Che fine ha fatto la crisi del Mar Rosso
Gli attacchi degli Houthi stanno riscrivendo la logistica globale, con conseguenze rilevanti per i costi di trasporto, per le emissioni e per il futuro dei porti italiani e di tutto il Mediterraneo
Foto del Pentagono, Navy Petty Officer 1st Class Jonathan Word
Se l’attuale crisi del Mar Rosso e l’inagibilità di Suez continuassero al punto da divenire endemiche, i porti italiani si troverebbero in una posizione di debolezza competitiva pressoché assoluta rispetto a quelli del nord Europa.
Cesare Alemanni
Sebbene sia stata scavalcata nella gerarchia delle notizie dall’accumularsi di altre emergenze, la “crisi del Mar Rosso” prosegue ed entrerà a breve nel suo sesto mese di vita.
I primi attacchi degli Houthi con droni e missili contro le navi cargo in transito dallo stretto di Bab-el-Mandeb risalgono infatti al 19 ottobre scorso, nemmeno due settimane dopo l’inizio dei bombardamenti su Gaza.
Cominciati quasi in sordina, questi sabotaggi della logistica oceanica sono diventati rapidamente uno dei fatti più rilevanti della geo-economia e della geopolitica globali.
A causa loro, alcune tra le più importanti compagnie di navigazione del mondo (MSC, Maersk, CMA etc) hanno scelto di sospendere, a partire già da metà dicembre, il passaggio radente le coste yemenite verso Suez, il canale da cui passa il 12 per cento delle merci e dei semilavorati movimentati ogni anno sul nostro pianeta.
Gran parte delle navi in questione oggi raggiunge l’Europa circumnavigando l’Africa dal Capo di Buona Speranza.
Come scrivevo nel mio libro La signora delle merci (Luiss 2023), commentando il precedente e più estemporaneo blocco di Suez a causa dell’incaglio della nave Evergiven nel 2021, si tratta di una “retromarcia non solo geografica ma anche storica. Il ritorno a un’epoca in cui il canale di Suez, costruito nel 1869, non esisteva”.
È una “retromarcia” dai molteplici significati e risvolti. In primis perché la rinuncia a Suez comporta, ovviamente, un significativo allungarsi delle rotte. In relazione ai collegamenti tra i grandi porti dell’Estremo Oriente e dell’Europa, parliamo di un aumento della distanza di oltre 3mila miglia nautiche e di una crescita dei tempi di navigazione che, a seconda delle rotte oscilla, in media, tra il 30 e il 40 per cento del totale (ovvero un eccesso di 10 - 12 giorni sulla durata normale del viaggio).
Ciò produce numerose conseguenze. Le prime sono di carattere economico: l’aumento del prezzo dei trasporti. Un riflesso del fatto che il trasporto via mare è un settore che offre servizi a bassa marginalità, basati su enormi economie di scala.
Quando queste vengono compromesse, l’impatto sulla struttura dei conti del comparto si trasmette immediatamente ai costi.
E così, già a gennaio 2024, dopo un mese di peggioramento della crisi, diversi studi rilevavano un aumento del 23 per cento nel prezzo del noleggio dei container sulla rotta, una delle più importanti al mondo, Singapore - Rotterdam.
L’effetto sulle filiere
C’è poi un altro aspetto, largamente sottovalutato, della crisi. Ovvero che le navi cargo oggi non trasportano soltanto prodotti finiti ma soprattutto componenti e semilavorati (i cosiddetti input produttivi) delle filiere industriali. Ebbene, queste filiere si basano sulla certezza, la puntualità e la continuità del servizio (resa possibile, negli ultimi quarant’anni ,proprio dall’introduzione del container).
Laddove queste qualità del trasporto vengono meno, viene meno anche la capacità di coordinamento delle attività produttive su cui si regge il modello delle filiere - il tutto con impatti inflazionistici non trascurabili.
Oltre a quello economico, la deviazione delle rotte propone un tema di emissioni. Girare intorno all’Africa non solo richiede più tempo ma anche più carburante.
Secondo un’analisi di Pier2Pier.com, una nave che trasporta 150mila tonnellate di carico dalla Cina a Rotterdam produce “solo” 41mila tonnellate di CO₂ equivalente se passa da Suez, mentre ne produce 55mila se circumnaviga il Capo di Buona Speranza (un aumento del 34 per cento).
La causa di questo incremento non è solo l’allungamento del viaggio ma anche l’aumento della velocità richiesto per compensare tale allungamento. Sulla base di dati satellitari, OceanScore ha calcolato un aumento medio del 25 per cento della velocità di crociera (da 16 a 20 nodi) sulla rotta circumafricana.
Un ulteriore contribuito all’aumento delle emissioni proviene dal fatto che, per mantenere il complessivo volume trasportato, le compagnie di navigazione stanno aumentando il numero degli scafi in circolazione, schierando su rotte globali di lunga percorrenza, navi più piccole e meno efficienti a livello energetico, imbarcazione di solito destinate a svolgere funzioni di collegamento su rotte regionali. In proporzione a ogni singola unità di peso trasportato, si calcola che queste navi arrivino a inquinare anche un 140 per cento in più dei super-cargo.
Oltre a essere una pessima notizia per l’ambiente, l’aumento delle emissioni lo è anche per l’economia (dei trasporti e in generale).
L’aumento delle emissioni comporta anche l’aumento dei prezzi sull’Ets (Emissions Trading System), il sistema europeo di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra, una forma di tassazione sulle emissioni di CO₂.
Tra le altre cose questo sistema prevede che le compagnie di trasporto debbano pagare in proporzione alla distanza tra il loro porto di partenza fuori dall’Europa e il primo porto di approdo in Europa (ogni successivo scalo ha invece un impatto minore sulla contabilità).
Questa peculiarità degli Ets si aggiunge al quadro generale appena illustrato (aumento dei costi, aumento dei tempi, aumento delle emissioni) in una congiuntura logistica che appare particolarmente sfavorevole per i porti italiani, e soprattutto per quelli adriatici, i più lontani dall’imboccatura di Gibilterra.
Senza Suez
Non solo da Suez passa il 42 per cento dell’import-export italiano ma il ritorno a un mondo pre-Suez significa il ritorno a un mondo in cui il Mediterraneo è un piccolo mare chiuso su se stesso. È la Storia a dircelo.
È sufficiente ricordare come, tra Quattro Cinquecento, con l’apertura da parte portoghese della via circumafricana (1488) e con la chiusura ottomana del Mediterraneo orientale (1453), abbiano cambiato le sorti delle talassocrazie italiane (Genova e Venezia) e, con esse, quelle dell’intera economia produttivo-commerciale della penisola che, a partire dalle Crociate, era stata per l’intero Basso-Medioevo la grande piattaforma d’intermediazione dei commerci intercontinentali tra Europa e Oriente.
Fu solo grazie all’apertura del canale di Suez all’alba della “prima globalizzazione” (1870 - 1914) che il Mediterraneo – che di suo rappresenta appena l’1,5 per cento delle acque terrestri – ritornò a essere “medioceano”, ovvero passaggio fondamentale per l’interscambio eurasiatico e quindi enorme bacino di opportunità per i paesi che vi si affacciavano, Italia inclusa.
Se l’attuale crisi del Mar Rosso e l’inagibilità di Suez continuassero al punto da divenire endemiche, i porti italiani si troverebbero in una posizione di debolezza competitiva pressoché assoluta rispetto a quelli del nord Europa.
Se consideriamo che, oggi, per raggiungere un porto del Mediterraneo è necessario circumnavigare l’Africa ed addentrarsi profondamente nel bacino da Gibilterra, capiamo perché, tra tutte le rotte, quelle che hanno subito i maggiori rincari siano proprio quelle che giungono nei porti del “mare di mezzo”.
Secondo dati di Sea Intelligence aggiornati a febbraio, a fronte di un rincaro del 31 per cento per raggiungere i porti dell’Europa settentrionale dall’Asia, l’aumento del costo per raggiungere un porto mediterraneo è in alcuni casi pari a più del doppio (66 per cento).
Questo è dovuto, tra le altre cose, al già citato meccanismo degli Ets che “premia” chi accorcia il più possibile le distanze dal primo approdo europeo.
Declino Mediterraneo
Gli scenari che portano a una totale marginalizzazione del Mediterraneo sono più d’uno. Si può per esempio immaginare una situazione in cui i grandi shipper scoprano una maggiore convenienza nel fare sosta nei porti all’imboccatura di Gibilterra (Algeciras o Tangeri) e affidino da lì le merci a servizi feeder più piccoli che si occupino del trasporto interno al Mediterraneo secondo il più classico dei modelli hub and spoke, finendo per “fissare” un sistema in cui il volume complessivo dei trasporti movimentati dai porti italiani diminuirebbe enormemente.
Oppure c’è lo scenario in cui regioni produttive fondamentali a ridosso del Mediterraneo, come la stessa Valle Padana, vengano servite non più dai porti lungo le loro stesse coste (Genova, Trieste) ma tramite collegamenti terrestri da nord, dai grandi hub di Rotterdam, Le Havre, Amburgo e così via, già, in una situazione di normalità, avvantaggiati in termini tecnologici e geografici.
Sono scenari da considerare, in merito ai quali si è espresso di recente il presidente di Espo (European Sea Ports Organisation), Zeno D’Agostino. Il quale, nel corso di un confronto sul tema, ha auspicato e rimarcato la necessità di un intervento europeo a tutela della portualità mediterranea.
Un intervento che tuttavia, al momento, tarda a palesarsi e che denuncia una certa miopia di Bruxelles.
Permettere un eccessivo indebolimento della portualità mediterranea non costituirebbe infatti solo un grave danno economico per i paesi che da essa dipendono ma anche un fattore di debolezza strategica e geopolitica per tutto il continente.
Cesare Alemanni
Cesare Alemanni ha scritto La signora delle merci, su logistica e globalizzazione. Collabora con Domani, Wired, Repubblica e Treccani. Cura Macro, una newsletter sulle grandi trasformazioni di questi anni.
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L’evento del 4 aprile sarà in inglese e dedicato al tema della disinformazione:
Speaker
STEFANO DA EMPOLI i-Com
BILL EMMOTT, già direttore The Economist
GLORIA ORIGGI Institut Nicod, Ecole Normale Supérieure
MATTEO PUGLIESE University of Barcelona
GAIA RUBERA Bocconi University
Moderatore
STEFANO FELTRI
Proviamo a chiedere agli Houthi che vogliono
Grazie a Feltri, ho scoperto le sue analisi essenziali, argomentate e molto chiare. Quello che mi piacerebbe fosse approfondito, da Lei e/o da contributi di altri lettori/autori nelle forme più efficaci (dibattito online ? Convegno ? Call for proposal ?) è il “cosa fare ?” Non immagino una serie di ricette semplicistiche ma magari un abbozzo di piattaforma di politica economica/commerciale che al di là del pubblico - meritevole - confronto possa generare spunti per la nostra classe governante (italiana , europea, attuale/futura). Grazie !