La svolta oscura della scienza
Il progresso scientifico segue traiettorie impensabili in passato: da Google alle aziende di Musk, ora sono i gruppi privati a innovare. E questo è un rischio per tutti
Stiamo assistendo impotenti allo spostamento della capacità di produrre ricerca innovativa e trasformativa da università e centri di ricerca pubblici a gruppi di ricerca privati, poco trasparenti, ma molto aggressivi
Gianfranco Pacchioni
Buongiorno a tutte e tutti,
oggi pubblichiamo un pezzo di Gianfranco Pacchioni che ritengo particolarmente rilevante. Pacchioni è prorettore alla ricerca nell’Università di Milano-Bicocca dove è stato direttore del Dipartimento di Scienza dei materiali.
Ha scritto un libro per il Mulino su un argomento cruciale, l’impatto dell’ascesa di Big Tech sulla conoscenza: Scienza Chiara, Scienza Oscura. Nei prossimi giorni si tiene anche la conferenza antitrust annuale dello Stigler Center dell’Università di Chicago - Booth School of Business (dove ho lavorato anche io) che affronta gli stessi temi: Economic Concentration and the Marketplace of Ideas (trovate programma e info qui)
Gianfranco Pacchioni ha scritto un bellissimo pezzo per Appunti che condensa le analisi del suo libro. Lo trovate qui sotto, buona lettura
E buona domenica
Stefano Feltri
La notizia è del 18 marzo. Alphabet (ex Google) acquisterà la società Wiz per 32 miliardi di dollari. A parte la cifra, pari al Pil dell’Islanda, la cosa potrebbe lasciare freddini. Se non fosse che Wiz è una startup specializzata in sicurezza informatica per il cloud, fondata nel 2020 da quattro innovatori israeliani.
Wiz collabora già con molte delle più grandi aziende al mondo ed è leader assoluta nel campo della cybersicurezza.
Non è certo la prima acquisizione di Alphabet, come vedremo tra poco, ma è sicuramente la più grande in termini finanziari.
E’ solo un tassello di una strategia molto più ampia e per certi versi inquietante: la concentrazione di conoscenze, tecnologie, capacità innovativa nelle mani di pochi potentissimi attori.
Stiamo assistendo impotenti allo spostamento della capacità di produrre ricerca innovativa e trasformativa da università e centri di ricerca pubblici a gruppi di ricerca privati, poco trasparenti, ma molto aggressivi.
La privatizzazione
Per chiarire quanto sta accadendo, facciamo un salto indietro nel tempo. Il 31 gennaio 1958 gli Stati Uniti lanciavano l’Explorer 1, il loro primo satellite a entrare in orbita attorno alla Terra. Era la risposta al clamoroso lancio dello Sputnik da parte dei sovietici, avvenuto pochi mesi prima.
Negli stessi anni John Kendrew e Max Perutz utilizzavano la cristallografia a raggi X per determinare la struttura della mioglobina e dell’emoglobina, due proteine essenziali per il funzionamento dell’organismo umano.
Sempre all’inizio degli anni Sessanta un’équipe guidata da Thomas Starzl in Colorado realizzava il primo trapianto di fegato su un paziente umano. Cosa accomuna il lancio di un satellite, la struttura tridimensionale delle proteine o un’innovativa tecnica di trapianto di organi?
Apparentemente nulla, se non che tutti questi risultati furono raggiunti all’interno e con il supporto di istituzioni pubbliche: la NASA per l’Explorer, il Cavendish Laboratory di Cambridge per la ricerca sulle proteine e l’Università del Colorado per il trapianto di fegato.
Veniamo ai giorni nostri. Alle 4:30 italiane di domenica 16 marzo quattro astronauti della missione Crew-10 di SpaceX hanno raggiunto, per riportarli sani e salvi sulla Terra, Sunita Williams e Butch Wilmore, due astronauti noti per essere rimasti bloccati per nove mesi nella Stazione Spaziale Internazionale, dove avrebbero dovuto restare solo per otto giorni.
Maggio 2024: viene rilasciata una nuova versione di AlphaFold, un rivoluzionario software di intelligenza artificiale capace di prevedere la struttura delle proteine, accelerando così la scoperta di nuovi farmaci.
Stesso mese, Noland Arbaugh, un paziente paralizzato dal collo in giù, dimostra i progressi fatti grazie a un impianto cerebrale che utilizza un’interfaccia neurale. Vale la stessa domanda: cosa lega una missione spaziale, un software di biologia computazionale e un impianto di microelettrodi nel cervello?
Non molto, se non il fatto che stiamo parlando di risultati ottenuti non nel contesto della ricerca pubblica e condivisa, ma in ambito privato e riservato.
SpaceX è l’azienda americana di Elon Musk che si occupa di telecomunicazioni satellitari e viaggi interplanetari; AlphaFold è un prodotto di DeepMind, società britannica di intelligenza artificiale poi acquisita da Google; Neuralink, sempre di Musk, è invece la società che ha sviluppato l’interfaccia neurale per connettere il cervello umano ai computer.
Questi esempi illustrano come il progresso scientifico e tecnologico stia seguendo percorsi completamente diversi rispetto al passato.
Negli anni Sessanta sarebbe stato inconcepibile che a salvare due astronauti bloccati su una stazione orbitante fossero stati un missile e l’equipaggio di una ditta privata. Ma sarebbe stato inusuale anche che scoperte fondamentali in biologia e neuroscienze provenissero da centri di ricerca aziendali.
Certo, anche in passato importanti centri di ricerca privati hanno portato a scoperte e invenzioni rivoluzionarie, basti pensare al transistor sviluppato dall’AT&T e al personal computer progettato da IBM.
Ma c’è una differenza fondamentale.
All’epoca, queste grandi aziende avevano avanzati centri di ricerca orientati alla scienza di base, ed erano aperti alla condivisione delle proprie ricerche. Tanto per dire, negli anni Sessanta la DuPont, una grande azienda chimica americana, pubblicò più articoli sul prestigioso Journal of the American Chemical Society di quelli del Massachusetts Institute of Technology e del Caltech messi insieme.
Oggi l’atteggiamento è completamente cambiato e una coltre fumogena avvolge le intense attività di ricerca e sviluppo (R&S) che si svolgono all’interno di alcuni potentissimi centri di ricerca privati.
La scienza è il principale motore dello sviluppo economico e sociale. Governi, istituzioni e aziende investono in università e centri di ricerca con la convinzione che il progresso scientifico porterà benefici e una migliore qualità della vita a tutti.
L’aumento costante della aspettativa di vita alla nascita, il crollo della mortalità infantile, la diffusione di strumenti di comunicazione sempre più rapidi ed efficaci, la riduzione delle distanze grazie a mezzi sempre più veloci, sono solo alcuni esempi di quello che la ricerca scientifica è in grado di produrre in termini di cambiamenti sociali.
Il modello “più finanziamenti – più conoscenza – più benessere” ha così alimentato la crescita della scienza e ha permesso alle aziende di tradurre le scoperte in prodotti da immettere sul mercato, con profitti per loro e benefici per i consumatori.
Così sono nate le calze di nylon, le radio a transistor o le ciclosporine per consentire i trapianti di organi. Le imprese hanno creato laboratori di ricerca per trasformare le scoperte della scienza pura in innovazioni utili al benessere della società, con investimenti massicci ma anche con ritorni economici altrettanto significativi.
Il controllo del futuro
Con l’avvento di questo secolo il panorama è radicalmente cambiato. L’avvento di Internet, dei social media, dell’e-commerce ha permesso di creare crescenti quantità di dati, accumulati nei server di poche aziende lungimiranti.
Quest’anno genereremo la spaventosa cifra di 180 zettabyte di dati, un trilione di gigabyte (uno zettabyte è pari a 1021 byte). Un vero patrimonio, che oggi rappresenta la risorsa più preziosa della nostra epoca.
Con profitti in crescita esponenziale, alcune aziende hanno sviluppato strategie volte ad acquisire via via tecnologie più dirompenti, conoscenze alla base di processi trasformativi, talenti in circolazione.
Intendiamoci, ogni azienda che si rispetti aspira a raggiungere il monopolio nel proprio settore, sia questa un chemioterapico, una crema solare o una batteria al litio.
Ma i Big Tech perseguono un obiettivo molto più ambizioso: il monopolio della conoscenza, attraverso il controllo della ricerca di base necessaria per generare tecnologie rivoluzionarie, di impatto trasformativo.
Investire in computer quantistici, interfacce neurali e intelligenza artificiale non è più solo una questione di innovazione aziendale, ma una strategia per ottenere il controllo economico, politico e sociale del futuro.
Negli anni Ottanta gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo (R&S) di una quarantina di Paesi industrializzati erano di poco inferiori a quelli privati, circa lo 0,8 per cento del Pil.
Nel 2017 l’investimento pubblico in ricerca è sceso a poco più dello 0,5 per cento del PIL mentre quello privato è salito all’1,5 per cento, come dire tre volte tanto.
Anche all’interno del mondo industriale e produttivo gli scenari sono cambiati. Nel 2003 l’azienda con i maggiori investimenti in R&S era Pfizer, azienda farmaceutica, con 12,3 miliardi di dollari (ai valori attuali), seguita da Daimler Chrysler, Toyota e Ford, tre case automobilistiche. In totale, sempre nel 2003, le prime dieci aziende per investimenti in R&S hanno speso 107 miliardi di dollari.
La stessa graduatoria del 2022 mostra che in testa a tutti c’è Amazon, con un investimento di 73,2 miliardi di dollari. Considerato che tutto il sistema universitario italiano costa circa 10 miliardi di dollari, stiamo parlando di sette volte il nostro sistema di formazione superiore.
A seguire nella lista ci sono Alphabet (Google) (39,5 miliardi), Meta (Facebook) (35,3 miliardi), Apple (27,7 miliardi), Microsoft (26,6 miliardi). La cinese Huawei è al sesto posto con 24 miliardi di dollari. Le case automobilistiche sono quasi sparite (resta solo Volkswagen) ma l’investimento complessivo delle prime dieci aziende sfiora i 300 miliardi di dollari, quasi il triplo di venti anni prima.
Progressi segreti
Ovviamente non c’è nulla di male nel fatto che grandi aziende investano cifre importanti in ricerca e sviluppo. Se non fosse che nulla o quasi di quanto viene studiato all’interno dei laboratori dei Big Tech trapela e raggiunge poi la comunità scientifica.
Nel 2023 sono comparse 362 pubblicazioni a firma di Amazon.com, grosso modo quelle di un dipartimento universitario di un centinaio di persone. Considerato che quell’anno sono stati pubblicati tre milioni e mezzo di articoli scientifici nel mondo (decisamente troppi), Amazon ha contribuito all’aumento della conoscenza pubblica per lo 0,01 per cento del totale, almeno in termini quantitativi.
Numeri simili per le altre Big Tech. Inoltre, come strumento per seguire i costanti progressi della scienza, queste mega-aziende adottano una prassi comune, e non necessariamente negativa, che è quella di finanziare progetti o ricercatori presso grandi università pubbliche creando così delle vere e proprie reti di competenza. Ma anche quando queste ricerche portano a sporadiche pubblicazioni in comune, è molto raro che si arrivi a brevetti condivisi.
All’inizio del 2018 Amazon possedeva 10.243 brevetti, ma di questi solo 13 (lo 0,13 per cento!) erano con altre aziende e nessuno con università. Microsoft ha sviluppato una rete di collaborazioni di ricerca e pubblicazioni in comune con più di quattromila organizzazioni, alcune delle quali fuori dai confini degli Stati Uniti.
Eppure, degli oltre 76.000 brevetti prodotti fino al 2017, Microsoft ne possedeva solo 11 in comproprietà con università.
C’è un altro strumento con cui i Big Tech drenano conoscenza e consiste nell’assumere ricercatori promettenti provenienti da enti pubblici offrendo loro ineguagliabili condizioni di lavoro.
Il fenomeno ha però assunto dimensioni allarmanti da quando le grandi aziende tecnologiche hanno la possibilità di offrire non solo lauti stipendi, ma anche ambienti di lavoro stimolanti, possibilità di realizzare le proprie idee, assenza di burocrazia, fondi illimitati, rapido passaggio dalla fase concettuale a quella di sviluppo del prodotto commerciale.
Unico vincolo: la riservatezza totale. Fa parte di questa strategia anche la recente azione del Department of Government Efficiency (DOGE) coordinato da Elon Musk. Migliaia di ricercatori di enti federali lo scorso febbraio si sono visti recapitare una mail che recita: “La strada per una maggiore prosperità americana è incoraggiare le persone a passare da lavori a bassa produttività nel settore pubblico a lavori a maggiore produttività nel settore privato”.
Come dire a ricercatori, medici, ingegneri, lasciate il settore pubblico, poco produttivo, e unitevi a quello privato che invece è in grado di valorizzare al meglio le vostre competenze e abilità.
E qui assistiamo a una vera e propria schizofrenia del sistema della ricerca. Mentre le università e i centri di ricerca pubblici spingono sempre più e in modo a volte ossessivo verso quella che viene chiamata Open Science, ossia la condivisione completa e totale dei risultati della ricerca, i Big Tech implementano paranoiche procedure di segretezza così che la ricerca svolta al loro interno sfugge a ogni sguardo indiscreto. Esemplare in tal senso gli esperimenti di impianti cerebrali di Neuralink.
A fronte di annunci e conferenze stampa, non una riga è mai stata pubblicata sulle riviste scientifiche sui dettagli delle procedure e delle metodologie seguite e neppure sul trial clinico.
Con grande frustrazione della comunità scientifica e con il paradosso che grazie a Open Science molti dei risultati prodotti con fondi pubblici ai Big Tech semplicemente li regaliamo.
Il monopolio della conoscenza
Ma il meccanismo più efficace utilizzato negli anni per creare un monopolio della conoscenza, aumentare le proprie zone di influenza, aprire nuovi settori in cui operare, è stato l’acquisizione di start-up per carpire le loro tecnologie, come nel caso di Wiz, la storia da cui siamo partiti.
Nel 2021, in soli otto mesi, le Big Tech hanno effettuato 9.222 transazioni per l’acquisto di start-up spendendo in totale 264 miliardi. Da quando è nata, Amazon ha acquisito più di cento aziende di medie dimensioni, Google oltre duecento. Le altre Big Tech non sono da meno.
Fino a qualche anno fa l’interesse dei Big Tech si è concentrato su quello che potremmo definire il “core business” aziendale, piattaforme di sviluppo software, storage di dati, robotica.
Ma poi l’attenzione si è spostata verso campi completamente diversi da quelli originari, settori della società in cui si intravedono lauti guadagni ma anche accesso a dati sensibili e riservati, tanto da poter acquisire un potere che va molto al di là di quello economico per sfociare nella sfera del controllo sociale o politico: computer quantistico, crittografia (e quindi sicurezza dei dati), biotecnologie, genetica, neuroscienze, salute e, ovviamente, intelligenza artificiale generale. Insomma, tutti i settori in cui cambiamenti profondi sono attesi per i prossimi anni con enorme impatto potenziale sulla società e sul genere umano.
Mai prima d’ora così poche aziende private hanno avuto un’influenza così determinante sulla ricerca scientifica e quindi sul nostro futuro. Il rischio è che la scienza pubblica, aperta e condivisa, venga relegata a un ruolo secondario, mentre le scoperte più rivoluzionarie si sviluppano lontano dagli occhi della comunità scientifica.
Se consideriamo che una parte significativa della ricerca scientifica è già assorbita da programmi militari, riservati per definizione, il quadro che emerge è un po’ inquietante: dietro la scienza pubblica, aperta, e orientata al bene comune, si cela quella privata, opaca, governata a volte da interessi inconfessabili.
Comprendere come e perché tutto ciò stia avvenendo è essenziale se vogliamo garantire che anche in futuro la scienza possa produrre risultati e ricadute a beneficio di tutti e contribuire a ridurre le disuguaglianze e non ad esasperarle.
Le migliori analisi della settimana: Daniel Gros, Paul Krugman, Tobias Gehrke, Camille Lons
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