

Scopra di più da Appunti - di Stefano Feltri
Atto di forza
Giorgia Meloni ha già lanciato la campagna sull'inevitabile referendum costituzionale per imporre il suo premierato. Ma i precedenti dovrebbero invitarla a una certa prudenza
“Quello che Giorgia Meloni vuole compiere sull’elezione diretta del premier è un atto di forza che vorrebbe legittimare pienamente col suffragio delle masse popolari”
Andrea Morrone
Buongiorno a tutte e tutti,
nel weekend mi riprometto di scrivere cose più articolate, in questi giorni ho poco tempo, per fortuna c’è il nostro costituzionalista di riferimento di Appunti, Andrea Morrone dell’Università di Bologna, che è pronto ad analizzare l’inizio della bizzarra campagna referendaria di Giorgia Meloni.
Bizzarra perché il referendum costituzionale sulla riforma che dovrebbe introdurre il premier eletto dai cittadini ancora non c’è - la legge non è ancora stata votata neppure una volta - e perché ci sono illustri precedenti di leader che si sono schiantati seguendo lo stesso copione. Comunque, per saperne di più leggete qui sotto Andrea Morrone.
Io ne approfitto solo per dire due cose sullo scontro verbale e in parte fisico tra il presidente della Coldiretti Ettore Prandini e due parlamentari di +Europa, Benedetto della Vedova e Riccardo Magi, colpevoli aver sollevato dubbi di costituzionalità sulla legge che vieta la carne coltivata in Italia, votato ieri alla Camera e approvato in via definitiva.
Il primo ovvio commento è che chi sostiene le proprie idee con la protervia di Prandini e della Coldiretti in generale dovrebbe, anche soltanto per questo, perdere ogni credibilità nel dibattito pubblico. Specie se, dopo l’accaduto, invece di scusarsi dice “Della Vedova ci ha provocato con un cartello che diceva ‘coltivate ignoranza’”.
Il secondo commento è che la Coldiretti è ispiratrice di uno dei più assurdi disegni di legge della storia della Repubblica perché vieta qualcosa che non è in commercio e che, nelle accezioni della Coldiretti non esiste neppure. Nel senso che siamo lontani dalla produzione di massa di carne prodotta in laboratorio che arriva sugli scaffali in concorrenza con quella “tradizionale”.
Mi riprometto di scrivere una cosa più approfondita, ma intanto: le argomentazioni della Coldiretti si basano su una interpretazione perversa del “principio di precauzione” europeo (non basta che ci sia l’assenza di conseguenze pericolose dimostrate, bisogna avere prova che queste siano completamente escluse).
Dopo l’opposizione agli organismi geneticamente modificati - nella totale assenza di ogni base scientifica - la Coldiretti vuole impedire persino la ricerca su uno dei fronti cruciali per rendere sostenibile l’alimentazione di un pianeta con oltre 8 miliardi di persone.
Cito l’analisi del sito specializzato Il Fatto Alimentare:
“Si vieta qualcosa che non c’è, perché in Europa non ci sono ancora state approvazioni ufficiali. Quando poi l’Unione europea, con ogni probabilità, arriverà a concedere autorizzazioni a prodotti a base di carne coltivata, come hanno già fatto Singapore, Israele e gli Stati Uniti, il divieto italiano non potrà impedirne l’importazione e la vendita.
Non ci sono motivi, infatti, per pensare che non si arrivi anche in Europa a produrre carni coltivate, e la maggior parte dei governi, per cogliere le occasioni che una rivoluzione scientifica e tecnologica di questa portata può offrire e per fornire risposte adeguate alla crisi climatica, stanno investendo decine, quando non centinaia di milioni di euro per sostenere centri di ricerca, start up e aziende che stanno lavorando nel settore”.
Se vieti la vendita prima ancora che esista il prodotto, si riducono gli incentivi a fare ricerca e sviluppo. Quindi Prandini mente quando dice che è a favore della ricerca.
E i riferimenti alla dieta mediterranea e alla longevità degli italiani che sarebbero in pericolo sono pura manipolazione: a parte che la dieta mediterranea è povera di carne - privilegia i legumi - ma in ogni caso l’apporto proteico della carne coltivata sarebbe analogo o superiore a quella degli animali allevati e macellati negli allevamenti (spesso intensivi e al centro di denunce e inchieste, altro che eccellenza inappuntabile…)
Ma tutta la comunicazione della Coldiretti è puramente manipolatoria, soprattutto quella intorno alla raccolta di firme a sostegno della legge.
Basti dire che l’unica base scientifica delle loro affermazioni è un singolo articolo uscito su una rivista pre-print, cioè non sottoposto alla revisione di altri esperti, e alla Coldiretti manco sono capaci di indicare tutti gli autori in modo corretto. L’unico articolo che contraddice il consenso diffuso nella comunità scientifica, cioè che la carne prodotta in laboratorio abbia minore impatto ambientale e maggiore potenziale di sostenibilità (qui la MIT Technology Review ricostruisce il dibattito).
(carne molto digitale, creata dall’intelligenza artificiale Midjourney)
L’altra manipolazione più strutturale è che la carne coltivata non sostituirebbe gli allevamenti. Anzi, la presenza di un prodotto più accessibile a tutti e a minor impatto ambientale consentirebbe al settore di concentrarsi sulla parte di clientela a più alta capacità di spesa, più sensibile alla qualità (almeno a quella percepita).
Un mondo con carne coltivata negli hamburger di McDonald’s e fiorentina di allevamento nei ristoranti di fascia alta sarebbe migliore di quello attuale, ma certo i peggiori tra gli allevatori italiani, quelli che producono carne di qualità bassa a prezzo competitivo, forse sarebbero messi in difficoltà. E sono i loro interessi che Coldiretti antepone a quelli generali.
Che questo governo sostenga posizioni antiscientifiche non stupisce. E che la più reazionaria tra le organizzazioni di categoria italiane abbia trovato nel sovranismo alimentare una sponda nemmeno. Ma che queste tesi anti-scientifiche abbiano una così vasta eco nell’opinione pubblica, ecco, questo è preoccupante.
Ne riparleremo,
Buona giornata
Stefano
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L’incognita del referendum sul premierato
di Andrea Morrone
“Italiani! Voi che volete fare? Volete contare e decidere, o stare a guardare mentre i partiti decidono per voi?”. Questa è la domanda formulata da Giorgia Meloni nel un video con cui preannuncia che, sul premierato elettivo, saranno i cittadini a scegliere, quando le Camere l’avranno approvato.
Che l’esito definitivo della proposta di elezione diretta del premier sarà risolto in una consultazione popolare è cosa ormai certa.
Meloni ha precisato che il referendum sarà chiesto dal suo governo “se necessario”, qualora, com’è probabile, non riuscisse ad allargare il consenso parlamentare ben al di là della propria maggioranza. Ma, per come l’ha detto, s’è mostrata ben consapevole che sulla sua proposta non potrà ottenere più consensi di quelli interni alla sua coalizione, forse con l’aggiunta di qualche voto del terzo polo (Matteo Renzi ha già detto sì).
Con le opposizioni sulle barricate, non le sarà possibile raggiungere, comunque, la soglia dei due terzi dei componenti del Parlamento, necessari, nella seconda deliberazione, perché una legge di revisione costituzionale possa entrare immediatamente in vigore (articolo 138 della Costituzione).
Aver evocato fin d’ora un referendum popolare, prima ancora della presentazione alle Camere del progetto di revisione, non serve affatto per mettere le mani avanti. Anzi, tutto al contrario, è l’espressione di una tattica politica ben studiata, come il video che ha accompagnato l’annuncio della “madre di tutte le riforme”.
La presidente Meloni ha lanciato il guanto di sfida. Contro tutti coloro che vorranno, a partire dalle opposizioni, intralciare le “magnifiche sorti e progressive” dei suoi progetti, la premier afferma di non temere affatto un referendum che, essa stessa intende sollecitare, coerentemente con l’elezione popolare del capo del governo, anche qui, per dare agli italiani l’ultima parola.
È come dire che alla domanda, tanto schematica quanto banale, lei è sicura cosa risponderà la maggioranza dei cittadini: “Siamo noi a voler decidere da chi farci governare; non vogliamo continuare a lasciare questo compito ai “giochi di palazzo”, agli inciuci dei partiti e, magari, a qualche ennesimo “governo tecnico” scelto dal Presidente della Repubblica in spregio della volontà popolare”.
Le scommesse perse
Rimbomba, oggi, la stessa sicumera mostrata, ieri, da Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, quando, sulle “grandi riforme” che tentarono di varare, la maggioranza degli elettori espresse un sonoro “no” in un referendum rivelatosi esiziale tutt’e due le volte.
Alla sconfitta della legge approvata dalla coalizione guidata da Berlusconi nel 2006 contribuirono diversi fattori. Il cambio della maggioranza di governo, dopo le elezioni politiche che, prima della consultazione sulla riforma costituzionale, videro ritornare a Palazzo Chigi Romano Prodi e l’Unione, fermamente contrari al progetto berlusconiano.
Poi, il sostanziale disinteresse della stessa ex maggioranza di centro destra, salvo l’allora leader della Lega Umberto Bossi, rimasto da solo a difendere la parte dedicata alla “devolution” di nuovi poteri alle regioni. Inoltre, la significativa mobilitazione di intellettuali e associazioni (tra cui “Salviamo la Costituzione” guidata dall’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro), che utilizzarono lo slogan, divenuto poi una litania, della “costituzione più bella del mondo” per opporsi al proposito di codificare il “premierato assoluto” di Berlusconi (anche se, nella legge di riforma, non si prevedeva l’elezione diretta del premier, ma gli si conferiva il potere di chiedere lo scioglimento delle Camere).
Sulla revisione costituzionale elaborata dall’allora ministra per le Riforme Maria Elena Boschi gravò l’ipoteca del “patto del Nazareno” tra Renzi e Berlusconi, firmato sotto la regia del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che accettò la rielezione al Colle più alto proprio alla condizione che i partiti convergessero su “limitate ma essenziali” modifiche della Costituzione.
Se quell’accordo avesse retto, la riforma costituzionale (e la collegata nuova legge elettorale con premio di maggioranza al 54 per cento dei seggi, il cosiddetto “Italicum”), non sarebbe stata travolta dal “no” degli elettori.
A far saltare il patto vi contribuì lo stesso premier Renzi, quando portò al Quirinale Sergio Mattarella, non gradito dal leader di Forza Italia perché era stato uno dei parlamentari democristiani a votare, nel 1990, contro la legge Mammì sul duopolio televisivo Rai-Mediaset.
Perso il sostegno di Berlusconi e approvate, ma solo con i voti della maggioranza, sia la legge costituzionale sia l’Italicum, Renzi decise di giocarsi tutto personalizzando l’ormai inevitabile referendum costituzionale.
La consultazione del 4 dicembre 2016 divenne così un plebiscito sul premier, che sortì, però, l’effetto di unire, sotto un’unica insegna, tutti gli avversari di Renzi, al di là delle rispettive e, spesso, diametralmente opposte, appartenenze (il fronte del “no” andava dall’estrema destra alla sinistra radicale).
Un contributo importante venne dai giuristi, tra cui molti costituzionalisti, che, pure in quell’occasione, utilizzarono la retorica della “Costituzione più bella del mondo” per dire “no” ad una riforma che, pur non brillando, non poteva certo considerarsi “eversiva”, come pure veniva descritta (anche in questo caso non c’era l’elezione diretta del premier).
La novità fu che il referendum era stato trasformato in una sorta di “giudizio di dio”, in cui gli elettori erano stati chiamati a decidere populisticamente sulla persona del presidente del Consiglio, non sui contenuti delle riforme.
Le uniche volte in cui una legge costituzionale importante ha ottenuto il via libera degli elettori sono stati la revisione del regionalismo (2001) e la riduzione dei parlamentari (2021): nel primo caso vi contribuì la sostanziale insignificanza mediatica della novella (nonostante, però, la sua rilevanza sostanziale, visti i problemi aperti che ha lasciato); nel secondo fu determinante, invece, la finalità “anticasta” di una legge costituzionale voluta dai “grillini”, su cui, per ragioni opportunistiche, convennero tutti gli altri partiti (ma, durante la campagna referendaria, molti politici non rinunciarono a sostenere il “no” dopo aver detto di “sì” in parlamento).
Meloni è diversa?
L’esperienza del passato insegna che riforme “a colpi di maggioranza” sono seriamente a rischio di essere bocciate dal corpo elettorale, specie se riguardano temi divisivi, come quello della nostra forma di governo parlamentare.
Decisiva, per affossare modifiche controverse alla Costituzione, è sempre stato il “salto nel vuoto” della personalizzazione fatta dal presidente del consiglio che le riforme aveva promosso.
Riuscirà Meloni dove sono caduti Berlusconi e Renzi? Le sarà di aiuto per trascinare le masse una domanda così semplificata e fuorviante, inducendole, come nel referendum di Pilato su Gesù e Barabba, a preferire la scorciatoia di una “democrazia plebiscitaria del capo” alla nostra, pure problematica e bisognosa di seri ritocchi, “democrazia mediata dei partiti”?
L’unico episodio storico in cui una tattica simile funzionò fu quello del Generale Charles De Gaulle, quando, nel 1962, come leader della resistenza francese al nazismo e artefice della soluzione alla questione algerina, riuscì ad affondare il parlamentarismo inconcludente della Costituzione del 1946 con l’introduzione dell’elezione diretta del presidente della Repubblica. Un autentico “colpo di stato”, come fu detto, riuscito proprio grazie ad un plebiscito popolare.
Giorgia Meloni ha molti meriti. Certamente le manca il pedigree di una “madre della Patria”. Quello che vuole compiere sull’elezione diretta del premier è soprattutto un atto di forza che vorrebbe legittimare pienamente col suffragio delle masse popolari.
Alla luce della storia, il lavacro referendario che la premier evoca oggi, però, sarà tutto tranne che una tranquilla passeggiata nei corridoi di Palazzo Chigi.
Atto di forza
Non capisco perché Meloni abbia "molti meriti". Vorrei mi fossero elencati.
Sbaglierò ma dai più sarà avvertito come molto meno “personale” questo referendum rispetto a quello precedente. E non è escluso che passi proprio in virtù del suo non essere legato a un “se perdo vado a casa”