Il grande gioco siriano
Intorno alla caduta del regime di Assad si incrociano le ambizioni della Turchia, gli errori della Russia, le fragilità dell’Iran e i calcoli di Israele
Se Teheran ha sicuramente perso, se Mosca ha sicuramente perso, Ankara ha forse vinto? Non c’è dubbio che la Turchia abbia vinto una battaglia; ma la guerra? Per la Siria si apre una fase in cui tutte le forze si rimettono in movimento
Manlio Graziano
In una lettera a Engels nell’aprile del 1863, Marx scriveva: «Venti anni contano un giorno nei grandi sviluppi storici, ma vi possono essere giorni che concentrano in sé venti anni». L’evoluzione convulsa della crisi politica internazionale sembra indicare che siamo arrivati alle soglie di quelle epoche tumultuose in cui i giorni concentrano in sé vent’anni.
La caduta di Bashar al Assad in Siria ha seguito quel copione quasi alla lettera: in pochi giorni, gli insorti hanno liquidato un regime che si era mantenuto al potere tredici anni schiacciando nel sangue l’anelito alla democrazia del 2011.
In pochi giorni, si è dissolta la dinastia degli Assad – il padre, Hafez, e il figlio, Bashar – al potere da cinquantatré anni. Tutto scorre, ma oggi tutto scorre molto rapidamente, e il disordine mondiale si fa ogni giorno più disordinato.
Gli specialisti si interrogano su cosa sia successo e cosa potrebbe succedere ora.
L’indebolimento simultaneo della Russia, dell’Iran e degli Hezbollah ha aperto una fantastica finestra di opportunità per tutti coloro che avevano vanamente tentato di opporsi ad Assad negli ultimi tredici anni.
Non soltanto gli oppositori interni – islamisti, curdi e i sopravvissuti dell’opposizione laica del cosiddetto Esercito nazionale siriano – ma anche quelli esterni.
In particolare la Turchia, il padrino politico della principale forza di opposizione, Hayat Tahrir al-Sham, un gruppo di ex-tagliagole legati ad al Qaida fino al 2016.
Storicamente, la Turchia ha un occhio sulla Siria, sua vecchia provincia dagli albori del XVI secolo fino al 1918. Dalla fondazione della repubblica, nel 1922, l’interesse era scemato perché l’obiettivo prioritario di Mustafa Kemal, detto Atatürk, era di inventare la «nazione turca» e di consolidarla, sottolineandone l’alterità rispetto ai vicini persiani e soprattutto ai disprezzati vicini arabi.
La Siria degli Assad, al contrario, non ha mai rinunciato a pungolare la Turchia: non solo per dorare la propria immagine di leader del nazionalismo arabo, ma anche per tentare di recuperare Alessandretta (oggi Iskenderun), una provincia «regalata» dai francesi ai turchi nel 1939 (quando Parigi occupava la Siria) per cercare di garantire almeno la neutralità di Ankara nell’ormai imminente guerra.
Per riuscirvi, Damasco ha fatto della propria minoranza curda il retroterra delle operazioni di guerriglia dei curdi di Turchia contro il governo di Ankara.
Tra alti e bassi – tra cui la minaccia turca di «chiudere i rubinetti» dell’Eufrate con un sistema di dighe – la «carta curda» ha continuato a essere il principale strumento della contesa tra i due paesi.
La strategia di Erdoğan
All’inizio della rivolta del 2011, la Turchia era il modello degli insorti: un Paese musulmano, democratico e in rapido sviluppo economico. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan si sarebbe accontentato di quel ruolo e, d’altra parte, quella carta si stava svalutando in seguito alle trattative con i curdi di casa propria per una soluzione politica del conflitto.
Continua a leggere con una prova gratuita di 7 giorni
Iscriviti a Appunti - di Stefano Feltri per continuare a leggere questo post e ottenere 7 giorni di accesso gratuito agli archivi completi dei post.