La lunga attesa
Dietro le vendette incrociate - annunciate, non sempre realizzate - tra Hezbollah e Israele in Libano ci sono il negoziato sul cessate il fuoco a Gaza, i calcoli dell'Iran e le presidenziali Usa
Un fallimento dell’iniziativa negoziale su Gaza, per raggiungere il cessate il fuoco, sarebbe un colpo per i Democratici, non per certo per Trump. E Netanyahu teme di compromettere i rapporti con Kamala Harris
Riccardo Cristiano
Hasan Nasrallah, il capo di Hezbollah, milizia khomeinista basata in Libano e fedelissima all’Iran, un risultato lo ha ottenuto: sapendo che quella della guerra è più forte di ogni altra notizia, ha rubato la scena al negoziato che, in teoria, doveva decidere sul cessate il fuoco a Gaza.
Infatti proprio nelle ore che precedevano l’inizio ufficiale dei nuovi colloqui ha lanciato la sua “vendetta” per l’operazione missilistica con cui Israele ha eliminato, il 30 luglio scorso, il suo “capo di stato maggiore” (così soprannominato da molti in Occidente per indicarne l’importanza), Fuad Shukr.
Era l’alba quando Israele, provocando pochi danni ai civili, ha prevenuto la vendetta distruggendo molte postazioni di lancio nemiche. Poco dopo Hezbollah ha annunciato che si trattava solo della prima fase della “vendetta”, ritenuta legittima perché il nemico aveva colpito un’area civile uccidendo oltre all’obiettivo militare anche una donna e un paio di bambini. Dunque, proseguiva il comunicato, a questa prima fase della vendetta ne seguiranno altre due.
La vendetta di Hezbollah
Qui occorre chiarire di cosa parliamo: la vittima del raid israeliano, Shukr, è stata eliminata perché Israele lo ha ritenuto l’organizzatore dell’attacco missilistico che ha ucciso una decina di bambini drusi nel Golan annesso da Israele ma popolato da molti drusi, una setta araba che pratica un culto che origina nell’Islam.
Hezbollah, che ha negato la responsabilità di Shukr, ha parlato di un errore. Ma la risposta di Israele l’ha spinta ad annunciare una sua risposta, definita “vedetta”, che avrebbe accompagnato ma non fatto parte della guerra di attrito cominciata a ottobre come “sostegno” ai palestinesi.
Ma ieri sera, in un discorso televisivo serale, il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, al termine di un rocambolesco tentativo di presentare l’azione come un successo, ha detto due cose: l’aver preso tempo è stato un vantaggio per la resistenza, perché ha stressato il nemico, e poi ha aggiunto che se i risultati militari conseguiti saranno giudicati positivi la vendetta si concluderebbe qui.
Dunque le altre due fasi sono scomparse, e sebbene il premier israeliano Benjamin Netanyahu abbia detto che invece per lui non finisce qui, fonti diplomatiche informate citate dalla stampa israeliana dicono che la questione è chiusa per entrambi.
Ma bisogna capire perché, contraddicendosi, Nasrallah abbia detto anche di aver aspettato fino ad oggi per dare tempo al negoziato per il cessate il fuoco a Gaza di produrre un risultato positivo: con le nuove richieste avanzate da Israele, ha aggiunto, è diventato chiaro che non ci sarà accordo e quindi lui ha deciso di agire. Ma non aveva aspettato per stressare il nemico?
Questo in realtà appare il punto vero. Lo stress c’è. E inoltre, come Hezbollah, anche l’Iran deve ancora compiere la sua annunciata “vendetta”, per l’assassinio dell’allora capo di Hamas, Ismail Hanyeh, ucciso mentre era in visita ufficiale a Teheran, il 31 luglio scorso.
Ma sebbene ogni giorno qualcuno ribadisca che la vendetta di Teheran è imminente, qualcun altro fa presente anche che bisogna dare tempo al negoziato, attendere. Siamo alla valutazione fondamentale, quella sulle priorità.
I calcoli dell’Iran
L’Iran e suoi alleati, il cosiddetto “asse della resistenza” - che unisce a Hezbollah altri gruppi miliziani potentissimi in Siria, Iraq e Yemen - sanno che davanti a un’opinione pubblica alla quale si presentano da sempre come indefettibili nemici di Stati Uniti e Israele, avversari giurati di ogni compromesso, i signori della forza, lavare l’onta di due operazioni così efficaci e rilevanti è importante. Ma le conseguenze della difesa dell’onore non può andare a discapito dei propri interessi.
Nemici giurati di Stati Uniti e Israele lo sono davvero, ma la guerra che devono combattere si gioca conquistando i cuori e le menti di libanesi, siriani, iracheni, yemeniti, conquistandone anche i governi. Così espandono la propria sfera di influenza: fanno diventare quei paesi quel che l’Europa dell’Est è stata per l’Unione Sovietica.
Il costo economico di questa impresa però è stato ed è altissimo, non si può rischiare anche un’escalation militare contro un nemico troppo forte. Ecco che prendere la bandiera della causa palestinese dalle mani dei palestinesi è decisivo, per la popolarità della causa palestinese in tutto il mondo arabo, ma senza rischiare troppo in prima persona.
L’Iran e i suoi alleati miliziani puntano a usare e aggravare la questione palestinese per conquistare consenso.
Quando, tanti anni fa, il compromesso tra israeliani e palestinesi era possibile, loro hanno contribuito in modo rilevante a farlo saltare con la stagione degli attentatori suicidi. Altro di gravissimo è accaduto da allora e gli ultimi anni hanno visto ampi settori dell'opinione pubbliche interessate, non solo in Iran, allontanarsi da questa retorica, e denunciare il tentativo di imporre un sistema totalitario - e domani forse teocratico - in Libano, Siria, Iraq e Yemen, con la scusa della “resistenza”.
Per questo hanno ragione i media israeliani a rilanciare da ieri sera le infinite vignette pubblicate sui social media arabi in Libano, Siria e Iraq che irridono la grande operazione di Hezbollah, che ha danneggiato soltanto un allevamento di polli.
“Le vostre bombe hanno spennato un pollo”, hanno scritto in tantissimi, e uno ha pubblicato il manifesto del Nasrallah Fried Chicken, una revisione della nota pubblicità del Kentucky Fried Chicken. Non è umorismo, è la battaglia social contro l’egemonia totalitaria, costruita sul mito della forza.
Questo darà fastidio all’establishment iraniano, ma gli strateghi di Teheran sanno che per loro è preferibile una presidenza di Kamala Harris a quella di Donald Trump.
La linea della massima pressione scelta da Trump durante il suo mandato non ha dato frutti, anzi: l’Iran ha retto, ha stretto nuove relazioni con Cina, Russia, è entrato nei BRICS e soprattutto ha fatto ulteriori progressi verso la realizzazione della sua bomba atomica.
Il prezzo però è enorme: la popolazione è economicamente alle corde, l’inflazione galoppa, il dissenso è ormai opposizione aperta. Ma è evidente che se Trump non fosse uscito dall’accordo sul nucleare firmato da Barack Obama con l’Iran, oggi Teheran non sarebbe a un passo dalla bomba. Una realizzazione che la Harris potrebbe chiedergli di non compiere tornando a quell’accordo e alleviando le sanzioni.
Rinunciare a ciò che tecnologicamente si è acquisito è possibile, è la strada che aveva tentato l’amministrazione Biden. Accendere le polveri di un conflitto regionale invece aiuterebbe Trump, considerato ancora fautore della linea della massima pressione contro Teheran. Non per caso Trump è il candidato su cui scommette il premier israeliano Netanyahu.
Un fallimento dell’iniziativa negoziale su Gaza, per raggiungere il cessate il fuoco, sarebbe un colpo per i Democratici, non per certo per Trump. Ma anche Netanyahu, con il nuovo quadro determinato dal cambio di cavallo in casa Democratica, non può essere più certo che Trump vinca. E quindi far fallire apertamente il cessate il fuoco su Gaza, così fortemente perseguito dalla Casa Bianca Democratica, potrebbe mettere a rischio i rapporti di Netanyahu con la futura amministrazione americana, non solo con quella uscente. Per questo all’ora in cui chiudo questo articolo non mi sorprende l’idea che si profili un nuovo rinvio.
Come cessare il fuoco a Gaza
Di questo cessate il fuoco suggerito dal presidente americano Joe Biden su proposta israeliana, e in tre fasi, si parla dal 31 maggio scorso, ma negli ultimi giorni Netanyahu ha presentato delle richieste che lo snaturano. Doveva prevedere un progressivo rilascio degli ostaggi, per arrivare al cessate il fuoco permanente e quindi alla ricostruzione di Gaza, la terza fase. Ma dall’inizio prevedeva il completo ritiro israeliano da Gaza.
Dopo lunghe negoziazioni indirette tra le parti, il 2 luglio si era trovata un’intesa di massima, da definire nei protocolli operativi. Ma per evitare la crisi del suo governo, Netanyahu ha trasformato il punto decisivo per Hamas: non più ritiro completo da Gaza, come previsto dal piano illustrato il 31 maggio scorso dal presidente americano forte dell’aver ricevuto la proposta da Israele - ma permanenza dell’esercito israeliano all’incrocio di Netzarim, nel cuore di Gaza, per sorvegliare che chi rientrasse dal sud di Gaza, dove la popolazione è stata sfollata, nel nord di Gaza, non porti armi.
E anche permanenza militare nel corridoio Philadelphia, la sottile striscia di terra a cavallo del confine tra Gaza ed Egitto dove ha luogo da sempre contrabbando d’armi di ogni tipo. Gli occhi di tutti sono soprattutto sul corridoio Philadelphia, esigenza divenuta imprescindibile per Netanyahu.
Il capo dell’opposizione israeliana, Yair Lapid, ex premier di Israele, ha fatto notare che i soldati israeliani vi sono giunti solo a maggio, cioè dopo otto mesi di guerra. Il corridoio è importante, ha detto, ma la liberazione degli ostaggi lo è di più.
La presenza militare in un corridoio definito smilitarizzato dagli accordi di pace tra Egitto e Israele pone un problema anche all’Egitto.
La via d’uscita a cui lavorano gli americani è di dispiegarvi un contingente dell’ONU, con un ritiro israeliano subito significativo e poi completo.
Gli americani stanno cercando un nuovo compromesso, con l’aiuto dei co-mediatori - Qatar ed Egitto - e si è parlato di qualche passo avanti. Ma far quadrare il cerchio è difficilissimo, perché se accadesse i ministri dell’estrema destra israeliana probabilmente metterebbero in crisi in governo.
Per questo il rientro in patria dei negoziatori per consultazioni con i leader politici se viene presentato come prodotto di un progresso non è detto che lo sia veramente.
Infatti se Hamas non apre, non si può dire neanche che chiuda. E se Tehran, spazientita, attaccasse? Rischierebbe di fare un favore a Trump, scrivono alcuni dallo stesso Libano. E forse coglie il punto. Forse, perché il Medio Oriente sorprende sempre.
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