La memoria conflittuale
Dopo la guerra di Gaza, sembra quasi che ricordare cosa è stata la Shoah significhi prendere posizione, sottolineare il grande alibi di Israele per l'abuso della violenza. Ma è davvero così?
Noi siamo cittadini di un Paese nel quale troppi ragazzi non sanno, troppi giovani non hanno avuto occasione di voltarsi indietro e troppi adulti hanno fatto finta che non sia successo niente
Furio Colombo
Quest’anno è diverso, per tante ragioni. Il Giorno della memoria da un lato ha perso di senso, dall’altro ne ha trovato uno nuovo, forse. Perché la guerra di Gaza ha cambiato qualcosa, per sempre, e bisogna decidere che cosa.
Ci ragiono da settimane, e fatico a trovare una risposta netta. Forse ognuno deve cercare la propria, e la sintesi emergerà dalla condivisione di tante - sofferte - elaborazioni personali.
Il 27 gennaio 1945 cadevano i cancelli di Auschwitz, il mondo non poteva più dire di non sapere che si era consumato uno sterminio di massa. O meglio, che molte, moltissime persone lo avevano commesso, come somma di atti deliberati, precisi, con vari gradi di consapevolezza e convinzione, ma sempre di complicità.
Milioni di persone, classificate come ebree da leggi e parametri assai più vaghe di quanto pretendessero i loro artefici, sono state deportate, sterminate, cancellate, assieme a detenuti politici, omosessuali, disabili.
Per molti anni, quasi un quarto di secolo, si è cementata una sorta di consapevolezza trasversale: la Shoah è stato l’abisso dell’umanità, un punto di rottura dopo il quale - si diceva qualche decennio fa - la poesia e l’arte sarebbero state impossibili, perfino Dio andava ripensato dopo Auschwitz.
Oggi gli ultimi testimoni stanno morendo, al termine di lunghe vite segnate dalla consapevolezza del lager come elemento delle loro biografie individuali, non come argomento di studio a scuola.
Quei testimoni hanno vissuto abbastanza da vedere una evoluzione inattesa nella loro esperienza pubblica: prima ignorati, cancellati nel tentativo di rimuovere le responsabilità collettive nella Shoah, poi faticosamente protagonisti di un processo pubblico di consapevolezza, da anziani riveriti come simboli, testimoni sia dell’orrore che della rinascita democratica, e infine di nuovo controversi, problematici. Scomodi.
A 94 anni la senatrice Liliana Segre ha scelto di raccontarsi per esteso in un documentario diretto da Ruggero Gabbai, per quelli che verranno dopo, per paura che la Shoah diventi una riga nei libri di storia e poi sparisca del tutto.
Cercate online: quasi nessuno parla del contenuto del film, ma soltanto delle polemiche, dei cinema che rifiutano di proiettarlo perché temono di non poter gestire contestazioni o risse, degli insulti sulle pagine social.
Leggevo sul Corriere della Sera un interessante articolo che spiegava come i processi agli odiatori social della senatrice Segre abbiano in qualche modo fatto giurisprudenza, perché hanno testato i limiti della giustizia nei confronti delle piattaforme digitali e della Costituzione nel garantire la libertà di espressione anche alle idee o commenti più deleteri.
L’antisemitismo non è mai scomparso, ma ora si salda con l’indignazione per i comportamenti di Israele a Gaza, per i 46 mila morti che potrebbero rivelarsi 70-80mila una volta che saranno rimosse le macerie e che la tregua consentirà di contarli davvero.
Anche senza sottovalutare in alcun modo il trauma e la tragedia del 7 ottobre 2023, con l’attacco di Hamas, i 1200 morti, gli stupri, le mutilazioni, gli ostaggi, non si può restare indifferenti di fronte al massacro di Gaza, che lo si chiami genocidio o meno.
La Shoah e Israele
Ma cosa c’entra con la Shoah e con il Giorno della memoria? Quello che stiamo vedendo in queste settimane è la trasformazione del Giorno della memoria in un momento conflittuale, in una scelta di campo, come se riflettere sulla Shoah significasse sottolineare il grande alibi di Israele, giustificare la violenza di Gaza.
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