Il giornalismo e la generazione post-edicole
A Treviso devo spiegare i giornali a ragazze e ragazzi che non li hanno mai letti e dunque non ne conoscono le logiche. E che all'informazione chiedono cose molto diverse rispetto ai loro genitori
Come si fa a spiegare i giornali a chi non li ha mai letti? Mi sono trovato con questa missione impossibile, parlare di giornalismo e informazione a un gruppo di liceali di Treviso che sono nati e cresciuti dopo che i quotidiani italiani avevano iniziato a fare errori su Internet.
A spanne, direi che quelle ragazze e quei ragazzi sono nati quando Repubblica.it già aveva la sua colonna infame di gattini, gossip, e stranezze varie dal mondo. Il genere di contenuti che portavano click nell’immediato e distruggevano la reputazione nel medio periodo.
Il giornalismo e l’informazione, per questa generazione post-edicole, è un’astrazione, mentre per quelle precedenti è stata un prodotto da comprare, addirittura ogni giorno, o comunque da fruire con regolarità.
Una volta dovevi aspettare una settimana per vedere Michele Santoro in televisione, su Rai2, oggi i frammenti di Belve di Francesca Fagnani sono ovunque sul web, accessibili in qualunque momento in modo consapevole (su RaiPlay) o inconsapevole, con qualche selezione “Per te” di Instagram, TikTok o Twitter.
Se il giornalismo e l’informazione non sono più prodotti, cosa sono adesso per chi non si è formato nel “mondo di ieri”?
Il sistema
Mi verrebbe da riassumere che sono una specie di rumore di fondo. Per essere un po’ più ottimisti, sono proteine nella biologia dei contenuti digitali: servono e rafforzano qualunque produzione successiva, ma di rado vivono di vita propria.
I giornali, le televisioni, e perfino Appunti – sulla base di una percezione non statistica – hanno risorse economiche grazie ai lettori più anziani e consapevoli, quelli cresciuti con una chiara percezione che l’informazione e il giornalismo hanno bisogno di soldi per funzionare. E che quei soldi sono ben spesi se il media di riferimento fa qualcosa di utile, che vuol dire indagare, scoprire, spiegare, oppure anche soltanto diffondere punti di vista che rispecchiano il sistema di valori e di priorità del pubblico (pagante) della pubblicazione.
Questa idea dei media è però molto lontana da chi ha conosciuto i giornali soprattutto attraverso quella loro degenerazione che sono stati per anni i siti gratuiti, senza paywall, dove le news e i commenti servivano a dare una patina di rispettabilità a contenuti assai poco giornalistici, utili giusto a ottenere clic e qualche centesimo di raccolta pubblicitaria.
A leggere i commenti sui social, sembra che il pubblico più giovane provi un misto di soggezione e disgusto verso le testate tradizionali e attribuisca loro un peso che in realtà non hanno più, come se fossero in grado di plasmare la realtà attraverso il racconto e come se si rivolgessero a masse inerti che non hanno alcun spirito critico e quindi adattano le proprie opinioni e convinzioni a quello che Repubblica, Corriere o la Rai scrivono o mostrano.
Per la generazione post-edicole, i media sono genericamente parte del sistema pubblico di istituzioni, forze impersonali che intervengono dall’alto e che rappresentano una qualche forma di potere.
Questa serie di fraintendimenti sulla reale pervasività dei giornali genera reazioni emotive completamente sproporzionate rispetto all’impatto del singolo articolo che desta scandalo.
Un esempio recente: certi commenti omofobi sul Foglio nelle pagine sportive erano sicuramente esecrabili, ma non proprio dirette a un pubblico di massa (tanto che neppure il direttore le aveva lette) e dunque prive di qualunque capacità di condizionare il discorso pubblico.
Eppure hanno prodotto una reazione social come se fosse un fatto di primaria grandezza e non una caduta di stile che al massimo sarà passata sotto gli occhi a mille-duemila persone.
Questo, credo, perché la generazione post-edicole attribuisce al pubblico complessivo la loro stessa sensibilità. Mentre invece un lettore dell’Unità o di Repubblica d'una volta non si sarebbe mai sentito “triggerato” da un titolo del Giornale o di Libero, anzi, avrebbe trovato rassicurante conferma di trovarsi dalla parte giusta della barricata. Tutto qui.
L’articolo del Foglio, insomma, non avrebbe creato alcuna increspatura nella generazione dei lettori di giornali a cui era diretto: qualche decina o centinaio di lettori del giornale avrebbe alzato forse un sopracciglio o sogghignato, il resto del mondo non se ne sarebbe mai accorto.
Negli anni del berlusconismo, che io ho vissuto in gran parte già da giornalista, le battaglie per la libertà di informazione riguardavano le notizie tenute nascoste dai pochi media – in particolare televisivi – a larga diffusione, non i toni del racconto, le desinenze, il rispetto dell’equilibrio di genere o di identità diverse all’interno di un dibattito o di un programma.
Non ricordo una polemica social recente innescata dalla percezione che qualche grande scandalo è stato tenuto nascosto.
Anzi, di solito gli utenti che contestano qualcosa ai giornalisti hanno imparato a farlo citando delle fonti, magari prive di qualunque credibilità o rilevanza, ma c’è sempre un link, un numero, un video.
Perché la generazione post-edicole considera l’informazione qualcosa di auto-generato, nel quale bisogna orientarsi: considera il lavoro dei giornalisti o comunque dei comunicatori quello di gestire, selezionare, ma non di produrre. D’altra parte, perché aggiungere altra entropia a un sistema che già ne sopporta troppa?
Rimasticare e riprodurre
Quello che le ragazze e i ragazzi non hanno ben chiaro è che anche i giornali si sono adeguati da tempo a fare – male – questo lavoro di selezione.
Finiti i soldi per pagare lunghe inchieste, reportage, sedi di corrispondenza all’estero o trasferte nell’immediatezza di grandi eventi, anche le redazioni dei giornali si dedicano per gran parte della giornata a leggere e ordinare contenuti già prodotti da qualcun altro. Che vengono riassunti, commentati, copiati, spiegati, ma sempre con uno sforzo di secondo livello.
Talvolta questo processo viene mascherato – con grande dispendio di energie – nel tentativo di convincere il lettore che le informazioni sono di prima mano: alcuni grandi giornali mantengono corrispondenti che nella stragrande maggioranza degli articoli riassumono e citano la stampa locale, o mandano inviati anche in situazioni difficili – tipo Gaza – per poi chiedere loro di scrivere pezzi brevi con dentro le informazioni principali della giornata, lette sulle agenzie.
Quello che conta è che il pezzo venga “datato” nel modo giusto, cioè che certifichi la presenza sul posto del giornalista.
Ovviamente ogni regola ha le sue eccezioni. Per quanto riguarda il giornalismo di guerra, per esempio, vale la pena citare Daniele Raineri, a lungo al Foglio e da qualche anno a Repubblica: se leggete i suoi articoli, troverete di rado quegli accenni impressionistici che non aggiungono nulla alla comprensione ma servono solo a ricordare al lettore “hey, io sono qui sotto le bombe”.
I pezzi migliori di Raineri sono quasi soltanto di analisi, si capisce che lui ha parlato con molte persone, ha letto, ha viaggiato, ma lo ha fatto allo scopo di capire quello che succede in zone confuse come l’Ucraina o il Medio Oriente, per interpretare gli eventi nel modo giusto.
E non per segnalare al lettore quanto è vicino a esplosioni e stragi (mentre molti servizi televisivi sono costruiti a questo esclusivo scopo, se ascoltate attentamente quello che dice l’inviato vi renderete conto che sono soltanto ovvietà, ma voi non le sentite perché siete ipnotizzati dal giubbotto antiproiettile con scritto PRESS e dall’elmetto).
Raccontare di nuovo
Anche Pablo Trincia è un altro che ha trovato il modo di fare un giornalismo di prima mano compatibile con la visione del mondo della generazione post-edicole: prende storie ampiamente note, su cui tutto è stato scritto e detto.
E poi, invece di mettersi a ripeterlo, ruminarlo e riassumerlo, riparte da zero: parla con i protagonisti, va sul posto, intervista, ascolta.
Gran parte di questo lavoro, quasi tutto, consente di riacquisire informazioni già disponibili, ma c’è sempre quel dieci per cento di imponderabile o di colpo di fortuna riservato a chi ci prova, che poi fa la differenza.
Nel podcast Veleno è il ritrovamento delle videocassette con le registrazioni degli interrogatori nei quali ai bambini modenesi vengono suggerite le risposte per provare l’esistenza di una setta di pedofili satanisti.
In Dove nessuno guarda è la scoperta di una prima violenza commessa da Danilo Restivo – molti anni prima dell’omicidio di Elisa Claps – mai approfondita.
Pablo Trincia ha scelto la forma del podcast perché è quella che permette di valorizzare al meglio questa differenza rispetto al giornalismo di seconda mano, l’uso degli effetti audio rende l’ascoltatore consapevole in ogni momento del lavoro che richiede ricostruire una storia.
All’estremo opposto dello spettro c’è un altro autore di podcast di successo, Stefano Nazzi, che con Indagini del Post fa il contrario di Trincia: prende casi di cronaca nera molto noti – anche lui si è occupato Elisa Claps, e potete fare il confronto – e semplicemente li racconta di nuovo.
Non c’è molto lavoro originale se non nella sintesi, gli audio sono presi spesso da altri documentari, quando c’è da spiegare qualche tecnicismo Nazzi usa le voci dei giornalisti del Post, non quelle dei protagonisti delle vicende. O quelle di altri giornalisti che hanno già scritto le cose che raccontano in libri nei quali a loro volta commentavano il racconto fatto dai media di certi casi di cronaca…
Eppure anche Nazzi piace alla generazione post-edicole. Così come il Post è forse la realtà editoriale di maggiore successo degli anni post-pandemia anche se non ha mai cambiato la sua natura di giornale centrato sull’explanatory journalism (perfino la sua collana di libri si chiama Cose spiegate bene).
La generazione post-edicole, infatti, non ha più alcuna consapevolezza del meccanismo di produzione dei contenuti, della catena di montaggio necessaria che garantisce approfondimento e verifiche, ma che ha anche alcune falle che spiegano gli errori (per esempio: i giornali a un certo momento vanno in stampa, e le notizie successive alla “chiusura” non vengono riportate, i siti di news hanno lavoratori su turni, di notte o nei festivi ci sono poche persone che devono “coprire” anche argomenti dei quali non sanno nulla…).
Se non sai distinguere un contenuto originale da uno intermediato, rielaborato, rimasticato, o soltanto copiato, allora l’unica cosa che conta è la modalità di presentazione.
La chiarezza espositiva che l’informazione social ha spinto a un estremo così estremo che la rende indistinguibile dalla semplificazione.
Sui pochi giornali di qualità rimasti – penso all’Economist, al Financial Times, al New York Times – la visualizzazione dei dati è parte integrante del valore giornalistico, forse una delle parti a maggiore valore aggiunto.
Ma le tante pagine di informazione social italiane – dal capostipite Will in giù – spesso si limitano a riprodurre tabelle esistenti ricolorate con la “palette” caratteristica della pubblicazione e aggiungere una didascalia.
Questo questo lavoro – pur dispendioso in termini di professionalità coinvolte e tempo dedicato – non aggiunge davvero molto, semplicemente espone un pubblico poco consapevole a un’illusione di informazione, senza dare strumenti per andare oltre una frettolosa occhiata. E’ un po’ come leggere un titolo e pensare che non sia rilevante leggere anche l’articolo. Questa regola funziona soltanto se l’articolo è di pessima qualità, ma non si può generalizzare.
La fine degli scoop
La progressiva sostituzione della generazione che per semplificare chiamerò dei “boomer” con quella post-edicole ha segnato anche la fine dello scoop: una volta, non molto tempo fa, la pubblicazione di notizie di inchiesta esclusive era caratterizzante di un giornale, permetteva di aumentare le vendite, il prestigio. Oggi non è più così.
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