Femminicidio , cultura e violenza: il dibattito
Una lettrice scrive di non aver condiviso l'articolo sui dati sulla violenza e cita Michela Murgia: serve un cambio di paradigma, anche se agli uomini non piace
Schiacciare le donne sul loro destino inesorabile di vittime predestinate e gli uomini sul ruolo di stupratori in potenza finisce per allontanare quella prospettiva di rapporti paritari tra i sessi che, a parole, un po’ tutti dicono di voler perseguire.
Buongiorno,
anche qua nella comunità di Appunti si sviluppa un certo dibattito sulla questione al centro della discussione pubblica, cioè i femminicidi, dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin che ha scosso tutti, anche i più indifferenti.
Si possono e si devono avere opinioni diverse, sulle cause, le risposte, le leggi, il contesto. Il metodo che ho cercato di imporre qui è che si deve partire dai dati, perché bisogna prima di tutto essere d’accordo sui punti di partenza, altrimenti si fa solo confusione.
Chi vuole l’analisi dettagliata sui numeri può leggere il pezzo lungo con i numeri, la sintesi è questa: i femminicidi in Italia non calano come invece calano gli altri omicidi, quindi c’è un problema specifico.
Riporto qui un grafico utile di Pagella Politica che chiarisce in modo inequivocabile l’unicità del dramma: capita alle donne di essere ammazzate dai partner, non tanto viceversa.
Se questa violenza si possa attribuire a una caratteristica specifica della cultura italiana, addirittura in peggioramento e sempre più violenta, è assai più opinabile.
Ci sono più femminicidi in proporzione alla popolazione femminile in paesi molto diversi dall’Italia, come la Lettonia o la Francia, e molti femminicidi non avvengono in categorie esposte ai nuovi rischi (tipo i social o il porno online).
A seconda della diagnosi del fenomeno, si adottano risposte politiche diverse: educazione nelle scuole o iniziative culturali se si pensa che sia un problema socio-culturale, nuovi reati o pene più severe se si crede che queste possano dissuadere chi è tentato dall’uso estremo della violenza, e così via.
Riporto qui una delle mail che sono arrivate che dissentono dal mio approccio, cioè partire dai dati, pur senza contestare i i numeri. Secondo me è utile a sviluppare un dibattito che cerco di sostanziare con altri spunti tra i tanti di questi giorni.
Dati e cultura
Buon pomeriggio,
ho impiegato qualche giorno a riflettere sull'opportunità o meno di commentare il suo articolo sul femminicidio perché volevo interrogarmi sul motivo per cui mi aveva dato così fastidio leggerlo.
Avevo bisogno di riconoscere che c'era in me, certamente in quanto donna, un'ondata di indignazione che mi faceva sentire offesa da un approccio così distaccato e legato a numeri e statistiche che apparentemente toglieva peso alla grandezza del problema.
Sono pronta oggi a dire che però secondo me quel punto di vista cerca di razionalizzare e ordinare attraverso i grafici qualcosa che così schematico non è, perché riguarda rapporti, moralità, etica e le regole della convivenza che sono invece molto più insiti nel concetto di cultura che lei descrive come troppo generale e aleatorio.
Su due testate di destra si leggeva che le femministe vogliono sfruttare un crimine per parlare di patriarcato, credo che questo dimostri esattamente che problema culturale abbiamo con le donne, con le donne che chiedono rispetto, con le donne che parlano.
Francesco Piccolo su Repubblica parla di uomini che non sono progressisti anche tutte quelle volte che hanno "parlato sopra", ecco quei titoli urlanti mi ricordavano quello: delegittimare, mettere ai margini della discussione proprio le vittime di quella discussione, cercare nei numeri una giustificazione che dica che sì, esiste l'uomo cattivo, ma non il maschio in quanto tale, che quei piccoli gesti, certo di cui forse di non andare fieri che citava Elena Cecchettin, come fischiare alla gente per strada o controllare i cellulari della compagna, sono senza conseguenze. Credere che non ci siano responsabilità sociali ma solo individuali (esistono colpe individuali ovviamente).
In questi giorni mi manca Michela Murgia che a volte mi dava fastidio con la sua insistenza e quella che mi sembrava una tendenza a buttare tutto sullo scontro, ma lei invece aveva capito che non c'è più tempo da perdere e stava chiedendo un cambio radicale di paradigma, senza per forza che piaccia a tutti, uomini compresi.
Arianna Solari
Provo a rispondere ad Arianna, ma soprassiedo su Francesco Piccolo: uno che pubblica romanzi come L’animale che mi porto dentro dovrebbe poi astenersi dal partecipare a questi dibattiti, in quanto è sicuramente parte del problema più che di ogni possibile soluzione.
Rispondo partendo proprio da Michela Murgia, che tanto si è spesa su questi temi. In un suo articolo di un paio di anni fa su Repubblica, scriveva questo:
“Occuparsi della violenza e non della discriminazione significa però sempre arrivare troppo tardi. Per questa ragione nei luoghi in cui si lotta contro la violenza alle donne il termine femminicidio non definisce solo la morte, ma anche la mortificazione delle donne. La morte fisica è infatti possibile solo dove è già stata consentita la mortificazione civile, cioè tutte le negazioni di dignità fisica, psichica e morale rivolte alle singole donne in quanto tali e alle donne tutte nella loro appartenenza di genere”.
Murgia, che ha conquistato su questo una certa egemonia culturale postuma nel dibattito, argomentava quindi che il femminicidio è l’esito ultimo di una scala di discriminazioni.
Dunque, par di capire, il modo di combatterlo è solo con l’intervento sulla cultura patriarcale del paese, non con la repressione o prevezione - quando possibile - specifica del fenomeno. E’ la tesi espressa anche da Elena Cecchettin, sorella di Giulia, nella sua lettera al Corriere della Sera.
Io ho appoggiato molte delle battaglie di Michela, la invitavo a scrivere sul Fatto Quotidiano in anni in cui le sue tesi erano molto meno condivise. E sono convinto che certe sue campagne abbiano davvero cambiato qualcosa. Quantomeno in termini di consapevolezza.
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