molte cancellerie occidentali, Israele è andata ben oltre il proposito di sconfiggere definitivamente Hamas e ha accentuato scientemente il sistematico piano di pulizia etnica e di deportazione del popolo palestinese.
La nuova guerra dei dazi lanciata dall’amministrazione Trump, unita a quelli che appaiono come inquietanti arretramenti della democrazia e dello stato di diritto negli Stati Uniti, stanno smontando due dei pilastri su cui si era costruito il “secolo americano” e la sua rappresentazione.
La stessa scomparsa di Papa Francesco, uomo di pace e di giustizia in una stagione di guerre e ineguaglianze, ha rappresentato la perdita di una figura politica in controtendenza rispetto alle traiettorie del mondo di oggi.
Per discutere e confrontarsi su tutto questo, il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università di Napoli L’Orientale ha organizzato dal 14 al 16 maggio, nel cortile di uno dei suoi palazzi storici incastonati nel centro della città, un Festival di Politica Internazionale.
L’obiettivo non è di fornire risposte esaurienti, ma di stimolare curiosità e di proporre spunti di riflessione nelle generazioni più giovani, a cui l’iniziativa è innanzitutto rivolta.
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A parte il ripassino storico, che siamo in un’età di incertezza credo fosse abbastanza palese. Sarebbe stato più interessante capire dove stanno i nodi di incertezza maggiori e che ruolo potranno avere in futuro. Magari lo leggeremo in un prossimo articolo
Articolo discutibile e non all'altezza di Appunti. Un esperto di politica internazionale o di storia contemporanea non può dimenticare la guerra in Jugoslavia e l'incapacità dell'Europa di far fronte a quella crisi, così come alla guerra in Ucraina del 2014.
Infarcire l'articolo di parole come cybersecurity, I.A., propaganda e disinformazione è solo marketing, tanti altri sono i temi che coinvolgono la politica internazionale e questi sono solo quelli più recenti.
Ricordo che negli anni '70 esistevano i "paesi non allineati" e comprendevano Jugoslavia ed Egitto, ad esempio, non è che il Global south o i Brics siano una novità degli ultimi sei mesi, come Trump.