La rendita invisibile parassitaria
Ormai i risparmiatori non comprano più azioni direttamente, investono tramite strumenti come ETF e dunque dunque tutto è deciso dai fondi, che fanno il proprio interesse
Il piccolo investitore, quello che mette da parte i soldi per la pensione o per i figli, vive nella convinzione di possedere “pezzi” di aziende tramite il fondo. Ma non possiede nulla del potere decisionale. E soprattutto non beneficia di un diritto — quello di voto — che ha valore reale, anche in denaro sonante
Alfonso Scarano
C’è un convitato di pietra nei salotti buoni della finanza, un tema di cui si parla poco e male, perché troppo scivoloso e troppo centrale per il business dei grandi gestori: il diritto di voto incorporato nelle azioni detenute dai fondi d’investimento. Un potere enorme, esercitato in nome degli investitori, ma dal quale gli stessi investitori sono di fatto esclusi.
Un potere che vale, eccome, anche in termini economici. E su cui, forse, varrebbe la pena cominciare a ragionare in termini di “indennizzo” o di restituzione diretta di potere decisionale, per chi quel potere lo cede, spesso senza nemmeno saperlo. Il caso del recente risiko bancario ne è testimonianza eclatante.
Chi vota davvero? Non il risparmiatore
Il principio di partenza è semplice: chi possiede un’azione ha il diritto di voto in assemblea. Ma il risparmiatore medio non compra più singole azioni, bensì quote di fondi comuni, ETF (Exchange Traded Fund - cioè indici quotati in Borsa), fondi pensione o SICAV (Società di Investimento a Capitale Variabile, ossia società che raccolgono capitali dai risparmiatori e investono in un portafoglio di strumenti finanziari).
Il fondo, a sua volta, compra azioni. È il fondo — ovvero il gestore — che figura come azionista legale, e dunque è lui a esercitare il voto.
Nella catena di proprietà, il piccolo o grande sottoscrittore del fondo è il vero “beneficial owner” (ossia il titolare effettivo o beneficiario reale) del patrimonio sottostante, ma il suo diritto di voto è interamente espropriato. Non viene consultato su come votare, né ha diritto di veto.
L’esercizio del voto resta saldamente nelle mani del gestore. Di qui nasce la prima, fondamentale opacità: chi possiede la quota del fondo vive, rispetto al voto, di luce riflessa. O peggio: di luce diffratta o di opacità.
Negli ultimi anni, la narrativa ESG (Environment, Social, Governance) ha dato ai gestori un comodo palcoscenico. Sostenibilità, governance, trasparenza: i fondi si presentano come paladini di cause nobili, pronti a «ingaggiare» le aziende su ambiente, diritti umani e diversità.
BlackRock, Vanguard, Amundi, Fidelity pubblicano lunghi report su come hanno votato e su quante volte hanno «sfidato il management» delle società partecipate.
Tutto vero. Ma la realtà è più sfumata. Il voto è potere. E il potere ha un valore economico, anche quando mascherato da retorica ESG. I fondi esercitano il voto anche per preservare relazioni industriali, difendere posizioni di mercato, influenzare strategie aziendali che possono giovare — direttamente o indirettamente — al gestore stesso, più che agli investitori finali.
Non è un caso che, tramite associazioni come Assogestioni in Italia, i fondi raccolgano deleghe di voto e presentino propri candidati nei board delle società quotate. Una prassi legittima, ma che svela come il voto sia usato per consolidare reti di potere economico e di relazioni.
Un meccanismo che crea una forma di rendita parassitaria in capo ai gestori, i quali detengono — senza costi aggiuntivi — il controllo di un diritto (quello di voto) il cui valore non viene minimamente retrocesso agli investitori.
Ecco il punto cruciale: il diritto di voto ha un valore economico. Non è solo un principio democratico. Decidere su bilanci, fusioni, governance o remunerazioni degli amministratori può impattare sul valore delle azioni, quindi sul valore del fondo. Ma può anche incidere su interessi più sottili: strategie industriali, nomine di manager vicini a certi ambienti, controllo dell’informazione societaria.
Restituire il valore del voto
Se il voto ha valore, chi lo esercita sta monetizzando — direttamente o indirettamente — qualcosa che appartiene, almeno in quota parte, agli investitori. Il sottoscrittore del fondo, invece, non riceve nulla.
Nessuna partecipazione nelle decisioni. Nessun ritorno economico legato a quella leva di potere. Nessuna possibilità di influire, se non disinvestendo (cosa teoricamente possibile, ma nella pratica spesso illusoria per mille ragioni di lock-up cioè vincoli temporali che impediscono il rimborso delle quote per un certo periodo, costi, fiscalità o semplicemente perché l’investitore non conosce nemmeno la politica di voto del fondo).
Questa asimmetria genera un paradosso: il gestore incassa il valore strategico del diritto di voto, mentre il risparmiatore subisce una sottrazione di valore, tanto invisibile quanto reale.
Se il voto ha un valore, perché non riconoscerlo? Su questo punto si aprono due strade, ugualmente radicali ma profondamente diverse nel modo in cui affrontano il problema.
La prima strada è quella dell’indennizzo economico. Secondo questa ipotesi, il diritto di voto — in quanto bene con valore patrimoniale — dovrebbe essere stimato e tradotto in un ritorno monetario per l’investitore. In altre parole, se il gestore esercita un diritto che in ultima istanza appartiene ai sottoscrittori, allora dovrebbe riconoscere loro una sorta di compenso.
Tale indennizzo potrebbe concretizzarsi in una riduzione delle commissioni di gestione o nella distribuzione di un dividendo straordinario, calcolato sulla base dei costi effettivi sostenuti per l’attività di voto e di engagement e sul valore strategico generato da quella funzione.
Sarebbe un modo per riconoscere, nero su bianco, che il voto non è un bene gratuito e che il suo esercizio produce vantaggi anche estranei al rendimento puro.
La seconda strada: restituire direttamente agli investitori pro quota il diritto di voto; soluzione rivoluzionaria, invece di monetizzare il diritto di voto, si potrebbe restituirlo.
In questa prospettiva, il fondo non sarebbe più il solo titolare del voto, ma diventerebbe una sorta di collettore tecnico attraverso il quale i sottoscrittori esercitano la propria volontà.
Gli investitori, in proporzione alle quote detenute, riceverebbero comunicazione delle assemblee e delle proposte di voto e avrebbero la possibilità di esprimere la propria preferenza. Il gestore, a quel punto, sarebbe obbligato a votare in assemblea secondo la volontà aggregata emersa dai suoi sottoscrittori. Laddove gli investitori non esprimessero alcuna indicazione, il voto resterebbe nelle mani del gestore, ma solo per la parte “silente” del capitale.
In questo scenario, si darebbe finalmente concretezza a quell’idea di “proprietà indiretta” che oggi esiste solo sulla carta. Il risparmiatore non sarebbe più uno spettatore passivo, ma diventerebbe a tutti gli effetti partecipe delle scelte strategiche delle aziende in cui ha investito, seppur per il tramite del fondo.
È evidente che entrambe le soluzioni comporterebbero ostacoli significativi. Calcolare il valore economico del diritto di voto, oggi totalmente opaco, non sarebbe semplice, né univoco. Dall’altra parte, rendere effettivo il voto diretto degli investitori moltiplicherebbe in modo esponenziale gli oneri organizzativi, costringendo i gestori a gestire milioni di istruzioni di voto su decine o centinaia di assemblee ogni anno. Inoltre, ci sarebbe il rischio di frammentare e rallentare il processo decisionale delle società, soprattutto nelle assemblee dove il tempismo è cruciale.
Ma al netto delle difficoltà, il principio resta inconfutabile: se il diritto di voto ha un valore, non può restare una rendita sottratta a chi finanzia il sistema, cioè gli investitori.
Il tema non è solo tecnico. È una questione di equità, trasparenza e democrazia societaria. Anche per questo, il voto azionario rappresenta un potere occulto, che può trasformarsi in leva politica, relazionale, economica. Senza vero controllo, né contropartite.
Il piccolo investitore, quello che mette da parte i soldi per la pensione o per i figli, è il grande escluso da questo gioco. Vive nella convinzione di possedere “pezzi” di aziende tramite il fondo. Ma non possiede nulla del potere decisionale. E soprattutto non beneficia di un diritto — quello di voto — che ha valore reale, anche in denaro sonante.
Forse è arrivato il momento di sollevare il velo. E di scegliere: o si indennizzano gli investitori per il valore sottratto, oppure si restituisce loro la voce che spetta di diritto.
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Articolo originale che però secondo me ha una debolezza: credo che i risparmiatori che abbiano desiderio e conoscenza di influire sulla gestione di una azienda siano una striminzita minoranza, anche perchè dall'esterno non è affatto semplice capire quali siano le dinamiche di voto nelle assemblee degli azionisti. Immagino che questa striminzita minoranza si comprerebbe direttamente le azioni sul mercato. La maggior parte desidera semplicemente fare un investimento vantaggioso e la scelta dei fondi è quella di "pago una commissione ed il fondo , specialmente se ETF, compra al posto mio un insieme di titoli, che io da solo non sarei in grado di seguire giornalmente". Potrebbe essere una idea interessante per un fondo nel differenziarsi dalla concorrenza se dopo una assemblea degli azionisti scrivesse a tutti i sottoscrittori di quote per indicare le ragioni delle posizioni che vengono assunte in assemblea. Comunque ben venga un dibattito sulle scelte dei risparmiatori, tema troppe volte dimenticato nel dibattito pubblico.
Francamente la storia delle banche popolari italiane insegna che il piccolo risparmiatore quando vota lo fa "a c***o" come si dice in francese . Fiorani, Consolo, Zonin erano tutti eletti dai piccoli risparmiatori. Preferisco tutta la vita delegare a un gestore che un filino (non moltissimo ma un filino) ne capisce di più. E ha comunque "skin in the game" a differenza dei Fiorani &Co che non hanno perso una lira dei propri soldi.