La versione del trattore
Un lettore con un'azienda agricola ci scrive per spiegare perché ci sono molte ragioni per protestare. Ma fino a che punto si può sussidiare il settore e tollerare il suo pesante impatto ambientale?
Il problema esiste ed è la redditività delle nostre aziende erosa in primis dallo scarso valore dei nostri prodotti alla fonte e dall’aumento vertiginoso dei costi di produzione
Pierpaolo R.
Buongiorno,
ho letto con attenzione l’articolo del professor Manlio Graziano sulla rivolta degli agricoltori e non entro in merito alle sue considerazioni. Ciò che mi preme discutere con Lei, semplicemente le esporrò le mie convinzioni essendo primo interessato in quanto agricoltore a titolo principale che, nonostante una doppia laurea, si “sporca” con molto piacere (ma sempre meno soddisfazioni) le mani in campagna.
Mi ritengo un privilegiato, come la maggior parte dei miei colleghi, perché ho avuto la possibilità di intraprendere questa scelta lavorativa in quanto ho - meglio abbiamo io e i miei fratelli - rilevato dei terreni di proprietà della famiglia e piano piano riconvertito l’azienda dal punto di vista produttivo prima e commerciale in seguito.
Dico privilegiato perché nel mio settore (frutticolo) sarebbe pressoché impossibile acquistare a debito dei terreni per avviare questa attività così come lo sarebbe credo nel 90 per cento dell’agricoltura moderna.
Mi potrei definire una mosca bianca tra i miei colleghi perché non appartengo a nessuna associazione sindacale (Coldiretti, Unione agricoltori, Cia ecc. / berretti gialli oppure cooperative rosse-cooperative bianche create da reperti storici quali PCI e DC) non avendone mai condiviso le loro politiche che definirei passive/sussidiarie rivolte ad attrarre associati da “mungere”, agricoltori ora oggetto di corteggiamento dei partiti sovranisti/populisti.
Il problema esiste ed è la redditività delle nostre aziende erosa in primis dallo scarso valore dei nostri prodotti alla fonte e dall’aumento vertiginoso dei costi di produzione.
Le soluzioni non sono i sussidi una tantum, anzi spesso mettono in difficoltà le aziende che contano troppo e/o solo su di essi, né si possono chiudere le frontiere considerato che l’Italia è uno dei maggiori esportatori di prodotti agricoli.
Il mercato deve essere libero ma regolamentato in maniera: ci siano le stesse o almeno simili condizioni lavorative / produttive proprio perché questo mercato coinvolge praticamente tutti i paesi con interscambi Nord-Sud, Est-Ovest facilitati da una logistica sempre più specializzata e veloce (salvo qualche inconveniente come sta accadendo ora con le problematiche del canale di Suez).
Ma sappiamo benissimo che i costi della manodopera sono diversissimi, sappiamo benissimo che le normative europee sono (ritengo giustamente per tutelare i consumatori) molto stringenti in materia di presidi fitosanitari utilizzabili, sappiamo benissimo che il clima sta cambiando e ci chiede uno sforzo “green” (basti pensare ai sempre più frequenti ed ingenti danni creati da eventi atmosferici anomali), sappiamo benissimo che la grande distribuzione ha il coltello dalla parte del manico, ….
Io sono stato un privilegiato perché ho potuto scegliere di fare questo mestiere, io sono un privilegiato perché potrò permettermi (spero non a breve nonostante non veda la luce in fondo al tunnel….) di smettere quando non ci sarà più la convenienza economica nel proseguire in questa attività.
Sono convinto che la gente qualcosa deve pur mangiare, sono convinto che quindi qualcuno dovrà produrre questo qualcosa, ma come si incontrerà la domanda di cibo con l’offerta, beh non lo saprei proprio immaginare.
Buona vita,
Pierpaolo R.
Ringrazio Pierpaolo per questo suo messaggio che, con toni fermi ma più pacati di quelli usati in questi giorni nelle piazze di mezza Europa, racconta il disagio degli agricoltori che sostengono la protesta dei trattori, anche quando non scendono in strada direttamente.
Ci sono vari punti meritevoli di attenzione. Il primo è che Pierpaolo considera giustamente la prospettiva della sua attività da un punto di vista imprenditoriale, e non solo culturale: se a un certo punto l’azienda avrà perdite insostenibili, la chiuderà.
Si definisce un privilegiato, che è un giudizio di valore. Da un punto di vista strettamente finanziario, si può osservare che se ha dovuto sostenere soltanto i costi per aumentare la produttività dell’azienda e non quelli per iniziare l’attività - perché ha ereditato il terreno dalla famiglia - e nonostante questo il business non regge, perché la collettività dovrebbe farsi carico di questa incertezza imprenditoriale?
L’agricoltura è un settore pesantemente sussidiato, a livello italiano ed europeo. E’ singolare che siano gli agricoltori a chiedere un mercato non pienamente libero e regolamentato: in un mercato libero sarebbero spazzati via dalla concorrenza di paesi che offrono prodotti di qualità analoga ma a prezzi molto più bassi.
E sarebbero spazzati via non dalla politica, ma dai consumatori perché - a dispetto di tutta la retorica sul Made in Italy - soltanto minoranze di consumatori ad alto reddito sono disposti a pagare di più per acquistare frutta e verdura soltanto per avere certezza dell’area di produzione.
Il Made in Italy, poi, include i pomodori raccolti dai caporali in Puglia, le arance dagli schiavi di Rosarno, la verdura dei sikh di Latina sfruttati e ricattati…
Le normative europee sono più stringenti di quelle di altri paesi, ma non è che in Europa può entrare qualunque cosa. E’ una grande bugia diffusa dalle associazioni di categoria che nel mondo là fuori ci sia cibo quasi velenoso e in Europa invece sia di prima qualità.
Peraltro, il fatto che la produzione europea sussidiata segni un record di esportazioni nel 2023 significa che le nostre tasse vengono usate per aiutare gli agricoltori europei a fare concorrenza sleale a paesi poveri che non possono permettersi di usare a questo scopo miliardi di euro, e che vedono le loro produzioni messe fuori mercato. E poi ci lamentiamo se da quei paesi di cui devastiamo l’economia partono migranti per venire a cercare salvezza da noi?
Si può essere in disaccordo a sussidiare l'agricoltura con un terzo del bilancio comunitario, oltre 380 miliardi, e io sono in disaccordo. Ma questo succede dal 1962, direi che è una prassi piuttosto consolidata, non in discussione.
Quello che sta cambiando negli ultimi 5-6 anni è il tentativo di legare questi sussidi a un impegno per la transizione ecologica: ti pago, ma tu devi impegnarti a diventare più sostenibile. Finora, invece, abbiamo sussidiato l’agricoltura per produzioni inquinanti.
Secondo le tabelle del ministero dell’Ambiente, in Italia, il 14 per cento dei sussidi ambientalmente dannosi va al settore agricolo.
Secondo l’analisi del ministero, i settori più inquinanti hanno un costo sociale enorme non internalizzato, che cioè paghiamo noi cittadini.
Il ministero arriva a stimare qual è il danno sociale di questi settori, cioè i costi che hanno scaricato su di noi: quello dell’agricoltura (italiana) è inferiore solo a quello dei trasporti, ed è pari a 113 miliardi di euro.
Tutto questo per dire che non può essere uno scandalo se ora si chiede all’agricoltura di fare la sua parte nella transizione ecologica.
Questo può voler dire che soltanto aziende più grandi riescono a rispettare requisiti, fare investimenti e cercare economie di scala necessarie a rimanere sul mercato? Le piccole aziende come quella di Pierpaolo nel nuovo scenario non ce la fanno?
Dispiace, ma con tutto il rispetto - e lo dico sul serio - per stili di vita, identità professionali e sociali consolidate, fare una transizione ecologica significa proprio abbandonare stili di vita e identità sociali e professionali consolidate che il pianeta non può reggere.
Quando il governo olandese ha deciso di ridurre drasticamente le emissioni di azoto dagli allevamenti intensivi, ha stanziato 1,6 miliardi per acquisirli dagli allevatori e chiuderli.
E già prevengo l’obiezione: e l’industria? E l’agricoltura intensiva? E la grande distribuzione? Tutti dovranno fare la loro parte.
L’agricoltura finora non ha fatto la propria, grazie al peso politico delle sue lobby. Negli ultimi vent’anni l’agricoltura europea non ha praticamente ridotto le proprie emissioni, e infatti non ci sono state grandi proteste contro il tentativo di legare i sussidi ai risultati ambientali. Il grosso dello sforzo inizia ora, e così iniziano le proteste.
Ma come, dirà Pierpaolo, sono anni che noi agricoltori investiamo e sosteniamo costi aggiuntivi per rispettare normative più stringenti. Vero, ma l’Unione europea è grande e include anche paesi molto agricoli e più arretrati: a loro è stato - giustamente - concesso di poter inquinare un po’ di più per crescere (anche nel nostro interesse, visto che siamo un unico mercato comune).
E’ una delle grandi questioni nelle politiche climatiche: chi ha inquinato senza limiti per decenni non può poi pretendere dai paesi emergenti un’immediata adesione agli standard più stringenti, altrimenti infligge loro il costo sociale che ha evitato di pagare a casa propria.
Come si vede qui sotto, l’agricoltura europea negli ultimi anni non ha ridotto le emissioni ma questo è un risultato netto che compensa gli sforzi dei paesi più ricchi - che le hanno ridotte - e quelli dei paesi emergenti cui è stato concesso di aumentarle.
E’ giusto? E’ equo? E’ la contropartita di stare in un mercato comune che inonda di sussidi un settore che in base alle logiche di mercato non esisterebbe più in Europa.
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