I No Global della Casa Bianca
Il vicepresidente J.D. Vance ha detto che gli americani prendono in prestito soldi dai contadini cinesi per comprare i loro prodotti. Lui e Trump contestano una globalizzazione che non hanno capito
Gli apripista di Trump sono stati i manifestanti no-global di Seattle del 1999, che vedono oggi finalmente realizzate le loro speranze; è molto probabile che alcuni di loro, incanutiti e stanchi, abbiano partecipato ai cortei contro l’amministrazione, senza accorgersi che stavano manifestando contro sé stessi
Manlio Graziano
Il vice-presidente degli Stati Uniti d’America, J.D. Vance, ha riassunto in questi termini il meccanismo dell’«economia globalista» applicato al suo paese: «Prendiamo in prestito denaro dai contadini cinesi per comprare le cose che i contadini cinesi producono».
Notiamo di sfuggita che Vance non lascia passare un’occasione per insultare qualcuno, che siano gli europei in generale, i danesi in particolare, gli ucraini, l’esercito inglese, la Groenlandia o i cinesi. E rivendica il suo buon diritto a farlo: a febbraio, ha twittato che «insultare qualcuno non è un delitto», e pensare che lo sia è «orwelliano» e perfino «lunacy», folle.
Spiegare a Vance la distanza che passa tra buona educazione e orrore distopico, ma anche solo tra buona educazione e follia, è tempo perso. Corre il sospetto che, per lui, tutto ciò che non corrisponde alla sua visione del mondo – sua e dei suoi allegri compagni di bisboccia – sia «orwelliano» e «folle».
Quello che ci interessa qui, però, è la sua concezione della globalizzazione, perché è in gran parte lì che si trova la chiave del successo elettorale di Trump e dell’ossessione morbosa dello stesso presidente e della sua cricca per i dazi doganali, visti come la «medicina», ancorché dolorosa, per guarire dal male – la globalizzazione appunto.
Gli apripista di Trump sono stati i manifestanti no-global di Seattle del 1999, che vedono oggi finalmente realizzate le loro speranze; è molto probabile che alcuni di loro, incanutiti e stanchi, abbiano partecipato agli sparuti cortei della giornata «Hands-Off» di sabato scorso – senza nemmeno accorgersi che stavano manifestando contro sé stessi.
Il complotto globalista
Fin dagli inizi, gli avversari del libero mercato hanno presentato la globalizzazione come risultato della deliberata volontà di qualcuno.
La popolarità di tale punto di vista è comprensibile: piuttosto che affaticarsi a indagarne i complessi meccanismi, è più riposante immaginarsi che un gruppo di individui si sia seduto attorno a un tavolo per ordire una perfida trama allo scopo di arricchirsi svergognatamente sulla schiena di altri.
Tali nefandi personaggi sono stati di volta in volta individuati in Soros, nella Trilaterale, nelle Big Farma, nella finanza internazionale, negli anziani di Sion, nell’Unione europea, e si potrebbe andare avanti, perché i candidati non sono mai mancati, scelti a seconda delle ubbie degli uni e degli altri.
Se le conseguenze di questo modo di vedere le cose non fossero immancabilmente catastrofiche, verrebbe quasi da sorridere: per anni si sono additati gli americani come gli architetti della globalizzazione; ora si scopre invece che era tutto un disegno per colpire proprio loro.
Scusandoci per la sommarietà di quanto segue, cercheremo di offrire un breve prontuario per facilitare la comprensione di questo fenomeno tanto odiato dagli antiglobalisti di qualunque persuasione.
La natura del capitalismo
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