Appunti - di Stefano Feltri

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Di fronte al femminicidio

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L’indignazione per il caso Giulia Cecchettin e le norme più stringenti che sono seguite non ha prevenuto il ripetersi di quella tragedia a Messina, con Sara Campanella. Siamo dunque impotenti?

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Stefano Feltri
apr 02, 2025
∙ A pagamento
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Di fronte al femminicidio
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In questi anni l’aumento di sensibilità sulle disparità di genere, inclusa la violenza, si è accompagnata all’ascesa della cosiddetta “manosfera”, quell’ecosistema digitale e mediatico di opinionisti uomini, che parlano a giovani uomini e che celebrano proprio quella forma di mascolinità che il dibattito sulla violenza considera problematica

Di fronte all’ennesimo femminicidio c’è sempre lo stesso dilemma giornalistico. Ignorare la storia significa sottovalutarla, ridurla a una notizia di cronaca nera, mancare di rispetto alla vittima.

D’altra parte, parlarne è difficile perché c’è il rischio di ripetere cose già dette tante volte, cedere a qualche considerazione sociologica superficiale, indulgere nei tanti “si dovrebbe” o “si potrebbe”.

Visto che non è passato neanche un mese dall’8 marzo e dall’annuale colata di retorica sui media e nelle dichiarazioni dei politici, meglio correre il secondo rischio.

La storia di Sara Campanella è uguale a molte altre, per quel poco che sappiamo ricorda quella di Giulia Cecchettin che tanto ha segnato l’immaginario collettivo, almeno per un po’. Una studentessa di Tecniche di laboratorio biomedico viene uccisa a coltellate per strada, a Messina, da un suo compagno di studi, Stefano Argentino, 27 anni, che scappa ma presto viene identificato e fermato.

Sappiamo dal procuratore di Messina Antonio D’Amato che da almeno un paio d’anni Sara Campanella subiva attenzioni indesiderate da parte di quello che sarebbe poi diventato il suo assassino. Attenzioni fastidiose, ma che non l’avevano mai portata al punto di denunciare.

Alcune delle testimonianze raccolte dai giornalisti tra amiche e conoscenti di Sara indicano che lei fosse consapevole che c’era qualcosa che non andava, che forse lui la seguiva, lei lo chiamava “il malato”.

Non sappiamo se e quanto fosse preoccupata che le cose si mettessero davvero male. Il procuratore D’Amato ha detto che “Per fermare questi drammatici episodi ci vuole l’impegno di tutta la comunità”.

Ma come?

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