Assange, l'uomo dietro il simbolo
C’è un Assange simbolo di valori come la libertà di stampa e poi c’è un Assange reale, opaco operatore nella galassia dell'intelligence. Chi celebra il primo, spesso non sa niente del secondo
Assange non ha i titoli per diventare un simbolo della libertà di stampa, al massimo è un simbolo di un attivismo di intelligence transnazionale che piace a chi ama poco gli Stati Uniti
Guai a contraddire il comune sentire, a prescindere dai fatti. Il mio articolo per contestare l’equivalenza tra l’oppositore di Vladimir Putin morto in carcere, Alexei Navalny, e l’hacker australiano Julian Assange, in prigione in Gran Bretagna, ha sollevato molte reazioni, in gran parte ostili.
Ma come, proprio tu che sei un giornalista osi criticare un uomo che rischia la vita per i suoi scoop, per aver rivelato la verità?
Credo che, come talvolta accade, ci sia una differenza di approccio: c’è un Assange che è un simbolo di alcuni valori, di certe visioni del mondo, e poi c’è un Assange reale, un uomo, che ha fatto delle cose.
Si può discutere l’uomo Assange senza contestare i valori nei quali credono coloro che lo hanno scelto come icona.
Anche io, come molti degli ammiratori di Assange, condivido l’idea di un giornalismo indipendente, che sia cane da guardia del potere, e che faccia di tutto per denunciare gli abusi e i soprusi.
In qualche misura condivido perfino l’idea di fondo di Wikileaks, cioè che la trasparenza sia quasi sempre il miglior antibiotico contro le malattie del potere. Il problema è che non penso che Assange e Wikileaks siano campioni in grado di interpretare gli ideali che i loro sostenitori considerano così importanti.
Anzi, penso che il grande consenso di cui goda Assange - la sua stessa condizione di simbolo, specie in Italia - si fondi su una sostanziale ignoranza di quasi tutto quello che riguarda Assange e Wikileaks, dei quali viene infatti sempre ricordato soltanto il video diffuso nel 2010 Collateral Murder e quasi niente del resto, tipo i legami con la Russia di Vladimir Putin.
Questa ignoranza è alimentata da un costante lavoro di - non so come chiamarlo diversamente - propaganda del variegato mondo intorno ad Assange che costruisce una narrazione sapientemente edulcorata delle attività di Wikileaks e del suo fondatore.
Una singolare evoluzione, questa: l’idealista che doveva smascherare la verità del potere, appena è diventato egli stesso potere (o almeno contropotere), ha adottato le stesse modalità comunicative dei governi che contrasta.
Assange si è mosso nel mondo opaco dell’intelligence e degli arcana imperii, ha cercando di indirizzare i media a suo favore, orientandoli, usando narrazioni emotive dove gli elementi fattuali non bastavano, si è perfino indignato e ha denunciato i leak che lo riguardavano, per esempio sulle indagini per stupro in Svezia (presentate come parte di un grande complotto americano, tesi assai ardita).
Perché Assange e Wikileaks non sono un davvero un contropotere, sono un potere, con tutte le ambiguità, le discrezionalità, e i problemi che il potere sempre comporta. La dimostrazione ultima è che non sono criticabili: come ogni potere, anche quello di Wikileaks, chiede di non essere messo in dubbio, vuole soltanto essere omaggiato, con anche l’aspetto del ricatto morale. Se critichi Wikileaks, sei un servo degli Stati Uniti e vuoi far morire Assange.
Ma a cosa serve Wikileaks?
Una domanda dalla risposta non ovvia è a cosa serva Wikileaks esattamente. Anche se i sostenitori di Assange sembrano dimenticarlo, gli scoop giornalistici su questioni di sicurezza nazionale - negli Stati Uniti e altrove - ci sono sempre stati. Anche di livello paragonabile a quelli attribuiti a Wikileaks. Prima e dopo Wikileaks.
Basti ricordare il dossier sulle torture in Iraq nel carcere di Abu Ghraib nel 2006 (sapevamo già che la guerra in Iraq era una ingiustificabile violazione dei diritti umani, oltre che delle leggi internazionali) pubblicato online da Salon. E grandi scoop internazionali come i Panama Papers hanno ottenuto grandi risultati con gli stessi ingredienti - un whistleblower, un pool di giornali internazionali - meno uno, cioè senza l’hacker di origine australiana.
Dunque, cosa aggiunge Assange rispetto a mille altre operazioni giornalistiche simili Due cose, entrambe problematiche per i giornalisti. La prima, paradossalmente, è un livello di segretezza al giornalismo di inchiesta sul potere segreto.
Di solito le fonti di qualunque genere, inclusi i whistleblower (cioè appartenenti a una organizzazione che ne denunciano le malefatte), contattano direttamente i giornalisti. Per un giornalista, di solito, è fondamentale sapere chi è la fonte di una certe informazione o di un documento.
Non per una mera curiosità o deontologia professionale, ma per avere il controllo della faccenda e non diventare un utile idiota al servizio di qualche potere o, peggio, per non vedersi la reputazione distrutta per aver pubblicato materiali artefatti, o sapientamente selezionati per offrire una immagine distorta della verità.
Nei miei anni al Fatto Quotidiano è capitato in almeno un paio di occasioni che fonti confidenziali provassero a farci pubblicare documenti manipolati, costruiti per sembrare veri senza esserlo, mentre ero a Domani un’altra fonte ha provato a offrire soltanto selezionate parti di documenti giudiziari.
E questi sono solo i casi che ho gestito direttamente, ma ce ne sono mille altri in cui l’assenza di controllo sulla filiera delle informazioni avrebbe potuto generare disastri.
Se sai da dove arrivano e quali sono gli interessi della fonte, hai qualche strumento per gestire la cosa e valutare se procedere o meno. E questa esigenza dovrebbe essere avvertita da tutti i giornalisti che non si sentono mere buche delle lettere.
Contropotere o potere?
Wikileaks aggiunge un livello di ambiguità. Non è una testata giornalistica e Assange non è un giornalista, infatti le principali operazioni di diffusione di documenti segreti vengono fatte in partnership con grandi testate internazionali che ad Assange e Wikileaks devono garantire due cose: l’impatto che da solo non potrebbe avere, e la legittimità giornalistica, il mestiere che Assange non ha perché è un hacker, non un giornalista o un editore.
I giornalisti coinvolti nelle operazioni di Wikileaks, almeno pubblicamente, potranno sempre dire di non sapere quale fosse la fonte di Assange e se lui abbia fatto qualcosa di illecito o poco etico per ottenere le informazioni.
La grande reputazione di Assange - garantita dai giornali partner - come attivista per la trasparenza ha contribuito a evitare che anche il pubblico si facesse troppe domande.
Ma in pratica l’inserimento di Assange nella filiera dello scoop ha consentito di ridurre, non di aumentare, la trasparenza e la garanzia per il pubblico che il giornalismo venga usato come contropotere e non come strumento di un qualche potere, peraltro occulto e ambiguo.
Oltre ad aggiungere uno strato di opacità, il contributo di Assange è quello di fare cose che un giornalista non può o non vuole fare per accedere alle informazioni. Tipo commettere reati.
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