Le politiche dell’odio
Lo storico stratega di Trump Roger Stone sostiene che un leader forte non deve mostrare rabbia, ma ferocia, perché che l’odio è una motivazione forte che spinge all’azione.
Benché l’amore sia più forte dell’odio perché ha di mira il bene, l’odio tuttavia si sente di più dell’amore perché le passioni legate all’autoconservazione sono fondamentali, scrive Tommaso d’Aquino. Un’emozione che è una discordanza essenziale da qualcosa: è sempre divisivo
Paola Giacomoni
Secondo Roger Stone, stratega elettorale, mentore di Trump fin dagli anni Ottanta, un leader forte non deve mostrare rabbia, ma piuttosto esprimere ferocia, dato che l’odio è una motivazione più forte dell’amore e spinge con grande determinazione all’azione.
Nelle 140 regole, le “Stone rules” definite per un leader vincente, questa distinzione tra rabbia e odio è particolarmente rilevante per capire il comportamento del presidente americano che qualcuno considera un “negoziatore” nonostante l’aspetto dell’aggressore, qualcuno che provoca “sparandole grosse” per ottenere semplicemente un risultato maggiore in una trattativa.
Le cose sono più serie di così: che le regole di Stone lo abbiano influenzato profondamente è ben visibile negli attacchi all’Europa, “nata per fotterci”, che non sembra esattamente un viatico a un negoziato civile, o nei tagli alle università e alle recenti incarcerazioni di studenti per semplici reati di opinione. Se è l’odio a spingerlo all’azione occorre capire di che si tratta.
La natura dell’odio è sfuggente: è spesso confuso con la rabbia, ma è chiaro che si tratta di emozioni diverse.
La rabbia nasce come reazione a un’offesa o a una mancanza di rispetto e punta a modificare il comportamento dell’offensore e quindi a vedere riconosciute le proprie buone ragioni: nasce da una umiliazione che genera una reazione spesso violenta, sempre molto forte.
Tradisce un elemento di vulnerabilità, mostra che qualcuno ha potuto mettere in discussione il nostro valore: la rabbia è la risposta a una ferita, fin dall’ira funesta di Achille, che avvertì con dolore di essere stato attaccato nel suo onore da Agamennone.
La rabbia presuppone un’umiliazione, implica la possibilità di essere feriti, e a questo si intende reagire con forza per ripristinare il proprio valore, soprattutto se l’offesa è vissuta come immeritata.
Per questo, nel mondo in cui la reputazione gioca un ruolo essenziale, la rabbia non deve trasparire, perché si può pensare che se in passato è stato possibile umiliare qualcuno, ciò sarà possibile anche in futuro.
E allora qual è l’emozione di chi aggredisce? L’odio ha una pessima fama: è condannato come un’emozione solo negativa, che fa male a chi la prova e a chi la subisce. Ma è noto che motiva l’azione.
Benché l’amore sia più forte dell’odio perché ha di mira il bene, l’odio tuttavia si sente di più dell’amore perché le passioni legate all’autoconservazione sono fondamentali, scrive Tommaso d’Aquino.
Dunque un’emozione potente, che tuttavia è essenzialmente una “dissonanza”, una discordanza essenziale da qualcosa: è sempre divisivo.
Gli psicologi di oggi osservano che mentre l’energia della rabbia può essere persino utile in un conflitto perché punta, prima che alla vendetta, al mutamento di uno specifico comportamento dell’offensore, l’odio è disposizionale, vuole che l’avversario sia distrutto perché lo pensa come un male assoluto, immodificabile.
L’odio nasce “senza atti” secondo Aristotele, non è legato a un’offesa, non riguarda l’azione specifica di un individuo particolare, ma la natura, il carattere di qualcuno: ha come target tratti negativi permanenti dell’oggetto, non le sue azioni. Riguarda non ciò che si fa ma ciò che si è.
Per questo l’odiato nemico si può solo eliminare. Spesso si riferisce alle caratteristiche di un gruppo di persone, come il comune odio per i ladri, scrive Aristotele, oppure come l’odio razziale, si tratti degli ebrei nella Germania nazista o dei Tutsi in Uganda.
È dunque un’emozione di lungo termine, che non è superabile con una possibile riconciliazione come nel caso della rabbia. Il suo scopo è mettere a tacere l’altro, escluderlo dal consorzio civile, mettendo fine al suo diritto di esprimersi.
Lo scopo è ridefinire i confini del dicibile, squalificando ciò che non combacia con lo stile e i criteri tipici del diritto del più forte.
Sui social gli haters dilagano con l’intenzione molto evidente non solo di insultare, ma di togliere la parola all’interlocutore, di metterlo in silenzio, contraddicendo la logica del linguaggio in generale, che è quella comunicativa.
Il punto vero è che, nonostante questo, resta il fatto che l’odio motiva l’azione, è una potentissima molla ad agire che però non sembra presentare alcun tratto positivo. Incita a comportamenti che non prevedono mezze misure e tagliano con l’accetta le questioni anziché ricostruire un tessuto civile di convivenza.
Semplifica, e questo appare un vantaggio, ma lo fa a scapito della pluralità delle istanze e della ramificazione dei diritti tipici di ogni regime democratico.
Questo costringerà a definire la propria posizione anche chi ritiene ancora possibile una collaborazione con la nuova America di Trump.
Forse – lo speriamo – non si sta avvicinando un nuovo razzismo o un nuovo fascismo, ma le decisioni che implicano esclusioni, come quelle sui dazi o sugli immigrati o come quelle sulla “ripulitura” del linguaggio o sulle affermazioni sull’ “illegalità” delle critiche da parte delle università o dell’informazione vanno nella direzione in cui vanno le politiche dell’odio: l’altro è da mettere da parte o da mettere a tacere, da bandire o da emarginare, se non si può eliminare.
Certo, sono in corso trattative per la pace nei due contesti aperti da tempo, l’Ucraina e la Palestina. Non sappiamo come andranno, e certo le trattative si fanno col nemico. Ma i presupposti non sono positivi: le proposte per la Palestina sono grottesche, seguite anche da incredibili bombardamenti americani sullo Yemen, e quelle per l’Ucraina appaiono appesantite dalle gravose e ingiustificate richieste già in corso sulle risorse minerarie ucraine.
Difficile che ne nasca una pace che riporti un ordine internazionale accettabile.
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Grazie per l’articolo, può sembrare contraddittorio, ma è un bene spiegare il male, perché lo annulla. L’odio è sempre una sconfitta per entrambe le parti, odiato e odiatore, perché è il trionfo di chi, più debole, si crede più forte solo in virtù della perdita delle proprie facoltà migliori, un paradosso di antiumanità che può avere come unico fine se non la fine stessa, il proprio annichilimento, coincidendo l’assenza di ogni relazione con l’autodistruzione. Ecco perché nel quadro di questo tipo di narrazione la parola “pace” stona profondamente. Sarebbe più coerente affermare, da parte di chi odia, che piuttosto di volere la pace, vuole essere lasciato in pace, costi quel che costi, distruggendo, e mai costruendo, annientando dunque qualsiasi presupposto di comunione, dividendo sempre più le parti, allontanandole fino a dissolvere anche la minima possibilità di riconciliazione, trasformando la sopravvivenza in supremazia.
Molto interessante ma mi rimangono in sospeso alcuni punti. Ma cosa genera l odio ? Qui stiamo parlando di odio o di una teatralizzazione dell odio? Se l odio a differenza della rabbia non ha elementi generativi, di ridefinizione dei rapporti, ma solo distruttivi non è per sua natura un attitudine che tende ad autoeliminarsi distruggendo non solo il nemico ma l ambito stesso in cui agisce il rapporto di inimicizia ?