Il revisionismo di Trump preso sul serio
Il presidente Repubblicano punta il Canada e la Groenlandia, provoca tensioni con Messico e Sud America: non deliri di un pazzo, ma una reazione al declino relativo degli Usa
Messi in difficoltà dal loro declino relativo, gli Stati Uniti sono sempre meno convinti di essere avvantaggiati dallo status quo, e quindi glissano sempre più, anche loro, verso un comportamento «revisionista». come quello della Cina
Manlio Graziano
Prima ancora di entrare ufficialmente in carica, Donald Trump ha già fatto la sua prima vittima sul palcoscenico internazionale: Justin Trudeau.
Vero è che si trattava di un bersaglio facile: il primo ministro canadese era già indebolito da alcuni scandali e da alcune controverse decisioni di politica interna ed estera, dall’uscita dalla maggioranza parlamentare del New Democratic Party, guidato da Jagmeet Singh, all’inizio di settembre e, soprattutto, dalle dimissioni della vice-primo ministro e ministro del Tesoro, Chrystia Freeland il 16 dicembre scorso.
Entrambe queste due ultime decisioni sono state influenzate da considerazioni di politica internazionale.
Dietro la caduta di Trudeau
Nel settembre 2023, Trudeau aveva accusato il governo indiano di essere implicato dell’assassinio, sul suolo canadese, del leader indipendentista sikh Hardeep Singh Nijjar, considerato «terrorista» da New Delhi.
La comunità sikh rappresenta il 2 per cento della popolazione canadese e, al suo interno, prospera il movimento per l’indipendenza del Khalistan, la storica regione a cavallo tra Punjab, Haryana, Himachal Pradesh, Kashmir e Rajaspthan, governata dai sikh fino all’arrivo degli inglesi in India. Violentemente attaccato da New Delhi, Trudeau aveva preso le distanze dal movimento del Khalistan, accelerando l’uscita di Jagmmet Singh dalla maggioranza.
Le dimissioni di Chrystia Freeland sono invece direttamente legate all’atteggiamento minaccioso di Donald Trump, e in particolare alla reazione di Trudeau, giudicata troppo timida dal suo ministro del Tesoro.
Com’è noto, già a fine novembre il presidente eletto aveva promesso una tariffa doganale aggiuntiva del 25 per cento su tutte le importazioni dal paese (minaccia estesa a Messico e Cina); subito dopo, ha cominciato a parlare del Canada come cinquantunesimo Stato degli Stati Uniti d’America, prima su un tono apparentemente faceto, poi in modo sempre più serio e insistente.
Simultaneamente, la minaccia di annessione è stata rivolta alla zona del Canale di Panama e alla Groenlandia: annessione pacifica, se possibile, militare, se la richiesta non dovesse essere graziosamente accolta.
Molti hanno fatto notare che le intenzioni, il linguaggio e le motivazioni del non ancora presidente americano sono gli stessi di Xi Jinping a proposito di Taiwan e di Vladimir Putin a proposito dell’Ucraina.
Nessuno pensa seriamente che le conseguenze possano essere le stesse perché, si motiva, gli Stati Uniti sono gli Stati Uniti, dove esiste un sistema di checks and balances, e dove di conseguenza il presidente non ha la stessa latitudine di potere dei leader di paesi autoritari come la Cina e la Russia.
Si potrebbe aggiungere, come elemento distintivo, che gli Stati Uniti sono una potenza dello status quo, mentre Cina e Russia sono potenze «revisioniste».
Nel gergo della politica internazionale, si dice potenza «dello status quo» quella che vorrebbe conservare gli equilibri politici esistenti, evidentemente perché l’avvantaggiano; e si dice potenza «revisionista» quella che li vorrebbe far saltare, perché la penalizzano.
Il problema è che, messi in difficoltà dal loro declino relativo, gli Stati Uniti sono sempre meno convinti di essere avvantaggiati dallo status quo, e quindi glissano sempre più, anche loro, verso un comportamento «revisionista». Gli stessi cinesi lo hanno fatto notare: «Gli Stati Uniti – diceva, nel giugno 2022, il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi – sono la principale fonte di sconvolgimento dell’attuale ordine mondiale».
Lo status quo incerto
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