Che fare di Gaza
Uccidere i vertici di Hamas e intervenire con l'esercito non risolve il problema, è già successo tutto nel 2014. Il nodo resta come far convivere ebrei e arabi nello stesso territorio
(Una foto montaggio diffuso dall’Autorità nazionale palestinese per paragonare l’esodo da Gaza di oggi a quello del 1948 dopo la prima guerra arabo-israeliana)
In questi giorni ho ragionato molto su un editoriale che mi ha chiesto Vanity Fair, che dovrebbe rispondere a una domanda all’apparenza semplice: perché litighiamo tanto su Israele e Palestina? Perché è l’unico tra i tanti conflitti incancreniti che ci polarizza come se fosse una partita di calcio?
Non so se ho trovato una risposta, di sicuro mi sono convinto che parte del problema è che le risposte, i giudizi morali, e gli schieramenti cambiano a seconda del punto e del momento di osservazione.
Un po’ come in una versione geopolitica del principio di indeterminazione di Heisenberg: se osservi il conflitto, non puoi non prendere posizione, ma quella posizione cambia e si ribalta a seconda del momento e del luogo.
Il 7 ottobre eravamo tutti israeliani, come non esserlo? Ma una settimana dopo come si fa, con un po’ di empatia umana residua, a non sentirsi tutti palestinesi, a vedere foto e video di persone che cercano di mettersi in salvo prima che la loro casa e la loro vita venga spazzata via da un missile? E così via.
La tentazione irresistibile è quella di farsi bastare le conoscenze che si hanno e pensare che siano sufficienti a scegliere su che fronte stare, almeno moralmente.
Credo quindi che sia importante aggiungere un po’ di elementi per togliere certezze e capire che stiamo parlando di questioni complicate.
La più complicata di tutte, forse, è che fare di Gaza.
Il ritiro e l’altra guerra
Nel dicembre del 2003 l’allora premier israeliano Ariel Sharon inizia a parlare di un ritiro unilaterale dell’esercito israeliano da Gaza, senza accordi con l’Autorità nazionale palestinese.
Nel frattempo, però, Sharon mandava avanti la costruzione del muro in Cisgiordania, l’altra area contesa, che secondo i palestinesi (e l’Onu) è parte dell’inesistente stato palestinese assieme a Gerusalemme Est e, appunto, a Gaza.
Agli ultraordossi israeliani è sempre interessata la Cisgiordania, la West Bank: è lì che vogliono insediarsi, verso il sacro fiume Giordano. Gaza è sempre stato soltanto un problema. E per loro Sahron nel 2002 ha avviato la costruzione di un muro di 730 chilometri in Cisgiordania, con la motivazione di difendersi dai terroristi, ma che i palestinesi hanno vissuto come una barriera fisica che sanciva la segregazione civile e politica in atto da anni.
Perché Sharon, un ex militare con fama di duro e spietato, sceglie di far uscire l’esercito e gli israeliani da Gaza, con un disimpegno che sarà completato nel 2005?
Lo storico Ian Black, nel fondamentale libro Nemici e vicini (Einaudi, 2017), suggerisce questo:
“Le motivazioni nascoste includevano la possibilità di liberarsi della responsabilità di un milione e mezzo di palestinesi e di separare la Striscia di Gaza dalla Cisgiordania, dove si sarebbero dovuti evacuare anche quattro piccoli insediamenti a Jenin”.
Ma c’era anche altro:
suggerire che Israele non era una potenza occupante, così da legittimare non soltanto la propria esistenza ma anche le occupazioni (illegali) dei coloni in Cisgiordania
dimostrare che i palestinesi non erano in grado di autogovernarsi
spaccare il mondo e la politica palestinese
rallentare e complicare il tentativo della presidenza americana di George W. Bush (road map) di arrivare ai famosi due stati per due popoli.
Nell’ambito della preparazione per il ritiro da Gaza, nel 2004 Israele riesce anche a uccidere con un attacco missilistico lo sceicco Ahmed Yassin, fondatore e capo spirituale di Hamas.
A dimostrazione che decapitare Hamas senza cambiare il contesto non risolve granché, basta ricordare che al funerale di Yassin hanno partecipato 200.000 persone e che tre anni dopo Hamas ha preso il controllo assoluto di Gaza, nel 2007, e da allora non ci sono state più elezioni.
Il piano di Sharon di spaccare il mondo palestinese è senza dubbio riuscito, almeno fino al 2011 quando c’è stata una prima riconciliazione tra Abu Mazen di al Fatah (i palestinesi della Cisgiordania) e Hamas a Gaza.
Nel 2014, dopo l’ennesima escalation di violenze, Israele lancia l’operazione “Margine di protezione”, che è il più grande intervento a Gaza dopo il disimpegno del 2005: ventimila case distrutte, 2125 vittime sul lato palestinese, 67 soldati e 6 civili su quello israeliano.
Israele uccide i civili, i suoi razzi distruggono intere famiglie, la popolazione è a sostegno pieno dell’attività dell’esercito anche di fronte a immagini di indubitabili crimini di guerra.
L’anno prima Hamas ha perso il suo grande sponsor, il presidente egiziano Morsi, vicino ai Fratelli musulmani e quindi al pezzo di Islam radicale dietro Hamas.
Al suo posto è arrivato il generale Al Sisi che ha in parte distrutto - o quantomeno limitato - il sistema di tunnel sotterranei che aveva permesso ad Hamas di contrabbandare un po’ di tutto, cibo, materiali da costruzione, droga, ma anche armi e missili. In certi tunnel si passava anche con le auto, per un giro d’affari stimato sopra il miliardo di dollari.
Tra i tanti paradossi di questa storia c’è che Hamas a Gaza - nonostante l’embargo israeliano che in teoria limitava l’accesso di cose e persone - aveva una autonomia economica maggiore della leadership palestinese ufficiale in Cisgiordania che invece dipende dagli aiuti internazionali e dal gettito fiscale degli scambi con Israele che viene bloccato o sbloccato a seconda delle esigenze da parte del governo di Tel Aviv.
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