Il destino dell'Ucraina (e quello dell'Ue)
Al Consiglio europeo della prossima settimana i governi nazionali devono decidere se e come procedere all'allargamento. E il problema non è soltanto l'opposizione di Orban
L’Ue sembra non avere altra scelta che assumere un maggiore ruolo geopolitico, come si dice oggi, così come è stata costretta a una integrazione prima impensabile sul piano finanziario quando la crisi dell’euro del 2011-2012 ha imposto scelte nette su debiti sovrani e banche.
La battaglia per il destino dell’Europa e per il suo posto nel mondo è cominciata. La cosa interessante è che si tratta di una battaglia di idee, di strategie, di scelte: la settimana prossima si riunisce il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo che dovrebbe pronunciarsi sull’avvio del processo di allargamento che potrebbe portare a includere – in un futuro non vicinissimo – molti nuovi paesi, tra i quali l’Ucraina.
Se il Consiglio respinge la proposta della Commissione, come segnale politico equivale ad abbandonare politicamente Kiev a Vladimir Putin e deludere il sogno europeo dei tanti ucraini che dieci anni fa hanno sfidato Mosca con le manifestazioni di piazza Maidan, a favore dell’accordo di associazione con la Ue (Putin ha reagito pochi mesi dopo con l’annessione illegale della Crimea, anticipo della guerra del 2022).
Se invece i capi di governo assecondano quello che ormai nel dibattito europeo è noto come “imperativo geopolitico” e avviano l’allargamento, le conseguenze possono essere altrettanto problematiche.
L’Unione potrebbe addirittura soccombere all’allargamento, diluirsi in una gigantesca area politica dai legami deboli e priva di strumenti per decidere e contare nel mondo, con un nucleo troppo piccolo (Francia, Germania, Italia) per indirizzare una massa di paesi e cittadini con esigenze molto diverse.
A complicare il dilemma c’è l’Ungheria. Il partito Fidesz, quello del presidente ungherese Viktor Orbàn, ha presentato in parlamento una risoluzione per impegnare il governo a opporsi all’adesione dell’Ucraina in Consiglio europeo.
Orban somma a un posizionamento filorusso fin dall’inizio della guerra un obiettivo negoziale: vuole i 27 miliardi di euro di fondi europei congelati dalla Commissione per violazioni dello stato di diritto, in particolare nella riforma della giustizia, uno degli strumenti dell’involuzione democratica del paese.
Quindi, se il Consiglio e la Commissione si piegano alle richieste di Orbàn potranno – forse – avviare in qualche forma il processo di allargamento dell’Ucraina, ma rinnegheranno quei valori che in teoria sono alla base dell’impegno a supporto di Kiev. Quali ideali esporta l’Ue, quelli di Bruxelles o quelli di Budapest?
D’altra parte, se le istituzioni respingono il ricatto di Orbàn, potrebbero scoprire di essere ostaggio dell’Ungheria e tradire le promesse fatte agli ucraini in guerra.
Per gestire questo genere di scelte epocali servirebbero leader nel pieno delle loro funzioni, mentre la presidente della Commissione Ursula von der Leyen è in campagna elettorale in cerca di rielezione, il presidente del Consiglio Charles Michel quasi a fine corsa, e il cancelliere tedesco Olaf Scholz inabissato in una crisi fiscale innescata da vincoli di bilancio troppo severi che la Germania si è auto-imposta.
L’Italia è scissa: la premier Giorgia Meloni ha sempre coltivato rapporti stretti con Orbàn per affinità ideologica, ma soltanto il sostegno alla causa ucraina le ha garantito una certa credibilità internazionale tra Washington e Bruxelles.
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