Le fondamenta del grattacielo di Big Tech
Il caso Telegram solleva domande sul rapporto tra trasparenza, sicurezza, codici segreti e altri open source. sul ruolo dei governi. Ma anche su quanta filosofia devono studiare i programmatori
Ogni giorno mi interrogo sulla correttezza delle mie misure, del mio codice, delle mie conclusioni: e trepido contemplando le conseguenze che un errore può provocare: qualche tonnellata di piastrelle da rimacinare, migliaia di metri cubi di gas bruciati invano, lo scudo termico di uno shuttle che si perfora, una bombola resa fragile dall’idrogeno…
Daniele Paganelli
Buon pomeriggio,
ora che Revolution - Il mondo cambia ogni giorno, il podcast-trasmissione di Radio3 in onda anche stasera alle 19.45 in diretta e da domattina sulle piattaforme, mi spinge a stare più sull’attualità di giornata rischio di rimanere indietro con i pezzi che sono il cuore di Appunti. Cioè le analisi ragionate su quello che ci succede intorno. Cose che potete trovare soltanto qua.
Come il lungo articolo del mio amico Daniele Paganelli che potete leggere qui sotto qui sotto: Daniele è una delle persone più intelligenti che conosca, un chimico, imprenditore, informatico, libero pensatore applicato al settore delle piastrelle e molto altro.
In questo pezzo Daniele prende spunto da due questioni che abbiamo toccato su Appunti - il destino di Telegram e le prospettive di chi si dedica a studi umanistici - che soltanto un cervello capace di pensieri non lineari e particolarmente originali avrebbe potuto connettere.
Vi lascio alla lettura del pezzo di Daniele, e vi invito - se non lo avete fatto - a cliccare “segui” su Spotify dove c’è il podcast di Revolution - Il mondo cambia ogni giorno. Se lo faceste tutti e 18mila voi che leggete questa newsletter, Revolution diventerebbe il podcast giornalistico più importante d’Italia!
Stefano
Leggi la serie di Laura Turini sul caso Telegram:
Le fondamenta del grattacielo Big Tech
di Daniele Paganelli
Prendo spunto dai recenti e utilissimi interventi sul caso Telegram e su Pavel Durov, a firma di Laura Turini, per aggiungere due riflessioni a latere. Troverà sorprendentemente spazio anche una considerazione a proposito del duello tra la filosofa Gloria Origgi e Guido Giuliano, che rimanda all’eterno dilemma delle lauree scientifiche e umanistiche.
Paura della crittografia, o dell’open source?
Nell'articolo "Il caso Durov: I capi di imputazione" si riporta che l’imputato, il fondatore di Telegram Pavel Durov, è accusato di "fornitura e importazione di un mezzo crittografico che non fornisca esclusivamente funzioni di autenticazione o controllo dell'integrità senza previa dichiarazione".
Tuttavia, come spiegato in “Perché Telegram è diverso“, anche WhatsApp prevede la crittografia, e molto più pervasivamente di Telegram, dal momento che è l’utente a doverla disattivare.
Dal punto di vista della giustizia, WhatsApp dovrebbe essere molto peggio di Telegram: se anche Mark Zuckerberg, amministratore delegato del gruppo Meta che controlla WhatsApp, volesse collaborare con la polizia, non potrebbe per design. Ci dobbiamo aspettare un prossimo arresto di Mark? Potrebbero aver arrestato Durov in Francia perché non ha fatto previa dichiarazione, ma il provvedimento parrebbe un po’ esagerato.
Telegram protegge i suoi utenti frammentando le informazioni tra molteplici giurisdizioni. Se un giudice francese volesse ricostruire le comunicazioni di un utente, dovrebbe fare una rogatoria internazionale in tutti paesi dove il dato è spezzettato: sostanzialmente impossibile. Ma nulla impedisce a Durov di ricostruire le informazioni a suo uso e consumo: arrestarlo era l’unico modo e ha funzionato, come ci spiega Turini nell’ultimo pezzo della serie “Cosa resta di Telegram“.
Le promesse di fornire indirizzi IP, numeri di telefono e contenuti dei messaggi alle autorità, nonché di moderare più aggressivamente, sono, a mio parere, contentini per ammansire i carcerieri.
Telegram ha già un sistema di registrazione completamente anonimo basato sulla sua criptovaluta TON e la piattaforma Fragment, che permette di utilizzare l’applicazione senza il numero di telefono - ciò che in ultimo consente alle autorità di identificare gli utenti.
Inoltre, gli utenti che hanno a cuore la loro privacy già utilizzano servizi VPN per mascherare il loro IP reale in tutte le attività Internet.
Dichiarare di fornire il numero di telefono spingerà ancora più utenti ad utilizzare la criptovaluta di Telegram per ottenere numeri anonimi, finanziandone l’ecosistema. La promessa di fornire i contenuti dei messaggi credo sia puramente tattica: mi aspetto che Telegram abiliti rapidamente la crittografia di default in tutte le comunicazioni.
TON rappresenta un pericolo enorme per la società del controllo, non tanto perché è l’ennesimo tentativo di creare una sotto-Internet rispettosa della privacy per design, ma soprattutto perché si innesta in una applicazione con quasi 1 miliardo di utenti e fornisce nativamente una valuta parallela globale.
L’analogo tentativo di Meta, la moneta globale Libra, fu soffocata sul nascere dalle agenzie regolatorie ameircane.
Libra sarebbe stata, come TON, l’equivalente di una banca centrale che stampa la propria moneta, per più di 3 miliardi di “cittadini” digitali. Un pericolo mortale per i delicati equilibri dollaro-centrici di Bretton Woods, già in via di deterioramento.
Di tutte le altisonanti promesse di Durov, l’unica con un qualche possibile impatto a lungo termine è solo quella di moderare più aggressivamente. Da come verrà implementata scopriremo se Durov è stato cooptato dal “sistema” e Telegram è destinato a diventare un po’ peggio di WhatsApp.
La sicurezza e la trasparenza
C'è un ulteriore dettaglio che può aiutarci a capire perché Telegram è così inviso ai governi: non solo dichiara di implementare il protocollo crittografico end-to-end, ma lo dimostra anche.
Il codice sorgente dell’applicazione Telegram che si installa sui telefoni è pubblico, e vi si può leggere come è implementata la sua crittografia. Qualsiasi esperto di sicurezza può verificarne la solidità e provare a "bucarlo", vincendo un premio di 100.000 dollari in caso scoprisse falle a livello di protocollo. Rimane privato il codice dell’infrastruttura che regge i servizi di Telegram (i server).
Ma la crittografia end-to-end è ciò che garantisce che il fornitore di servizi non possa decifrare il contenuto dei messaggi quando passano attraverso i server: è esclusiva responsabilità dell’applicazione nelle mani dell’utente finale (l’app del telefono o il client web).
La possibilità di leggere il codice sorgente di tutti i client garantisce quindi che Telegram non abbia inserito backdoor, ovvero trabocchetti che consentano di decifrare tutto, quando richiesto dei governi o per vezzo del fornitore di servizi.
Al contrario di Telegram, Meta è estremamente gelosa del codice sorgente di Whatsapp e di tutti i suoi prodotti. Il divario va ancora più a profondo: mentre per Telegram esistono API, cioè interfacce per facilitare lo sviluppo di applicazioni originali che utilizzano il servizio, nei prodotti Meta sono sostanzialmente assenti, e chi tenta di desumerle tramite reverse engineering riceve una simpatica letterina da un loro avvocato (come nel caso di Barinsta e tanti altri).
Non potendo conoscere il codice sorgente utilizzato per creare le app che popolano i nostri telefoni, non possiamo sapere se la crittografia contiene di proposito delle falle. Ma possiamo inferirlo dal fatto che Durov è stato arrestato, Zuckerberg no.
Si potrebbe obiettare che anche Signal è open source: ma la sua base di utenti è talmente piccola, 40 milioni, da non fare paura e anzi far sembrare Signal quasi una honeypot - una trappola per attirare chi ha qualcosa da nascondere in modo da poterlo sorvegliare con altri mezzi. Lo ha insinuato di recente il giornalista trumpiano Tucker Carlson, ma già nel 2021 c’era chi metteva in guardia sull’ex-CIA che lo ha fondato.
I governi premono da tempo per rendere più insicure le app di comunicazione. A luglio di quest’anno è approdato al parlamento inglese un emendamento che mira a obbligare i fornitori a introdurre backdoor per facilitare le indagini.
Gli inglesi ci pensano da tempo, almeno dal 2017, sull’onda di un attentato coordinato via Whatsapp.
Un anno fa lo aveva proposto il ministro degli interni francese. Nel 2019 lo propose il procuratore generale degli Stati Uniti.
L’interesse spasmodico dei governi verso il software usato dai cittadini nasce con i social: è stato dimostrato che alcune vulnerabilità a livello del sistema operativo Microsoft Windows sono servite come backdoor per il governo USA (NSA). Non è noto se il governo stesso le avesse richieste e ottenute, o le avesse trovate e sfruttate senza comunicarlo a Microsoft.
Quando, nel 2013, venne chiesto a Linus Torvalds (demiurgo di Linuux): “la NSA ti ha chiesto di inserire una backdoor nel kernel?”, egli rispose “sì” con la testa e “no” con la voce, per poi smentire. Anni dopo il padre confermò fosse un sì.
Si tratta di prospettive agghiaccianti: o National Security Agency (NSA) e le aziende lavorano insieme per aggiungere falle, oppure la NSA non le comunica dopo averle scoperte, per farci le sue cose. L’esito è comunque la sopravvivenza di una backdoor che prima o poi viene scoperta dal dark web e utilizzata qualsiasi altro scopo.
Grattacieli blindati e fondamenta aperte
Queste considerazioni fanno da assist al secondo tema che vorrei introdurre. Meta si fa paladina dell’open source pubblicando svariate e utili librerie, anche di enorme successo (come react per lo sviluppo web e pytorch per le reti neurali), ma si tratta sempre di componenti di basso livello pensate per gli sviluppatori software - mai di applicazioni consumer.
Meta invita a collaborare gratuitamente nel coltivare il suo ecosistema di strumenti, che poi utilizza per creare applicazioni di portata planetaria, dove però la collaborazione non è affatto ben accetta.
Il messaggio sembra essere che l’open source va bene finché non tocca il loro business, cioè i dati degli utenti finali.
In poco più di dieci anni l’informatica ha sperimentato un cambio di paradigma notevole. Gli incumbent vedevano male l’open source perché lo percepivano come una specie di pirateria, o concorrenza sleale: Microsoft aveva fatto tanta fatica a sviluppare e imporre Windows o Word, quando arrivarono degli universitari hippie a fargli concorrenza con un prodotto gratuito, con funzioni, interfaccia ed esperienza d’uso pericolosamente simili. È chiaro che gli incumbent non presero benissimo il movimento per il software libero, e mossero fior di cause legali.
Oggi tutte le big tech amano e lodano l’open source, lo promuovono e lo sviluppano. Perché sono riuscite a confinarlo a ruolo di componente: non minaccia più di rubargli il mercato, cioè gli utilizzatori finali e soprattutto i loro dati. Anzi, serve per attrarre sviluppatori, per selezionare i migliori da assumere, nel frattempo facendogli manutenere, gratis, le fondamenta dei propri prodotti.
Lo sforzo per assicurare il buon funzionamento di componenti critici, ma senza alcun valore di mercato per le big tech, viene condiviso tra di esse, spesso in consorzi dove più aziende collaborano con i volontari, grazie alla garanzia di beneficio reciproco derivante da una licenza open source.
Ma il modello che qui battezzo “fondamenta aperte – grattacielo blindato” ha mostrato segni di cedimento. Vulnerabilità di ogni tipo vengono naturalmente scoperte anche nel software open source, ma quello che preoccupa è la facilità con la quale contributori opachi hanno iniettato codice malevolo, camuffandolo agli occhi dei responsabili dei progetti.
L’ultimo caso, di fine marzo 2024, è quello della libreria di compressione XZ, utilizzata da molti sistemi operativi open source nel distribuire gli aggiornamenti. Il codice era in grado di aprire una backdoor per controllare completamente la macchina colpita.
Dal 26 settembre è stata scoperta una vulnerabilità gravissima (9.9 su 10) nel sistema di stampa diffusissimo in molte distribuzioni Linux, che consente l’esecuzione di codice arbitrario coi massimi privilegi quando un utente avvia una stampa.
La patch di sicurezza è stata distribuita poche ore dopo la scoperta, ma era presente da molti anni. Non sono noti attacchi che sfruttassero il problema, che è di lunghissima data: chissà se qualcuno sapeva, e l’ha silenziosamente usata per i propri scopi per tutto questo tempo.
C’è una lunga bibliografia di attacchi di inquinamento della catena di fornitura software, dove i criminali si inseriscono in un componente minore, magari con un team poco numeroso e di soli volontari, per attaccare un prodotto (spesso proprietario) di ampio utilizzo. Ne parla Mark Ohm nell’illuminante articolo “Collezione di pugnali del traditore: Una rassegna di attacchi alla catena di fornitura del software open source”.
Le aziende che ottengono profitti da capogiro costruendo grattacieli blindati su fondamenta aperte non si curano abbastanza che esse possano reggere il loro crescente peso.
Il loro impegno verso l’open source è concentrato dove c’è un ritorno di immagine: risolvere le beghe di un’oscura libreria di compressione o di crittografia prima che causino disastri planetari non attrarrà né talenti né investitori, né aumenterà il valore percepito o il mercato. L’open source serve solo a scaricare il peso di componenti poco interessanti per il proprio business.
Nel frattempo la generazione ideologicamente motivata a creare e curare un ecosistema aperto sta tramontando senza possibilità di ricambio. Nessuna rivoluzione, nel senso originale di redistribuzione della conoscenza e del potere digitale, sembra più essere veramente possibile, nel momento in cui le GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) hanno catturato praticamente tutta la popolazione informatizzata ed il loro effetto rete è divenuto inscalfibile.
Il software nelle mani delle persone comuni è ormai esclusivamente proprietario e senza più possibilità di migrazione: le motivazioni ideologiche che potrebbero ispirare una nuova generazione di hacker (quelli buoni) sono frustrate sul nascere. Hanno prevalso le motivazioni squisitamente tecniche: la creazione di un commons di mattoncini software fa comodo a tutti.
Dove c’è un commons, la sua tragedy è dietro l’angolo, e solitamente si interpella lo Stato: Ubi est? A livello europeo l’iniziativa Next Generation Internet stanzia dei fondi per applicazioni open source di importanza strategica. La nuova commissione ha però deciso di tagliarli, a favore di nuovi lodevoli obiettivi quali:
Fabbriche di chip, per le quali siamo in grave ritardo (SO6)
Centri di calcolo ad alte prestazioni: che servono, ma finché non son pronte le fabbriche di chip, le compreremo dalla Cina e dagli USA. E non facciamoci mancare i computer quantistici, che ancora nessuno ha chiaro se e quando potranno diventare utili a qualcosa. (SO1)
Intelligenza Artificiale, con esplicito riferimento ad uno spazio comune dei dati europei (SO2)
Cibersicurezza, compresa una infrastruttura di comunicazione capace di difenderci dalla incipiente minaccia dei computer quantistici (SO3)
Alta formazione su IA, cibersicurezza e calcolo ad alte prestazioni (SO4).
E poi, forse per salire nel ranking dei motori di ricerca, un mosaico di parole chiave: dalla blockchain europea al climate change all’inclusività (SO5).
Una recente consultazione pubblica, cui ho partecipato assieme ad altri 763, spero possa fargli cambiare idea.
In Italia vigono solo delle blande (e disattese) linee guida che invitano le pubbliche amministrazioni a preferire l’utilizzo di strumenti open source, ma non mi risultano iniziative per supportarli.
Non quali lauree, ma quali laureati
Ho iniziato sottolineando un’incoerenza, ma ne ho appena introdotta un’altra: abbiamo stabilito che le big tech non temono più la concorrenza tecnologica e per questo si possono permettere di pubblicare pezzi della loro infrastruttura.
Se anche prendessi react da Meta per costruire un social network, non potrei mai competere con l’effetto rete accumulato dall’ecosistema di Meta negli ultimi 20 anni: ha già gli utenti in pugno. E allora perché rifiutarsi di pubblicare il codice delle applicazioni finali? WhatsApp, ma anche Teams, Zoom, etc. Non ne potrebbe derivare nessun danno.
Non trovo altre risposte razionali, se non il fatto che dentro quel codice sorgente ci devono essere righe innominabili, oscuri versetti satanici, che mai sviluppatore avrebbe dovuto accettare di scrivere, atti a violare in ogni modo possibile la privacy chi li esegue.
Non posso dimostrarlo, certo, ma del resto esistono esempi di applicazioni di questo tipo, volte ad abusare di chi le utilizza in vario modo. Ad esempio rendendo gli utenti dipendenti dalle piattaforme incentivando contenuti autodistruttivi (TikTok), sopprimendo notizie della parte politica avversa (Twitter Files), manipolando subdolamente i contenuti per spingere quelli sponsorizzati e non quelli cui vorresti accedere pur pagando (pare Spotify), e così via.
Sembrano bazzecole, ma volendo andare sul pesante si può citare la centralina capace di riconoscere e taroccare i test di emissione dei motori Volkswagen, o il software che ha fatto cadere un paio 737 Max della Boeing perché prendeva il sopravvento sul pilota.
Dietro ciascuna di quelle applicazioni ci sono team di ingegneri e altri utilissimi laureati in discipline STEM che non si sono posti mezzo problema quando qualcuno gli ha chiesto di implementare funzionalità perlomeno controverse. Avranno pensato "Befehl ist Befehl", l’ordine è un ordine.
Forse non avevano gli strumenti culturali necessari per rendersi conto di ciò che stavano scrivendo, oppure per comunicarlo in modo abbastanza efficace da influenzare il management, o per andarsene via e denunciare: non possiamo saperlo.
Leggendo “Il peso di essere giovani” di Gloria Origgi su Appunti pensavo a tutte queste cose. E non ho potuto evitare di sentirmi in imbarazzo di fronte ad una filosofa che loda il (piccolo) potere di cui dispongo quale umile scalpellino della tecnologia. Perché ogni giorno mi interrogo sulla correttezza delle mie misure, del mio codice, delle mie conclusioni: e trepido contemplando le conseguenze che un errore può provocare.
Qualche tonnellata di piastrelle da rimacinare, migliaia di metri cubi di gas bruciati invano, lo scudo termico di uno shuttle che si perfora, una bombola resa fragile dall’idrogeno… Non ho responsabilità diretta in ciò che un cliente fa del mio lavoro, ma persino l’idea di una responsabilità molto indiretta mi atterrisce - e motiva.
Credo che questa sana paura derivi, almeno un po’, da quel residuo di religiosità che si vorrebbe sradicare, quel po' di cultura classica che comunque al liceo scientifico ho ricevuto (e amato) ma che sarebbe sempre troppa secondo alcuni. Tutto questo ha un peso nella formazione di una propria etica del lavoro, anche se prima viene sempre l’esempio della famiglia.
Il timore di sbagliare, di nuocere o semplicemente risultare scorretti ai posteri è radicato nell’aver imparato un po’ di latino e averlo inesorabilmente dimenticato; nell’aver studiato da Parmenide ad Hannah Arendt, ma troppo superficialmente; nel ricordare di aver letto solo Pirandello, Buzzati e Calvino tra tutta la letteratura italiana, ma di averli amati - e di non aver proprio sopportato Jacopone da Todi.
Quindi, come tutti amano ricordare Socrate: so di non sapere. Con la mia laurea scientifica non mi sento neanche lontanamente di poter cambiare o salvare il mondo: aggiungo tentennante il mio mattoncino a un edificio di cui non vedo la cima né il perimetro, sperando sia una fattoria e non una caserma, ma mi sento privo di guard-rail.
Da una coraggiosa filosofa anti-patriarcato mi aspetterei un vaglio severo della arroganza machista (e un po’ cristiana) che spinge a dominare la natura, non certo l’elogio del mondo-che-va-veloce e dei vaccini-che-salvano-vite.
Vorrei sentire che questo progresso inarrestabile viaggia su binari che profondi studiosi dell’umano si sforzano di indirizzare verso il bene con saggezza, rigore e compassione. Vorrei vedere intellettuali combattere come leoni contro miopi tornaconti, paure artefatte e hubris scientista.
È vero, la somma del gioco finora è stata molto positiva, ma mentre la tecnologia diventa più potente e pervasiva, la speranza di vita aumenta sempre più marginalmente.
Nel grafico che segue si vedono gli aumenti nella durata della vita per una selezione di aree geografiche e paesi del mondo, tratto dai dati pubblicati su Statista. Li ho normalizzati per la durata degli intervalli di tempo disponibili, in modo da produrre l’incremento di aspettativa espresso in anni di vita in più per anno trascorso.
Nei Paesi occidentali l’aumento più veloce è avvenuto tra il 1900 ed il 1950: nonostante ben 2 guerre mondiali, la vita si è allunga in modo straordinario. Poi la velocità dimezza o quasi fino al 1998, e cala ulteriormente andare al 2020.
Le rivoluzioni 3.0, 4.0 e 5.0 non sono state efficaci quanto la Belle Epoque che seguì prima e seconda rivoluzione industriale, né quanto il rifiorire tecnologico indotto da due guerre mondiali.
Col nuovo millennio la vita negli Stati Uniti si è allungata meno rapidamente (0.08 a/a) di quanto facesse nel corso del 1800 (0.1 a/a), mentre in Europa siamo poco sopra (0.17 contro 0.13 a/a).
Dai dati della World Bank (fonte di quelli di Statista), in Italia la serie positiva ha frenato nel 2014, poi il COVID e le misure ad esso legate ci hanno riportati al 2010 e nel 2022 stavamo ancora vivendo meno che nel 2014.
Unione Europea e Stati Uniti non se la passano certo meglio: la stagnazione di questi ultimi sembra iniziare già nel 2010, ma un netto rallentamento è visibile sin dagli anni ‘80.
L’aspettativa di vita può sembrare un parametro un po’ asfittico per giudicare il miglioramento di una società: andrebbe considerata anche la qualità, ma è troppo elusiva ed arbitraria. E migliaia di fattori concorrono nel determinarlo: ricchezza, istruzione, funzionamento del sistema sanitario, salute mentale.
È comunque un dato che consiglia cautela dinanzi alle magnifiche sorti e progressive. In 10 anni è cambiato tutto: la società si è complicata in modo sempre meno leggibile, e anche la nostra quotidianità appare più fragile, appesa all’arbitrio di meccanismi senza volto, centralizzati e remoti.
Qualsiasi glitch può gettarci in situazioni kafkiane senza uscita. Anche le persone con le quali interagiamo sembrano rispondere ciecamente a protocolli avulsi da ogni contesto. Le rivoluzioni tecnologiche degli ultimi 20 anni vanno in una direzione auspicabile?
A livello planetario si ha l’impressione che basti un singolo errore per annichilire tutti i miglioramenti accumulati, e che le probabilità che questo errore avvenga aumentino di pari passo con l’onnipotenza della tecnica.
Il progresso introduce puntualmente nuovi motivi per i quali l’umanità può estinguersi: la guerra nucleare, il buco nell’ozono, la fine del petrolio, anzi no il riscaldamento globale, anzi no il cambiamento climatico, l’esaurimento della biodiversità, l’antibiotico-resistenza, l’intelligenza artificiale, i virus sintetici, l’inquinamento da microplastice/PFAS/radiofrequenze, e persino il digitale a scuola.
Ogni volta corriamo avanti finché non è troppo tardi, perché il progresso è sempre fonte di salvezza e redenzione, e ormai la sola: la soluzione ai problemi introdotti dalla tecnica è sempre più tecnica (come per l’Unione Europea…). Ogni fragilità si risolve aumentando la complessità del sistema, che diventa ancora più fragile.
Umberto Galimberti, trasponendo Marx, sostiene che quando la tecnica diviene il mezzo che permette di ottenere qualsiasi fine, essa si trasforma nel fine stesso, e smette di essere uno strumento nelle mani dell’uomo. I ruoli si invertono e l’uomo si riduce a mero mezzo al servizio della tecnica.
Tutto ciò che è possibile, sarà. Se un nuovo orrore è a portata di mano, qualcuno lo realizzerà, in barba a qualunque tentativo di regolamentazione, per il bene superiore di ottimizzare e potenziare la tecnica stessa. Ogni nuovo passo aprirà la porta all’orrore successivo, perché da qualsiasi conquista tecnica deriva sempre potere (e con esso certa idolatria per chi ne diviene discepolo).
La cesura tra percorsi di studio scientifici e umanistici, operata sempre più a fondo sulla base di giustificazioni efficientiste, ha già dato fin troppi frutti amari. Credo sarebbe il caso di tornare indietro nel modo in cui si formano scienziati e tecnici, anche a costo di rallentare il progresso impiegando laureati meno specializzati - considerato che, forse inevitabilmente, non lo sono mai abbastanza e mai in ciò che serve nel lavoro che poi trovano.
Non mi spingo qui a riproporre il bilanciamento tra trivio e quadrivio della scolastica medievale, ma credo servano più discipline umanistiche nei percorsi scientifici. È probabilmente vero anche a parti invertite: quanti danni può fare un intellettuale (giornalista, politico, ecc) che non comprende le basi la statistica?
Per esemplificare cosa intendo, riporto un ricordo risalente a 20 anni fa, quando frequentavo chimica all’università di Modena, e ancora vividissimo.
Il professore di termodinamica, Augusto Rastelli, iniziò il corso parlando di filosofia. Le prime due lezioni furono dedicate in particolar modo alla epistemologia. Dopo aver presentato i principi più importanti della filosofia della scienza, da Galileo a Feyerabend passando per l'immancabile Popper, il venerando professore si inoltrava nell'esame dei più eclatanti abbagli della comunità scientifica e di alcune teorie del complotto contemporanee.
L'obiettivo era piantare il seme del dubbio e della ricerca filosofica nelle nostre menti, per non rimanere vittima delle nostre stesse certezze, anche di quelle inculcate dall'università stessa.
Quelle due lezioni generarono grandi discussioni e furono accolte in modo contrastante da noi studenti, perlopiù con scetticismo e senso di perdita di tempo. Ma furono per me importantissime, tanto che più volte ho consultato, nell'arco dei 20 anni successivi, i programmi delle facoltà di filosofia vicine a Modena, sentendo ancora l'urgenza di approfondire quei temi fondamentali, e la speranza di trovare qualcuno capace di esporli con pari passione e arguzia (poi però c’è il mondo-che-va-veloce…).
Quel professore, che insegnò anche a mio padre, è purtroppo venuto a mancare nel 2021, e non ho potuto raggiungerlo per approfondirne le sue motivazioni pedagogiche. Uno dei figli, che ne ha seguito le orme, mi ha confermato l’anelito di unificazione del mondo scientifico con quello filosofico.
La mia proposta è, in fondo, che tutti gli studenti di discipline scientifiche possano incontrare il prof. Rastelli.
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Bellissimo articolo, complimenti all'autore, che cercherò di leggere altrove. Lavorando nel campo dell'ICT da moltissimi anni, anche per formazione (che mai si può dire conclusa), mi riconosco al 100% nelle tesi dell'articolo, e vi assicuro che spesso anche nelle minute scelte su come scrivere una routine (vabbè oggi si direbbe metodo) si può fare la differenza tra un "bel codice" ed una toppa malmessa (il diavolo si nasconde nei dettagli). Trovo comunque inquietante, seppure assolutamente plausibile, il motivo dell'arresto di Durov, mentre devo dire che mai ho creduto alla genuinità delle piattaforme social di Zuckerberg, già osservando i suoi finanziatori dei primi tempi.
Grazie dott. Paganelli, un articolo che riconcilia con la tecnologia e fa ben capire la società che ci circonda. Come dice Stefano Feltri, questo è uno spazio in cui approfondire certi discorsi mainstream poco convincenti e quest'articolo ne è una dimostrazione lampante!!!
Nel lavoro di programmatore sono più le volte in cui ci si deve confrontare con questioni di etica e di responsabilità delle volte in cui devi risolvere un problema tecnico e per questo lo studio della storia, della filosofia, della cultura e dell'attualità è assolutamente predominante rispetto all'analisi tecnica.