Cose lette, viste e sentite: A che punto è la guerra tra Hamas e Israele?
Ora si tratta per il "cessate il fuoco", ma a Rafah si rischia la strage peggiore, mentre il destino di Gaza resta incerto. Impossibile arrivare a "due popoli e due Stati". Il punto della situazione
Oggi niente intelligenza artificiale per le illustrazioni, ma un bellissimo disegno dell’amico fumettista e giornalista Claudio Marinaccio, che ringrazio
Da “distruggere Hamas” a “negoziare con Hamas” è un salto di fase notevole per Israele, che indica che forse - forse - gli israeliani stanno tornando a una modo di gestire la crisi più pragmatico e meno dominato dalla furia vendicativa - comprensibile ma non scusabile nelle conseguenze - seguita all’attacco di ottobre
Nei giorni scorsi Vanity Fair mi ha chiesto di fare un pezzo sulle ipotesi di cessate il fuoco a Gaza.
Bisogna dire che Ghali e la Rai hanno fatto molto, in modo non del tutto consapevole, per costringerci a uscire da un bipolarismo ideologico sulla crisi in Medio Oriente e farci qualche domanda in più.
Anche se il pensiero del cantante non era esattamente elaborato e se la posizione della Rai è stata di bilanciare un vago accenno di Ghali con una sottolineatura, ridondante, della gravità della strage del 7 ottobre.
Questa evoluzione di clima politico e culturale intorno a Gaza si è vista con l’intesa direttamente tra là premier Giorgia Meloni e la segreteria del Pd Elly Schlein: la maggioranza ala Camera si è astenuta per far passare una mozione del Pd che chiede la liberazione degli ostaggi detenuti da Hamas e il cessate il fuoco a Gaza.
Non sarà il Parlamento italiano a decidere le sorti del Medio Oriente ma è comunque un segnale che stiamo entrando in una fase diversa.
Mi pare dunque un buon momento per mettere in fila quello che sappiamo e offrire qualche spunto di approfondimento, in una versione monotematica del format Cose lette, viste e sentite che non proponevo da un po’ a lettrici e lettori di Appunti.
“Distruggere Hamas” o “negoziare con Hamas”
Parto dalle cose che ho ricostruito per Vanity. Proprio nei giorni di Sanremo, il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu ha respinto una proposta di cessate il fuoco da parte di Hamas, il partito e gruppo terroristico che governa la striscia di Gaza ed è responsabile degli attacchi del 7 ottobre 2023.
Quell’ipotesi di cessate il fuoco assomigliava molto a una tregua duratura, che avrebbe rappresentato un problema per Israele e un successo tattico per Hamas.
La proposta di Hamas includeva una pausa di quattro mesi e mezzo nelle ostilità e il completo ritiro delle truppe israeliane dalla striscia palestinese. Israele avrebbe ottenuto soltanto il rilascio di una parte degli ostaggi ancora detenuti dal 7 ottobre (bambini, anziani, donne).
Il governo di Netanyahu non poteva accettare, dopo aver promesso la distruzione di Hamas e un nuovo assetto per Gaza che non metta a rischio la sopravvivenza dei cittadini israeliani confinanti.
Ma questo non significa che ogni ipotesi di sospensione delle violenze sia impossibile. Il primo tentativo è fallito, ma gli Stati Uniti, il Qatar e l’Egitto che avevano favorito quella ipotesi, continuano a impegnarsi per ottenere qualcosa.
E sono i tre paesi decisivi: gli Stati Uniti perché la potenza militare di Israele dipende in gran parte dal sostegno americano, il Qatar perché è il paese musulmano con una posizione di terzietà (alleato degli Stati Uniti, ma base logistica della leadership politica di Hamas), e l’Egitto che è il paese confinante con Gaza, fondamentale per ogni intervento umanitario o di gestione dei risultati.
La notizia di ieri è che il capo del Mossad David Barnea è volato al Cairo proprio per incontrare il numero due di Hamas, Khalil al-Hayya, che è il vice del ricercatissimo Yahya Sinwar, che sta alla strage del 7 ottobre come Osama bin Laden all’11 settembre 2001. Stanno discutendo di cessare il fuoco e rilascio di ostaggi.
Da “distruggere Hamas” a “negoziare con Hamas” è un salto di fase notevole per Israele, che indica che forse - forse - gli israeliani stanno tornando a una modo di gestire la crisi più pragmatico e meno dominato dalla furia vendicativa - comprensibile ma non scusabile nelle conseguenze - seguita all’attacco di ottobre.
Il destino di Rafah
La domanda è: si fermeranno in tempo prima di fare una strage ancora evitabile a Rafah?
Adesso che l’Israeli Defence Force, l’esercito, sta preparando l’attacco a Rafah, infatti, i rischi della catastrofe sono ancora più alti: i palestinesi che hanno lasciato le zone oggetto dei primi mesi di attacchi, sono tutti concentrati lì, nel Sud della Striscia, vicino all’Egitto. Prima del conflitto c’erano 300.000 persone, già in condizioni di forte disagio, ora 1,4 milioni.
Il valico di Rafah con l’Egitto è il solo punto di accesso disponibile per fornire sostegno umanitario, finora insufficiente, sia per le azioni israeliane che per il timore del regime egiziano di Al Sisi di farsi carico di centinaia di migliaia di rifugiati.
Il timore di Israele è che una pausa troppo lunga permetterebbe alla leadership di Hamas di riorganizzarsi, o quantomeno di reagire sul piano simbolico, magari con qualche azione a Gaza (o in Cisgiordania, l’altra area a controllo palestinese) che verrebbe accolta con pericolosi entusiasmi da un mondo arabo sempre pù anti-israeliano.
È vero che una pausa negli attacchi - per quanto motivata da ragioni umanitarie - potrebbe sembrare un cedimento da parte di Israele e dunque, in qualche misura, un successo di Hamas.
Ci sono però ragioni molto concrete che spingono gli Stati Uniti a lavorare per questo risultato, pur consapevoli che i nemici di Israele e degli Usa nell’area potrebbero trarne beneficio.
Primo: i timori di un’escalation regionale si sono già concretizzati. La guerra di Gaza è già diventata una guerra in Medio Oriente.
Hezbollah attacca Israele ogni giorno dal sud del Libano, ci sono misteriosi attentati in Iran con stragi di civili, gli attacchi dei ribelli Houthi sostenuti dall’Iran alle navi mercantili nel Mar Rosso, con la conseguente risposta Occidentale: raid americani in Siria, Yemen e Iraq, operazioni di marina militare e aerea di vari paesi europei, con l’imminente missione europea nella quale l’Italia avrà un ruolo guida.
Per ragioni che mi sfuggono, in Italia si parla poco o niente del Mar Rosso e dell’impegno italiano già annunciato dal governo Meloni.
L’Italia in guerra?
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