Influencer Politics
Sempre più personalità social si occupano di politica. Ma la piattaforma prevale sulle idee e impone polarizzazione, così ci sono poche differenze tra i post di Trump e quelli di Carlotta Vagnoli.
Nell’epoca della influencer politics ribellarsi alla semplificazione autoritaria e anti-democratica favorita dalle piattaforme é il primo e necessario atto di disobbedienza civile
Da un po’ di tempo osservo con interesse la nascita di quella che potremmo chiamare “influencer politics”, nel senso dell’ascesa di alcune personalità social che si occupano non dei temi classici degli influencer ma di questioni politiche.
O meglio, di un preciso sottinsieme di questioni politiche che evidentemente sono funzionali a certe dinamiche di engagement e dunque premiate dall’algoritmo: salute mentale, Gaza, questioni di genere.
In gran parte si tratta di giovani donne, una emergente categoria di intellettuali pubbliche che raccoglie o prova a raccogliere l’eredità di Michela Murgia. Con la differenza che Murgia aveva una sua base intellettuale, culturale e politica fuori dai social, che usava - con una certa consapevolezza - come strumento di diffusione e di azione politica, senza esserne (o almeno cercando di non esserne) usata.
Ma ci sono anche giornalisti che hanno sempre usato stili e toni diversi - penso a Pablo Trincia - che sui social adottano un linguaggio e forme comunicative specifiche, collassate sullo slogan e il mero posizionamento.
Un caso con conseguenze rilevanti è quello di Lorenzo Tosa, che dopo un attacco in puro stile influencer politics a un ambasciatore con antiche militanze di estrema destra si è trovato condannato a pagare 50.000 euro di risarcimento dopo una querela.
Come tutte le cause civili contro i giornalisti anche questa è sproporzionata e intimidatoria, ma il punto da notare è che stata la reazione non a una inchiesta o pubblicazione di notizia, ma a una presa di posizione, al lancio di una petizione su Change.org contro l’ambasciatore.
Questa nuova influencer politics a me pare la degenerazione ultima del dibattito politico, la sottomissione inconsapevole alle logiche delle piattaforme.
L’uso di questioni serie e complesse per cementare le pareti di una camera dell’eco nella quale non c’è alcuna elaborazione, discussione, e neppure alcuna azione.
Basta un clic
C’è soltanto posizionamento individuale, la trasformazione del conflitto politico in una dei suoi equivalenti social - dissing, shitstorm o altro - con il risultato che quel conflitto a parole evocato, difeso, celebrato, viene in realtà frainteso, neutralizzato, reso innocuo.
Ho osservato per mesi questo fenomeno, che ha avuto alcuni picchi significativi con campagne come #alleyseonrafah, tutti gli occhi su Rafah, città nella striscia di Gaza: un hashtag e una iniziativa che già di per sé meriterebbe analisi approfondite per l’intrinseca assurdità, o meglio, per la straordinaria efficacia nel trasformare politica e geopolitica in mero gesto.
La condivisione di una immagine, peraltro probabilmente creata con l’intelligenza artificiale, dunque priva di ogni connessione con la realtà sulla quale invitava a vigilare.
Nessuno di quelli che si sentiva chiamato a condividere l’hashtag era in condizione di fare quello che dichiarava, cioè avere occhi su Rafah. Perché sapere cosa succede a Rafah o Gaza è difficile, ci vogliono giornalisti, operatori delle ong, diplomatici, persone che hanno contatti, che sanno valutare le fonti, aggregare le informazioni, contestualizzarle.
Cosa sia poi successo a Rafah, infatti, non lo sappiamo esattamente.
L’influencer politics di e #alleyseonRafah era semplicemente un posizionamento, un segnale alla propria comunità di essere sensibili a Gaza, e gli occhi in realtà erano soltanto sui profili di altri utenti per monitorare se condividevano o meno l’hashtag e i relativi post.
Se non lo facevano, diventava legittimo additarli alla propria community come complici del genocidio del popolo palestinese.
Ed ecco che una guerra vera e una tragedia concreta veniva mimata, filtrata, specchiata in un conflitto ombelicale tra utenti o influencer che si schieravano come se fossero davvero palestinesi o israeliani, vittime e assassini, terroristi e genocidi. Ma sono semplicemente italiane e italiani che fanno un clic sullo smartphone in metropolitana o sull’autobus.
Le conseguenze della influencer politics
Questa influencer politics può sembrare innocua. Poiché riduce il conflitto politico alla sua dimensione performativa, lo rende per definizione privo di conseguenze concrete. Tutto sommato, chissenefrega se qualche opinion maker della GenZ polarizza la sua comunità su Israele e Palestina invece che sui concorrenti di X-Factor o per denunciare un trend di TikTok di dubbio gusto.
Dopo la vittoria del ticket Donald Trump - Elon Musk mi sono reso conto però che le conseguenze dell’ascesa dell’influencer politics possono essere invece catastrofiche. Perché il risultato della trasformazione del conflitto politico in hashtag e risse social finisce per generare fenomeni come, appunto, Trump e Musk.
Siamo così abituati alla dimensione della violenza social da dimenticare che esiste una violenza reale, o quantomeno un conflitto reale, che ha delle sue dinamiche, delle sue regole, ma anche delle sue prospettive di ricomposizione.
Si fanno gli scioperi generali per arrivare alle trattative; i gruppi terroristici possono essere sconfitti per via militare o, più spesso, perché si interviene sul contesto sociale che li ha generati; la pace si raggiunge per le vie più diverse, più o meno sanguinarie, attraverso vittorie, sconfitte, deterrenza nucleare o alleanze.
Sui social no, il conflitto nella influencer politics non ha premesse e non ha sbocchi, è fine a sé stesso, o meglio è fine a garantire il posizionamento dell’attore su uno dei due fronti e a generare engagement, polemiche, riprese, contestazioni, nuovi follower, visibilità su media tradizionali che servono a garantire legittimità e dunque a rafforzare posizionamento, engagement e seguito social.
Questa è la dinamica che ha prodotto Donald Trump e che Elon Musk ha esasperato, con la trasformazione di Twitter in X, cioè di una piattaforma specializzata nel dibattito politico-giornalistico in una versione digitale di FoxNews, uno strumento di propaganda che si fonda sul continuo aizzare le masse contro i nemici.
Anche quelli che si indignano e protestano diventano utili idioti arruolati alla causa, perché diffondono il messaggio e aumentano la rilevanza di chi lo ha lanciato in origine.
Il problema dell’influencer politics, voglio però essere chiaro, non deriva dal contenuto, ma dalla modalità di comunicazione che prevale sul contenuto (non sono certo il primo a concludere che il mezzo è il messaggio).
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