I simboli della democrazia
Ogni elezione importante ha bisogno dei suoi riti, come quello della presentazione dei simboli che saranno sulle schede. Uno studioso racconta il suo viaggio negli ingranaggi del sistema
In fila al Viminale c’è chi rimpiange di non avere trovato in bacheca il Partito della Follia creativa di Giuseppe Cirillo (già depositante di Impotenti esistenziali e Preservativi gratis). Si sono perse le tracce anche di Carlo Gustavo Giuliana, titolare del simbolo “Io non voto”
Gabriele Maestri
Buongiorno,
Spero abbiate passato un buon Primo Maggio, nonostante la pioggia. Se ieri non avete avuto modo di leggerlo, vi raccomando il pezzo che abbiamo pubblicato su Appunti a firma di Fabrizio Tesseri, che è un amico mio e di Appunti, è un importante dirigente pubblico, che qui racconta il senso del lavoro attraverso la storia della sua famiglia. Davvero un pezzo che merita una segnalazione aggiuntiva.
Mentre in questi giorni siamo tutti ipnotizzati dal generale Roberto Vannacci - del quale mi riprometto di scrivere a breve - la preparazione delle elezioni europee procede. L’inizio delle campagne elettorali è uno di quei momenti in cui la democrazia rivela la sua natura essenzialmente procedurale.
Sono i dettagli che permettono la competizione equa alla base del meccanismo rappresentativo che poi dà legittimità all’intero processo.
Gabriele Maestri è uno studioso di sistemi elettorali e partiti che ha fatto dei simboli delle liste un oggetto di ricerca e una passione.
Nei giorni scorsi, come a ogni elezione, ha osservato la democrazia nel suo sviluppo più concreto nei corridoi del ministero dell’Interno, dove partiti grandi e piccoli, liste improvvisate e aspiranti protagonisti, si sono messi in fila per registrare il proprio simbolo.
Ne è venuto fuori un racconto straordinario che non è certo soltanto colore, ma che attraverso il prisma dei simboli dei partiti ci permette di capire molte cose su come i vari soggetti interpretano la sfida elettorale che si sta aprendo.
Prima di lasciarvi al pezzo, ho chiesto a Gabriele di mandarmi una sua breve presentazione alla comunità di Appunti:
Gabriele Maestri, dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate, nonché in Scienze politiche, si occupa da anni di temi di diritto costituzionale e comparato, soprattutto di diritto dei partiti e delle elezioni.
La passione per i simboli dei partiti lo ha portato a scrivere due libri sul tema (I simboli della discordia nel 2012 e Per un pugno di simboli nel 2014), a curare dal 2012 il sito di riferimento per questa materia (www.isimbolidelladiscordia.it) e a dedicare al mondo delle elezioni altri due libri (M'imbuco a Sambuco! nel 2019, con Massimo Bosso, e Padani alle urne nel 2023).
Giornalista, quando non si occupa di politica adora ascoltare musica e suonare (tastiera e chitarra) e viaggiare nel tempo con le sigle tv.
Buona giornata e buona lettura,
Stefano
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Tutti i simboli della democrazia italiana
di Gabriele Maestri
Il cammino verso ogni elezione di livello nazionale si apre con il rito della presentazione dei contrassegni, cioè dei simboli destinati a distinguere le candidature sulle schede elettorali.
In vista del voto europeo dell’8 e del 9 giugno, personaggi politici di rilievo e illustri sconosciuti (tranne che per le persone appassionate fino al midollo) si sono avvicendati nei corridoi del piano terra del ministero dell’Interno dal 21 al 22 aprile, per depositare il fregio con cui ci si presenterà al corpo elettorale o si vorrebbe tanto poterlo fare, se solo ce ne fossero le condizioni.
Il tempo di rendere ufficiali le candidature arriva una decina di giorni più tardi, col suo carico di ambizioni, tensioni e scontri che di solito tiene banco a lungo; prima che le parti in gioco decidano chi metterà il suo nome e la propria faccia nella competizione, però, la legge chiede di indicare le insegne e i colori delle squadre, prevedendo controlli per evitare che chi voterà rischi di cadere in errore.
Di fatto è questo il momento più “democratico” e aperto del procedimento elettorale. Chiunque, volendo, può depositare il suo simbolo, anche se non intende partecipare alle elezioni, magari perché non riesce a raccogliere le firme: basta avere un soggetto collettivo da rappresentare, il tempo (e qualche soldo) per alcuni adempimenti burocratici e andare fino a Piazza del Viminale o mandarci una persona di fiducia.
Va respinta la tentazione di pensare che tutto ciò sia un’inutile perdita di tempo, visto che vi partecipa soprattutto chi non punta davvero a farsi votare, mentre le forze politiche “serie” potrebbero ottenere lo stesso risultato con meno sforzi inviando simbolo e documenti con una Pec.
I passaggi importanti, come le elezioni che riguardano l’intero territorio nazionale, hanno bisogno anche di riti visibili (e, in un certo senso, li meritano), per sottolineare il rilievo del momento: spetta ai partecipanti, ma soprattutto agli officianti – in questo caso, il personale del ministero dell’Interno – operare perché quei riti mantengano un grado soddisfacente di serietà.
Contenitori e contenuti per le europee
Le settimane che hanno preceduto il deposito dei contrassegni dimostrano a loro modo l’importanza di quel passaggio, potendo anzi dire molto sulle scelte compiute dalle forze politiche circa il modo di apparire e di presentarsi ufficialmente a coloro che voteranno alle elezioni europee.
L’elemento che caratterizza di più gli emblemi per le elezioni europee da trent’anni è la complicazione, frutto dell’applicazione congiunta di due meccanismi: l’esenzione dalla raccolta firme e la soglia di sbarramento.
Da un lato, il numero elevato di sottoscrizioni richiesto – almeno 30.000 in ognuna delle cinque circoscrizioni, ma in ogni regione ne servono almeno 3.000, un compito difficile in Valle d’Aosta e Molise – induce varie forze politiche ad aggregarsi ai partiti esonerati dalla raccolta delle firme grazie alla loro consistenza parlamentare (almeno un gruppo) o ai loro risultati elettorali (almeno un eletto col proprio simbolo).
Dall’altro lato, l’introduzione nel 2009 della soglia di sbarramento del 4 per cento (quando nel 2004 era bastato lo 0,73 per cento per ottenere un eletto) ha accresciuto l’esigenza di correre uniti per concentrare gli sforzi e sperare di raccogliere voti sufficienti per ottenere seggi o confermare gli europarlamentari uscenti.
Quest’anno il fenomeno della complicazione è ancora più accentuato: a metà febbraio, nel percorso di conversione in legge del “decreto elezioni 2024”, è spuntato un emendamento di Fratelli d’Italia, poi approvato in una diversa versione, che ha ridotto le ipotesi di esenzione dalla raccolta firme (quando, in sostanza, il cammino verso le elezioni stava per essere avviato).
Nel 2014 l’Ufficio elettorale presso la Corte di cassazione decise che la lista di un partito italiano aderente a un partito europeo presente al Parlamento europeo non avrebbe avuto bisogno di dimostrare la sua serietà raccogliendo firme.
Ora si esige che la forza politica legata al partito europeo abbia eletto almeno un europarlamentare in Italia cinque anni prima (superando il 4 per cento): per i partiti privi di presenza adeguata nel Parlamento italiano, l’unica alternativa alla raccolta firme (compito gravoso in poco tempo, benché stavolta le sottoscrizioni necessarie siano state dimezzate) è inserire propri candidati in liste esistenti.
Del frutto più evidente della combinazione di esenzioni e sbarramento, la lista Libertà che non necessita di firme grazie ai due parlamentari eletti nel 2022 da Sud chiama Nord di Cateno De Luca, hanno parlato tutti i media.
De Luca è stato abile nel creare la notizia e l’attesa delle sue evoluzioni, grazie a un simbolo “a riempimento progressivo” che ha accolto un numero sempre maggiore di loghi (di realtà esistenti o di nuove formazioni), perdendo e recuperando pezzi, sempre con l’intento di tenere insieme forze “contro il sistema”.
Il risultato è un contrassegno affollatissimo, con venti loghi all’interno (inclusi quelli relativi a una sola persona, come “Capitano Ultimo”: già, perché anche la candidatura di Sergio De Caprio e il suo abbandonare la maschera di copertura rappresentano un simbolo): sulla scheda i simbolini sono quasi illeggibili, ma così a tutti è stata data visibilità (e, se riuscirà il colpaccio di superare la soglia, i benefici saranno ben superiori).
De Luca ha aperto una via: se il suo è il contrassegno più affollato di sempre, non sono da meno quelli dei due contenitori elettorali che, tra polemiche e stoccate reciproche, finiscono per contendersi i voti dell’area liberaldemocratica: Stati Uniti d’Europa e Azione - Siamo Europei.
Il primo è partito da un appello di Emma Bonino e di +Europa per unire l’area che fa riferimento ai partiti europei Alde e Pde, uniti nel gruppo Renew Europe: hanno aderito Radicali italiani e Libdem europei (Alde, come +Europa), Italia viva e L’Italia c’è (Pde), ma anche il Psi, che pure appartiene al Partito socialista europeo.
Il nome-obiettivo scelto, Stati Uniti d’Europa, è ambizioso (e non esclusivo: l’espressione figurava anche nel contrassegno depositato dalla Lista Pannella nel 2019 e ridepositato stavolta, ma il Viminale l’ha escluso per confondibilità), ma il fine principale della “lista di scopo” rimane – sempre in nome di quel traguardo – superare il 4 per cento per dare voce a quell’area, obiettivo fallito alle europee del 2014 e nel 2019.
L’obiettivo sarebbe stato più alla portata se alla lista avesse partecipato un altro membro Alde, Azione. Per varie ragioni – tra cui dissidi sui possibili candidati e su certe posizioni, nonché il rifiuto della “lista di scopo” i cui eletti potrebbero aderire a gruppi diversi – il partito ha scelto una via autonoma, federando sotto il nome Siamo Europei (con cui Carlo Calenda venne eletto nel 2019, nella lista comune col Pd) altre otto forze politiche.
Alcune hanno una storia consolidata (il Pri e i Repubblicani europeo), altre sono di conio recente, ma sempre legate all’area liberaldemocratica (Democrazia liberale, Associazione Socialista Liberale, Popolari Europeisti Riformatori e, con riferimento all’Alto Adige, Team K), altre ancora sono nate da pochissimo (il movimento Nos).
Alla lista Siamo Europei hanno aderito anche Federico Pizzarotti e Piercamillo Falasca, usciti da +Europa dopo aver tentato di far prevalere nel partito la scelta di un dialogo con Azione. Certo è che raggiungere l’obiettivo del 4 per cento correndo separati rappresenta una sfida molto più difficile; altrettanto arduo è riuscire a leggere sulla scheda i simboli in miniatura, all’interno di contrassegni di 3 centimetri di diametro.
Nomi e collocazioni europee: mettere o togliere?
Non si sa se quelle miniature quasi illeggibili siano state inserite su richiesta delle rispettive forze politiche, desiderose di visibilità dopo il precedente di De Luca, o su proposta dei soggetti federatori (in entrambi i casi, si suppone, con una certa insofferenza dei grafici). La complicazione, in ogni caso, emerge anche altrove.
Si prenda, ad esempio, il contrassegno di Forza Italia: il patto federativo stretto con Noi moderati ha richiesto che fosse inserito un piccolo riferimento al partito di Maurizio Lupi, riducendo leggermente gli altri elementi del contrassegno, inclusa l’espressione “Berlusconi presidente”, rimasta a dispetto della morte di Silvio Berlusconi.
Il riferimento, del resto, è presente da meno di un anno nel simbolo ufficiale fissato dallo statuto (verosimilmente con un’autorizzazione a monte da parte degli eredi del fondatore di Forza Italia).
Nessun ritocco invece al simbolo della Lega Salvini premier, che dal 2018 alle elezioni di livello nazionale partecipa con lo stesso emblema, anche se non c’è un premier da esprimere e la prevalenza nel centrodestra sembra poco attuale.
Nei giorni scorsi è stato annunciato un patto tra Lega e Unione di centro, che porterà candidati del partito di Lorenzo Cesa nelle liste leghiste; un accostamento tra Alberto da Giussano e lo scudo crociato, vista la storia della Lega, avrebbe fatto notizia, ma nel contrassegno non ci sono riferimenti all’Udc.
Qualche modifica l’ha fatta Fratelli d’Italia: recuperando una versione del simbolo usata nelle competizioni locali, ha abbandonato la struttura “a cerchi tangenti”, ponendo il nome del partito in alto e il nome di Giorgia Meloni al centro, mentre la fiamma tricolore resta in basso.
Gli ultimi due sono un po’ ingranditi rispetto al passato, ma sembra effetto più della riorganizzazione degli spazi che di altre ragioni. Né Lega né Fratelli d’Italia, in compenso, hanno inserito il riferimento ai rispettivi partiti europei (Identità e democrazia per la Lega, Conservatori e riformisti europei per Fdi): Forza Italia è l’unico partito maggiore della coalizione di governo a dichiarare la sua collocazione europea (nel Ppe, messa in luce già alle elezioni politiche).
Il MoVimento 5 Stelle non aderisce ad alcun partito europeo: nel contrassegno, sotto al riferimento al 2050 come anno della neutralità climatica, è però apparso l’hashtag #pace (il primo in un’elezione nazionale), per cercare di marcare una posizione a livello internazionale.
Quanto ad Alleanza Verdi e Sinistra, il simbolo creato per le elezioni politiche del 2022 contiene il riferimento ai Verdi europei per Europa Verde, mentre non indica nulla per Sinistra Italiana (osservatore, non membro, del Partito della sinistra europea).
La collocazione europea, invece, è stata inserita nel simbolo del Partito democratico, che aggiunse il riferimento al Pse già nel 2014. Proprio il caso del Pd, tuttavia, dimostra quanto la scelta del contrassegno sia tuttora un tema delicato: le polemiche interne sul possibile inserimento del nome della segretaria Elly Schlein hanno tenuto banco per ore e il deposito al Viminale è avvenuto quasi all’ultimo momento disponibile.
Se in competizioni locali o regionali l’uso dei nomi è ormai frequente e certe aree politiche lo praticano da anni anche a livello nazionale, il dibattito sull’indicazione esplicita della leadership nel contrassegno elettorale del Pd non poteva non colpire.
Non solo perché riguardava il partito che più si proclama in continuità con una storia politica che nell’epoca del “noi” non avrebbe mai considerato l’inserimento del nome nel simbolo: voler esplicitare il nome di Schlein in una competizione tra liste e non tra leader (dopo l’unico precedente di Walter Veltroni nel 2008, relativo però a un’elezione politica e in condizioni irripetibili: era pur sempre il fondatore, che credeva in un partito a vocazione maggioritaria) sarebbe stata un’operazione ad alto rischio, che in caso di risultato insoddisfacente avrebbe avuto effetti devastanti.
Il nome delle figure più riconoscibili, in ogni caso, è comparso anche nel contrassegno di Democrazia sovrana popolare (che ora contiene anche i cognomi di Marco Rizzo e Francesco Toscano), mentre non ce n’è traccia nel simbolo rosso di Pace Terra Dignità, che alla colomba della pace (pure oggetto di una diffida dei Verdi del Sud Tirolo) non accompagna i nomi di Michele Santoro e Raniero La Valle.
La sfida maggiore, per queste due liste, è però arrivare sulle schede grazie alla raccolta firme: il simbolo è una questione secondaria.
Tutte le facce della democrazia
Esaurita la carrellata delle forze politiche che saranno sulle schede, resta da dire della maggior parte dei simboli finiti nelle bacheche del Viminale. Sono la parte che attira di più l’attenzione dei media, insieme al rituale del posto in fila procurato con anticipo (quest’anno meno che in passato) per cercare tutela contro malintenzionati o, al contrario, per sperare di fare sgambetti presentando per primi un simbolo “furbetto”.
È facile riconoscere – almeno un po’, almeno in alcune persone – una certa dose di protagonismo e il desiderio di ottenere, una volta ogni qualche anno, un po’ di visibilità e fama.
Eppure qui conta soprattutto il fatto che quei simboli depositati siano tutti sfaccettature di una realtà molto più complessa, la nostra. Potrebbero anzi (e forse dovrebbero) essere molti di più, per rappresentare tanti aspetti di come siamo, di come sappiamo essere, anche quando quel che vediamo non ci piace affatto.
Così non può sfuggire il ruolo di Mirella Cece, che è al suo quindicesimo deposito viminalizio e almeno dalla metà degli anni Novanta mantiene l’ordine della fila: anche stavolta ha presentato il suo Sacro Romano Impero Cattolico, per proporre la sua concezione istituzionale, ministeriale, monarchica e cristiana del Paese.
Si sorride, ma solo per un nanosecondo, di fronte alla vera bicicletta di Ugo Sarao, che abbina il suo sempiterno Pensioni & Lavoro a Risveglio europeo pensando a Mario Draghi. Tornano come una conferma il fregio artigianale e ricco di colori di Lamberto Roberti (Parlamentare indipendente, convinto che debbano potersi sempre presentare candidature individuali), il salvadanaio di Enrico Andreoni (che guarda agli Use contro la Nato) e il logo del Movimento Poeti d’azione, che unisce spada e penna come vuole il suo presentatore, Alessandro D’Agostini.
Si captano gli echi della Prima Repubblica, con la doppia bandiera del Pci (quella del partito omonimo, evoluzione del Pdci di Oliviero Diliberto), il garofano socialista (oggi sfoggiato anche dal Partito Socialisti per il lavoro), lo scudo crociato della Dc (presentato da Nino Luciani, tra coloro che si ritengono segretari del partito e rivendicano la loro legittimità rispetto agli altri) e l’accoppiata Stella-Corona di Italia Reale.
Così come non passa inosservata la creatività dei due soggetti politici “pirati” (il Partito pirata italiano con la vela nera gonfia su fondo verde fluo, i Pirati con una tibia e un teschio con bandana viola) o di chi conia una teoria socio-filosofica e la trasfonde in un simbolo (Esseritari di Luciano Chiappa). Per non parlare dei nomi che si presentano in due o anche in tre simboli diversi, richiedendo l’intervento del Viminale per dirimere i conflitti.
Noi italiane e italiani siamo (anche) tutto questo, così come molto altro insieme: molto e il contrario di quel molto, che comunque meriterebbe cittadinanza in quel rito al Viminale.
C’è chi arriva a rimpiangere di non avere trovato in bacheca il Partito della Follia creativa (ultimo parto di Giuseppe Cirillo, già depositante di Impotenti esistenziali e Preservativi gratis, per dire) o rileva di avere perso da anni le tracce di Carlo Gustavo Giuliana, titolare del simbolo “Io non voto”, purtroppo sempre più praticato da gran parte del corpo elettorale. Chissà che la prossima fila, nel 2027 per le elezioni politiche, sia la volta buona…
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Utile utile, chi ce le può raccontare certe cose altrimenti?
Utile e divertente. Spero di leggere ancora il professor Maestri su Appunti