La curva dell'attenzione
Da Gaza all'Ucraina, i media faticano a raccontare le crisi internazionali. I fatti vengono sovrastati dalle polemiche domestiche, e agli esperti si chiede solo di confermare opinioni già consolidate
Ogni crisi internazionale accende un interesse improvviso per un luogo e per soggetti che di solito sono alla periferia della mappa dell’attenzione del pubblico e lì sono destinati a tornare al superamento dell’emergenza
Da almeno due anni, nel mondo dei giornali e più in generale in quello dei media si è posta una nuova esigenza: come raccontare le crisi internazionali e in particolare le guerre? Spesso questa domanda viene declinata con un abuso del termine più ricorrente, cioè “come parlare di geopolitica?” E quando?
Manlio Graziano, analista geopolitico di Sciences Po e firma di Appunti, mi ha chiesto di intervenire su questo tema nell’ambito della Summer School del suo Spykman Center, cui hanno partecipato anche diversi abbonati di Appunti nei giorni scorsi.
Provo a rispondere sulla base di quello che ho visto dentro e fuori i giornali italiani, prima da vicedirettore e direttore, poi da indipendente, nel mondo delle newsletter e da editorialista di alcune testate.
Le crisi internazionali e la geopolitica in generale hanno tutte un ingrediente comune, per definizione: riguardano paesi lontani, drammi verso i quali c’è meno empatia che per le vittime di una fuga di gas nel nostro quartiere, geografie e passati in gran parte sconosciuti.
La crisi internazionale, insomma, accende un interesse improvviso per un luogo e per soggetti che di solito sono alla periferia della mappa dell’attenzione del pubblico e lì sono destinati a tornare al superamento dell’emergenza.
Questa è una consapevolezza che è bene non perdere, per rispondere alla domanda di informazione con il contenuto corrispondente. Perché la domanda si evolve nelle varie tappe di una crisi internazionale.
Dal lato dell’offerta, si pone un dilemma che riguarda tutta l’informazione in generale ma diventa più evidente quando si parla di crisi lontane e il cui racconto espone a rischi il cronista: il trade off tra produzione di qualcosa di nuovo e il lavoro di selezione e analisi di quanto già disponibile.
Un inviato di guerra costa centinaia di euro al giorno, a volte migliaia, tra spese di trasferta, assicurazioni, e soprattutto fixer e collaboratori locali. Soltanto in rari casi quell’investimento si ripaga, se si considera il ritorno economico del singolo contenuto.
Può risultare molto più conveniente limitarsi a gestire il flusso dell’informazione prodotto da altri, con traduzioni, sintesi, gerarchizzazione di materiali già disponibili. Questa seconda strategia permette di avere maggiori ritorni sull’investimento, cioè di sfruttare il picco momentaneo di attenzione con un picco di ricavi a cui non corrisponde un picco di costi.
Nella realtà, però, le cose sono più complicate perché la seconda strategia - per quanto più allettante - ha due controindicazioni. Una reputazionale: esclude dalla lista dei media che producono informazione, e quindi nel medio periodo riduce l’attrattività del brand e la sua credibilità, che nel business dei media sono una parte molto rilevante.
La seconda conseguenza è che espone a un rischio molto grande di errori, in particolare di errori dal grande impatto sulla credibilità: l’assenza di personale sul campo, o comunque a contatto con i protagonisti della crisi, riduce la capacità di interpretare immagini, video, ma anche notizie, dichiarazioni, e di riconoscere lo spin e la propaganda.
In un mondo di media sempre più frammentati, sono le dinamiche dal lato della domanda a guidare, non quelle dal lato dell’offerta: i media e in particolare i giornali hanno ancora un potere di agenda setting, ma non tale da cambiare le priorità. Oggi i giornali non riuscirebbero a creare le condizioni per una guerra, come hanno contribuito a fare nel 2003 per legittimare l’attacco americano all’Iraq.
Il ciclo dell’attenzione
Vediamo varie fasi dal punto di vista della domanda di informazione, applicando la griglia all’invasione dell’Ucraina.
Fase 1: Shock
La crisi esplode in un modo che per il pubblico è sempre inaspettato. Nessun evento è ovviamente privo di premesse e di segnali preparatori, ma il loro racconto è confinato al dibattito specialistico, o comunque nei segmenti interessati.
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