Appunti - di Stefano Feltri

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Capire i referendum

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Si avvicina il voto dell’8-9 giugno, c’è un quesito che è decisivo per i possibili nuovi italiani, e un altro che anticipa il congresso del Pd. Ma su tutto pesa l’astensione

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Stefano Feltri
mag 14, 2025
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Capire i referendum
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La nostra Costituzione considera il referendum uno strumento del pluralismo democratico. È un mezzo attraverso il quale i cittadini possono partecipare e contrastare decisioni legislative approvate dal Parlamento

Andrea Morrone

Milano, 15 maggio, ore 18, libreria Egea

Come può rispondere l’Ue alla doppia sfida di Russia e Stati Uniti? E con quali risorse? Con Daniel Gros (IEP@BU), Graziella Romeo (Bocconi), Eleonora Tafuro Ambrosetti (ISPI) e Stefano Feltri (IEP@BU). Iscrivetevi qui


Ho preparato queste note come base per una puntata di Revolution, su Radio3, e in questa fase in Rai c’è, per ragioni comprensibili, una normativa di par condicio piuttosto stringente quando si parla di referendum. E bisogna dare spazio alle ragioni di entrambe le parti, per favorire una scelta consapevole il giorno della consultazione, cioè l’8 e 9 giugno prossimi.

Poiché se ne inizia a parlare tutti i giorni, mi sembra doveroso fare il punto, ma vista la struttura di Revolution, ho pensato di fare un'analisi il più equilibrata possibile, che è sempre un utile esercizio, invece che contrapporre opinioni opposte.

Nei referendum abrogativi si vota “sì” per abrogare e “no” per conservare la legge così com’è, ma poiché c’è un quorum necessario perché il voto sia valido - la metà più uno degli aventi diritto - la competizione finisce spesso per essere tra voto e astensione.

Poiché è più probabile che ad andare alle urne siano coloro che vogliono cambiare la legge, chi vuole conservarla così com’è tende a scegliere la tattica dell’astensione.

Dunque, chi è favorevole al cambiamento deve vincere una doppia sfida: portare molte persone alle urne e spingerne una maggioranza a votare per il sì.

Un problema che non si pone per i referendum costituzionali, come quello del 2016, che non hanno quorum e dunque hanno rapporti di forza un po’ ribaltati: è più facile aggregare schieramenti trasversali per conservare la Costituzione com’è piuttosto che mobilitare elettori ed elettrici per cambiarla, perché in tanti possono opporsi a una specifica riforma per ragioni molto diverse (come è successo nel 2016, appunto).

In questo caso si aggiunge una complicazione: i quattro quesiti sul lavoro sono anche un regolamento di conti interno al Partito democratico, visto che l’attuale vertice con la segretaria Elly Schlein è a fianco del sindacato della Cgil di Maurizio Landini per abrogare per via referendaria norme introdotte quando nel partito era maggioritaria un’altra componente, quella riformista, del partito, ai tempi del governo Renzi 2014-2015.


Il senso del quorum

L’analisi di Andrea Morrone

Il presidenzialismo che già c'è

Andrea Morrone è un costituzionalista dell’Università di Bologna, autore per il Mulino di La Repubblica dei Referendum. Quali sono i referendum nella storia recente comparabili a quelli di giugno? E come sono andati?

Il 9 giugno saremo chiamati a votare in cinque referendum: uno in materia di cittadinanza e quattro in materia di lavoro.

Si tratta di referendum abrogativi, che riguardano leggi connesse a diritti fondamentali: la riduzione del termine per ottenere la cittadinanza da parte di cittadini extracomunitari, oppure – secondo i promotori, ossia la CGIL – il rafforzamento delle garanzie nei rapporti di lavoro.

Sono temi che riguardano diritti, così come lo erano quelli di precedenti referendum nella storia italiana: basti pensare al divorzio, all’aborto o ad altre questioni analoghe.

Solo che questa volta – come ormai accade da molto tempo – è estremamente improbabile che venga raggiunto il quorum.

Come è noto, infatti, dal 1997 a oggi (fatta eccezione per il caso del 2011), nessun referendum abrogativo ha raggiunto il quorum previsto dalla Costituzione, che richiede la partecipazione di almeno il 50 per cento più uno degli aventi diritto, affinché la consultazione sia valida.

Quali fattori possono determinare una maggiore o minore affluenza?

La partecipazione al voto dipende da molti fattori: l’interesse suscitato dai quesiti referendari, la reale volontà dei cittadini di partecipare alla vita democratica del Paese.

Come sappiamo, anche in Italia l’astensionismo sta diventando molto elevato. Alle ultime elezioni politiche ha votato poco più del 60 per cento degli aventi diritto, e alle elezioni europee siamo scesi persino sotto il 50 per cento.

Nel caso dei referendum, dal 1997 non si raggiunge il quorum. L’astensione è diventata la regola, e non dipende soltanto dal contenuto dei quesiti referendari.
Dipende soprattutto dal fatto che le forze contrarie al contenuto del referendum invitano i cittadini a disertare le urne, perché in questo modo è più facile impedire non solo che la consultazione abbia luogo, ma anche che si possa ottenere il risultato proposto dai promotori.

Si tratta di una pressione impropria, che rischia di violare, almeno sul piano del principio, la Costituzione. Soprattutto quando ad invitare alla diserzione del voto sono titolari di cariche pubbliche, i quali, al contrario, hanno la responsabilità di incoraggiare i cittadini a esercitare il diritto di voto, come previsto dall’articolo 48 della nostra Costituzione.

Qual è l’origine della scelta di introdurre il quorum? Anche all’estero funziona così o ci sono casi di Paesi che hanno consultazioni popolari vincolanti ma senza quorum?

La ragione per la quale l’assemblea Costituente stabilì un quorum minimo di partecipanti al voto nei referendum deriva dal fatto che, in quegli anni, la partecipazione politica era molto elevata: votava circa il 95 per cento degli italiani.

Si riteneva quindi che almeno il 50 per cento di coloro che normalmente si recavano alle urne dovesse partecipare anche ai referendum abrogativi.

Certamente, c’era anche l’idea di ostacolarne un uso troppo disinvolto, ma ciò che conta è che la nostra Costituzione considera il referendum uno strumento del pluralismo democratico.

È un mezzo attraverso il quale i cittadini possono partecipare e contrastare decisioni legislative approvate dal Parlamento.

Si tratta quindi di un vero e proprio diritto tutelato e garantito dalla Costituzione, affinché la democrazia rappresentativa possa, in determinate circostanze, essere integrata da iniezioni di democrazia referendaria.

Va anche detto che si tratta di un unicum nel panorama internazionale: nessun’altra Costituzione al mondo prevede un quorum minimo di partecipazione.

Questo anche perché, negli altri Paesi, i referendum sono in genere consultivi, hanno un valore essenzialmente politico, mentre nel nostro caso il referendum ha un valore normativo, in quanto finalizzato ad abrogare disposizioni di legge.


La cittadinanza

Guardiamo ora i singoli quesiti partendo da quello meno discusso: chi vota sì sceglie il dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana.

Secondo i dati Istat, su 5 milioni di stranieri legalmente residenti in Italia, oltre 2,3 milioni sono cittadini di Paesi fuori dall’Unione europea che hanno un permesso di soggiorno di lunga durata e che così potrebbero richiedere la cittadinanza in tempi più brevi.

Il referendum, in realtà, si limita a ripristinare una situazione pre-esistente, dall’unità d'Italia al 1992, infatti, ci volevano cinque anni di residenza per poter chiedere la cittadinanza, che poi sono saliti a dieci mentre in parallelo si introduceva uno sconto di un anno, quindi da cinque a quattro, per i cittadini di Paesi dell’Unione.

Poiché ci vogliono almeno tre anni dalla richiesta all’ottenimento della cittadinanza, per i richiedenti in possesso dei requisiti, di fatto si scenderebbe dai 13 anni di requisito attuale, dieci di residenza e tre di procedimento, a otto.

La frattura tra favorevoli e contrari è soprattutto sulle implicazioni, concrete e simboliche, dell’eventuale modifica della legge: oggi in Italia convivono due tipi di cittadinanza, una per via ereditaria estesa anche a chi nasce all’estero da italiani, e una che si acquisisce dopo anni di residenza.

Bambini nati lontano, che con l’Italia non hanno legami particolari se non la cittadinanza dei genitori, acquisiscono la cittadinanza alla nascita, mentre i figli di non cittadini che nascono e crescono in Italia devono aspettare la maggiore età per ottenere la cittadinanza italiana e risiedere per 18 anni senza interruzioni in Italia.

E’ chiaro che con più immigrati che diventano cittadini prima, anche i loro figli sarebbero cittadini senza attendere i 18 anni.

Quindi intorno a questo quesito si scontrano due idee di approccio all’immigrazione e all’integrazione: chi vota sì crede che sia necessario integrare prima gli immigrati e i loro figli senza mantenere per molti anni un doppio regime che li divide dagli italiani.

Chi vota no o si astiene o è poco interessato, o pensa che una più rapida integrazione creerebbe tensioni sociali o fornirebbe un incentivo alla partenza di altri migranti.

I diretti interessati, cioè quei cinque milioni di persone che sono in Italia regolarmente ma senza cittadinanza, non possono esprimersi.

I quesiti sul lavoro

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