Democrazia vs popolo
L’eterno ritorno di Nigel Farage e il successo di Reform certifica che in Gran Bretagna si sta sgretolando il rapporto tra istituzioni e meccanismi democratici con la legittimazione popolare
Le istituzioni e il monopolio legittimo della forza – per dirla con Max Weber – non vanno abbandonate e sterilizzate, o ridotte culturalmente contrapponendo ‘popolo’ e ‘democrazia’. È forse questo il danno maggiore che il populismo e il dibattito anti-populista stanno commettendo.
Marzia Maccaferri
Milano, 15 maggio, ore 18, libreria Egea
Come può rispondere l’Ue alla doppia sfida di Russia e Stati Uniti? E con quali risorse? Con Daniel Gros (IEP@BU), Graziella Romeo (Bocconi), Eleonora Tafuro Ambrosetti (ISPI) e Stefano Feltri (IEP@BU). Iscrivetevi qui
Non è un caso sia stato un quotidiano liberal e (ancora) libero come il New York Times, che documenta da mesi il cambiamento costituzionale, per usare un eufemismo, in atto negli Stati Uniti a enfatizzare come i risultati delle elezioni locali nel Regno Unito lo scorso 1° maggio segnino un’altra tappa (quella definitiva?) dello sgretolamento del sistema politico britannico.
Sarà forse che gli americani hanno di recente sviluppato un radar più sensibile dei nostri qui in Europa per questo tipo di cose, visto che stanno sperimentando in streaming e dal vivo quali sono le implicazioni dirette dell’avere un ‘populista compulsivo’ – anche questo un eufemismo – alla guida del paese.
Perché se è indubbio che il vincitore politico delle elezioni locali è stata la destra di Reform, l’ultimo in ordine di tempo delle creature partitiche di Nigel Farage, ed è dunque altrettanto evidente che la batosta presa dal governo laburista e da Keir Starmer è di notevole portata, queste elezioni, benché limitate e parziali in termini di numeri e territorio – non si è votato in Scozia per esempio – rappresentano un test che è andato oltre il check-out clinico del governo.
Ma l’anamnesi della crisi politica laburista a soli pochi mesi dalla netta vittoria nel luglio scorso e l’eterno ritorno di Farage non si capiscono se non si parte dallo svuotamento del sistema politico britannico e dalla lenta demolizione del bipartitismo.
Forse a qualcuno potrà anche sembrare ‘cosa buona’ superare, in questa che sembra essere una nuova costituzione materiale, le rigidità del maggioritario secco e l’anacronismo di un sistema di partiti binario, ma lo sgretolamento in atto va anche a toccare quel nesso fragile fra democrazia e popolo, o meglio il rapporto storicamente sedimentato tra istituzioni e meccanismi democratici con la legittimazione popolare, due tra i concetti più sfuggenti della politica contemporanea che dovrebbero essere sempre maneggiati con cura, anche quando li si vuole difendere dagli attacchi populisti e sciovinisti.
In ballo c’è qualcosa di più importante, come gli Stati Uniti mandano in onda ogni giorno.
Vincitori e vinti
Reform ha eletto 677 consiglieri, compresi due sindaci, e ha portato a casa un nuovo parlamentare vincendo di striscio le elezioni suppletive; un trend nella tradizione delle by-elections che storicamente hanno sempre premiato gli outsider, ma questa volta è successo in quello che veniva considerato un seggio sicuro per i laburisti.
L’analisi dei flussi ha registrato un 17 per cento di spostamento di voti dal Labour a Reform. Non un dato enorme, ma rilevante se associato sia a un a bassa affluenza, come da tradizione per le amministrative, sia a una legge elettorale rigidamente maggioritaria, e inserito in un contesto di competizione politica che affianca al declino inesorabile del partito conservatore ormai scomparso dai dati elettorali, la proliferazione di micro-partiti indipendenti.
Un mix di variabili interne ed esterne, non ultima la disaffezione dell’elettorato laburista, comprensibile viste la schizofrenia del governo fra appoggio a-critico a Israele e tagli alla spesa pubblica, che ha contribuito alla deflagrazione della rappresentanza.
Starmer ha in parte messo una toppa annunciando di aver siglato due accordi commerciali rilevanti, con l’India e soprattutto con gli Stati Uniti, intese che i governi conservatori post-Brexit avevano inseguito invano.
Un successo simbolico certo, la cui reale portata economica resta tutta da verificare, e che va a rafforzare quell’immagine di un primo ministro interprete di un ‘pragmatismo freddo’ – ennesimo eufemismo – che in perfetto aplomb britannico aggiorna lo stile politico post-Impero: se non puoi batterli, unisciti a loro. Resta però il fatto che la situazione è molto più complessa e non va sottovalutata.
Non si tratta qui di scagionare Starmer, accusato di aver ‘tradito’ il popolo della sinistra replicando un blairismo fuori tempo, o perché neoliberista, o perché ha espulso Jeremy Corbyn e Ken Loach, almeno stando a una semplicistica e forse consolatoria narrazione che circola nella mia bolla massmediatica. Questa analisi è parziale.
In questo paradigma risulta infatti difficile ricomprendere lo spostamento di quel 17 per cento di voti dal Labour a Reform, partito quest’ultimo che propone apertamente il taglio dei servizi pubblici, la sostituzione della sanità pubblica e gratuita con il sistema delle assicurazioni private; partito di cui fa parte la nuova sindaca del Lincolnshire che ha promesso di sbattere in strada tutti i rifugiati e di trasferirli in tende “come a Calais”; partito il cui stesso leader, Farage, nel discorso della vittoria ha invitato i lavoratori nel settore della crisi climatica “a cercarsi un nuovo impiego”.
Starmer aveva scommesso su una strategia pacata e razionale, ‘progressivamente progressista’. Puntava a ricostruire fiducia nel tempo, con proposte concrete, in un certo senso a-ideologiche, in netto contrasto con il suo predecessore alla guida del partito. Pragmatiche appunto. Politicamente ha fallito.
Ci si deve dunque preparare a un governo Farage?
Il disruptor seriale della politica britannica
Ex broker della City, Farage inizia la sua carriera politica nel 1993 aderendo al neonato UKIP (UK Independence Party), di cui diventa presto il volto pubblico.
La sua missione: portare il Regno Unito fuori dall’Unione Europea. Una battaglia che conduce per anni ai margini del sistema politico, guadagnando però sempre più visibilità grazie alla sua presenza costante nei media e alla capacità di intercettare il malessere dell’elettorato euroscettico che si divide equamente fra laburisti e conservatori.
Eletto per la prima volta al Parlamento europeo nel 1999, Farage porta lo UKIP a un risultato storico alle elezioni europee del 2014, arrivando primo con il 27,5 per cento dei voti: il segnale che il terremoto stava per arrivare era chiaro.
Nota a margine: alle europee l’affluenza è storicamente minima e il sistema elettorale proporzionale, il cui funzionamento è estraneo alla cultura politica britannica, ma che è stato abilmente sfruttato da Farage e dal partito per un ritorno d’immagine totale.
Non saremmo in questa impasse, tuttavia, se non ci fosse stata la sottovalutazione da parte del primo ministro conservatore David Cameron, che convinto di poter tenere a bada i ‘suoi’ euroscettici ha convocato il referendum nel 2016 e, allo stesso tempo, l’atavica antipatia per l’UE dell’allora leader laburista Jeremy Corbyn, che ha sistematicamente boicottato la campagna referendaria.
Il susseguirsi di leader e primi ministri incapaci, hanno poi radicalizzato, o meglio ‘ukipizzato’, il partito conservatore spingendolo verso un euroscetticismo identitario e revanscista il cui culmine è stato toccato con Boris Johnson, spostando la competizione sempre più a destra.
Dopo la vittoria della Brexit, Farage si dimette da leader di UKIP, ma non dalla scena politica. Torna nel 2019 con il Brexit Party, che alle elezioni europee stravince di nuovo, capitalizzando sull’alienazione dell’europarlamento.
Nel 2021 rilancia con Reform, viene eletto per la prima volta ai Comuni nel 2024 spostando l’asse del discorso contro l’invasione degli immigrati tutti, senza distinzione fra rifugiati e studenti, a difesa di una identità nazionale xenofoba e nostalgica dell’esperienza imperiale: un trumpismo da pub di campagna, insomma, fondato su un presunto ‘senso comune inglese’ andato perduto negli anni della costrizione europea e ora da recuperare.
I successi e insuccessi dei partiti fondati o a cui ha aderito Nigel Farage rappresentano molto più di un capitolo bizzarro nella storia politica britannica, però.
Farage è riuscito a rimanere al centro della scena grazie a una combinazione di fiuto, tempismo e notevole talento comunicativo: se volessimo parafrasare Machiavelli al XXI secolo, potremmo dire che per essere un buon ‘principe populista’ oggi servono sì fortuna, ma anche l’istinto e il narcisismo della rockstar – qualità di cui dispone in abbondanza.
Ma, sempre seguendo Machiavelli, la fortuna non è sufficiente. L’eterno ritorno di Farage è il sintomo di una crisi profonda, strutturale, che coinvolge il sistema istituzionale e la cultura politica e democratica di Westminster.
Brexit e ricorsi storici
Il punto, dunque, non è solo Farage e la sua versione anglosassone di populismo: è il terreno e una cultura politica sempre più annacquata che gli consente di riemergere ciclicamente.
Il cosiddetto ‘modello Westminster’ – bipartitismo sedimentato storicamente grazie a una legge elettorale rigidamente maggioritaria e profondamente disrappresentativa in termini di voti assoluti ma in grado di assicurare un governo stabile ed efficace – è in crisi da tempo; il successo elettorale di Reform ne è solo l’ultimo esempio.
Lo stesso corbynismo e il governo pirotecnico di Boris Johnson, ma gli esempi potrebbero essere tanti, ne sono state espressione: con modalità differenti e opposte hanno entrambi presentato un discorso politico che opponeva ‘democrazia’ a ‘popolo’, le cui implicazioni rischiano di minare le basi generali della cultura democratica.
In questo contesto, la Brexit ha esacerbato l’impasse, aprendo nuove faglie e offrendo spazi a chi sapeva cavalcarle trasversalmente.
I conservatori non hanno fatto molto per contenere questa deriva; anzi, l’hanno alimentata scegliendo alla guida del partito leader sempre più inadeguati, fino all’attuale Kemi Badenoch, la cui incapacità appare ormai lampante. Non sarebbe la prima volta nella storia britannica che una crisi contingente ridisegna il sistema politico.
Le Corn Laws del primo Ottocento segnarono la fine del partito Whig, mentre la questione irlandese e il Budget di Lloyd George all’inizio del ’900 affossarono i liberali, aprendo la strada al partito Laburista. È legittimo chiedersi se Brexit e Reform finiranno per fare lo stesso. I segnali sono già lì: la parabola discendente del partito conservatore sembra avviata e la polarizzazione impostata.
Va detto che, per ora, la legge elettorale a collegi uninominali tiene ancora lontana dal Parlamento la destra apertamente fascista. Ma è una barriera friabile.
In un contesto in cui il discorso politico si crea, sedimenta e distorce grazie a piattaforme ipertecnologiche, Reform riesce a motivare e inglobare parte di quell’elettorato che fa riferimento all’ultra-nazionalismo anti-islamico di Tommy Robinson o a quei movimenti che si rifanno al machismo politico di Andrew Tate, come accaduto negli Stati Uniti.
Non solo: una recente indagine di Byline Times analizza la struttura societaria opaca del partito sollevando preoccupazioni legali e di trasparenza.
Secondo questa inchiesta, Reform è organizzato sia come partito politico registrato, sia come società a responsabilità limitata; una configurazione insolita – ancora un eufemismo – nel panorama politico britannico.
Nonostante le dichiarazioni di Farage di aver ceduto il controllo del partito, la struttura attuale sembra concentrarsi attorno a una serie di scatole cinesi, rendendo difficile identificare chi detenga effettivamente il potere decisionale e finanziario.
Almeno noi si sapeva chi fosse il proprietario di Forza Italia. Reform ha ottenuto finanziamenti da fonti estere, in particolare da individui scontenti del regime fiscale nel Regno Unito, mentre alcune delle società collegate risiedono in paradisi fiscali. Il partito, conclude Byline Times, ha inoltre attivamente cercato donatori tra gli esiliati fiscali.
Democrazia versus popolo?
Il 1° maggio Reform ha intercettato sia l’elettorato della classe media tradizionalista che quello di una working-class non metropolitana depoliticizzata ed ex-laburista.
Farage ha vinto con parole d’ordine di sinistra (servizi pubblici efficienti e nazionalizzazione delle acciaierie) sostenute però da una piattaforma di destra radicale (servizi ai soli britannici, nazionalizzazione in funzione militare).
Una combinazione che ricorda inquietanti ‘blocchi storici’, se vogliamo scomodare qualche categoria gramsciana, di cui ahimè abbiamo già visto gli effetti.
Quello che ha tenuto insieme il tutto è stato un discorso massimalista anti-immigrazione: ossessione centrale, come testimonia la linea editoriale di GBNews, il canale d’informazione in cui lo stesso Farage aveva una trasmissione serale quotidiana. Un’altra anomalia per il sistema politico-informativo britannico.
La crisi degli stati liberal-democratici e del modello occidentale – categoria questa alquanto discutibile ma che qui può servire per circoscrivere la parabola storica di quello di cui stiamo parlando – e l’incapacità di offrire una risposta efficace al caos degli ultimi rigurgiti neoliberali si sta saldando, in questa nuova fase, nell’opposizione fra ‘democrazia’ e ‘popolo’.
Non soltanto nel discorso nazionalista-populista o nella sua traduzione in forma di populismo di sinistra, che con declinazioni opposte innalzano il secondo ipersemplificando e banalizzando la dimensione del potere politico.
Sta invadendo anche il campo del discorso democratico e anti-populista, come l’anti-Starmerismo montante sembra suggerire, aumentando la distanza tra i meccanismi istituzionali e la legittimità politica.
Nel pantheon dei miti della sinistra inglese, le mobilitazioni popolari antifasciste degli anni Trenta – in primis la battaglia di Cable street dove il 4 ottobre 1936 nell’East End di Londra migliaia di residenti locali, sindacalisti, ebrei e socialisti bloccarono la marcia delle camicie nere inglesi guidate da Oswald Mosley – hanno un posto d’onore.
Qui, alle proteste ‘dal basso’ si aggiunse un passaggio fondamentale: una legge votata dai Comuni ad ampia maggioranza che vietava la formazione di gruppi paramilitari.
Le istituzioni e il monopolio legittimo della forza – per dirla con Max Weber – non vanno abbandonate e sterilizzate, o ridotte culturalmente contrapponendo ‘popolo’ e ‘democrazia’. È forse questo il danno maggiore che il populismo e il dibattito anti-populista stanno commettendo.
La diretta da ri-vedere - con Manlio Graziano
Il nuovo rischio nucleare
Secondo molti esponenti della destra nazionalista induista, infatti, se sei musulmano, anche se indiano, significa automaticamente che simpatizzi per il Pakistan e dunque per i terroristi; per questo motivo, dovresti pagarne le conseguenze
Da leggere su Appunti
Il ritorno del soft power
Per Joseph Nye il soft power è “la capacità di ottenere quello che vuoi attraverso l’attrazione, invece che la coercizione o il compenso economico”
Sostieni il nuovo progetto di inchiesta
La Scomunica
A molti la decisione di Francesco di togliere la prescrizione sul caso di Marko Rupnik era sembrata una svolta, dopo mesi di ambiguità e di silenzio. Invece da allora tutto tace, in perfetto stile va…
Che noia la narrativa dei commentatori neoliberali che abbondano in questo blog. Sempre colpa degli elettori che votano i populisti mai che si analizzino le responsabilità dei loro idoli che si fanno eleggere promettendo di fare politiche di sinistra per poi rinnegare tutto una volta con il culo sulla poltrona. Dopo aver fatto fuori in modo illegale il vero leader di sinistra supportato da tesserati ed elettori. Naturalmente l'estromissione di Corbyn dalla guida del Labour non ha suscitato nessuno sdegno ai paladini di destra travestiti di sinistra che fingono di preoccuparsi per la scomparsa della "democrazia" (leggi la possibilità dei capitalisti di fare quel che vogliono). Per voi è normale che Starmer, che aveva promesso di salvare il Servizio Sanitario, ha deciso invece di fare l'esatto contrario e sta procedendo a nuovi tagli che probabilmente lo affosseranno definitivamente? Mentre nello stesso tempo regala miliardi in armi all'Ucraina? E' normale che abbia deciso di tagliare gli aiuti ai poveri che non riescono a scaldarsi a sufficienza di inverno? Io mi stupisco che non abbiano ancora eletto Hitler, altro che, anche se ci siamo vicini mentre gli stessi ottusi commentatori neoliberali plaudono e brindano al riarmo tedesco che finirà in mano ai neonazisti oramai primo partito in Germania.
Più si susseguono questi casi in cui il sovranismo popolare occupa il potere grazie a sistemi elettorali poco rappresentativi dell'orientamento politico dei cittadini e più mi convinco che è necessario passare ad un sistema proporzionale con un ranking che consenta di trasferire il proprio voto, nel caso non sia rappresentato a causa delle soglie di sbarramento, ai partiti politici che, in ordine di priorità, più si avvicinano al proprio ideale politico.