Il pallone del capitale
Il calcio non è mai stato innocente, ma uno strumento di chi ha soldi e potere. Oggi si è distaccato dalla sua dimensione fisica e di massa, ed è soltanto immagini e finanza
Il pallone fermo sotto la suola è un flusso di capitale finanziario. Non si muove, eppure viaggia a velocità altissime. È fermo, eppure crea spazio.
Luca Pisapia
Buongiorno a tutte e tutti,
Buongiorno a tutte e tutti,
ieri sono stato a Milano a discutere di semiconduttori, chip, Asml e Nvidia, a breve ne scrivo anche qui, promesso.
Oggi torno a Roma per fare un po’ di altre prove in Rai per Revolution - il mondo cambia ogni giorno, la trasmissione-podcast di Radio3 che parte lunedì.
E’ un po’ strano fare i cosiddetti “numeri zero”, perché un commento ai fatti del giorno ha senso soltanto quando è caldo, vero e va in onda, ma la radio (come i giornali e la tv, del resto) ha delle sue complessità tecniche che vanno affrontate tutte prima di andare in onda.
Anche perché, salvo casi particolari, saremo in diretta, un po’ si prepara, un po’ si improvvisa.
Se volete parlarne, ci vediamo oggi alle 15 sul profilo Instagram di Radio3 per fare il punto, discutere temi e priorità, sentire le vostre idee, e poi le prove in studio.
Intanto, visto che il weekend si avvicina, oggi vi propongo un pezzo di quello che secondo me è il miglior giornalista sportivo italiano. Intendiamoci: di solito il giornalismo sportivo in Italia è poco più che comunicazione istituzionale delle società di calcio (con gli stessi cronisti che seguono le stesse squadre per anni e guai a dare una notizia) o quella sottospecie di letteratura minore che è il racconto dello sport.
Luca Pisapia è un altro genere di giornalista, che guarda allo sport come a una costruzione sociale, attraverso lenti ideologiche (marxiste) spesse e implacabili: il calcio è un prodotto del capitale, un fenomeno da studiare con applicazione, non un divertimento, men che meno un momento per mettere in pausa il cervello per 90 minuti.
Non lo sentivo da anni - come racconta nel pezzo ha lavorato molto come un fantasma editoriale, produttore di contenuti per altri - poi questa estate mi ha mandato da leggere in anteprima un suo libro sul calcio che ho trovato ipnotico. Perché parlava del pallone senza parlare del gioco, ma soltanto delle dinamiche economiche e sociali sottostanti alla sua evoluzione.
Ho chiesto a Luca di condividere un po’ del suo lavoro anche con la comunità di Appunti.
Buona lettura e ci vediamo su Instagram!,
Stefano
Il calcio nella trappola del capitale
di Luca Pisapia
Alla fine tutto accade per caso. Anche il giornalista sportivo, lo faccio per caso. Non avevo mai sognato di fare il giornalista, non mi era mai interessato scrivere, non avevo buoni voti a scuola.
Forse per questo sono riuscito a fare bene questo mestiere. Poi ecco un altro caso. Un amico faceva il ghost writer per un finanziere, e mi chiede se voglio lavorare con lui. E così mentre continuavo a fare il giornalista sportivo ho cominciato a scrivere di economia e finanza.
Non avevo mai pensato di occuparmi di finanza, non mi era mai interessato, sapevo a malapena come funzionava la leva del debito e cosa fossero i derivati. Forse per questo sono riuscito a scrivere buone cose di economia e finanza.
Da più di vent’anni ormai cerco di raccontare il calcio come un fenomeno culturale, al di là di quello che succede in campo. Così, quando ho cominciato a fare il ghost per il finanziere, alla dimensione politica, sociale e culturale del pallone, ho aggiunto quella economica e finanziaria.
E siccome è successo proprio nell’epoca in cui i fondi d’investimento cominciavano a entrare prepotenti nel mondo del calcio – guarda un po’ il caso – mi sono specializzato sempre più in questo ambito.
Arrivati a questo punto era il caso, scusate il gioco di parole, di mettere tutto a frutto, e di scrivere un libro. Sempre cercando di mantenere quello stile che caratterizza il mio modo di guardare al mondo e di raccontarlo
Ne è uscito Fare gol non serve a niente: il pallone nella rete della finanza (Add Editore, 2024) che è un breve, e spero divertente, vagabondaggio nella storia economica del calcio. Comincia nella fornace di un complesso siderurgico sulle rive del Tamigi nel XIX secolo, in piena rivoluzione industriale, quando il pallone era una vescica di maiale.
Si conclude ai giorni nostri, tra grafici che pulsano sugli schermi di un computer in un grattacielo di vetro e acciaio che sorge sulle ceneri del vecchio cantiere marittimo, quando il pallone è oramai diventato un prodotto finanziario. Un flusso immateriale di dati che si muove nei flussi della globalizzazione neoliberale.
Il pallone del capitale
Il punto di partenza è che il pallone non è nato innocente. Fin dall’inizio è stato una merce, una delle più potenti nelle mani del capitale. Infatti, seppur all’inizio non aveva un valore d’uso, aveva fin da subito un valore di scambio potentissimo. Era l’emblema di quel valore spettrale che Marx aveva individuato nel feticismo della merce.
Questo valore si è poi evoluto col tempo, e da almeno mezzo secolo è stato affiancato anche da un vero e proprio valore d’uso, così il calcio è diventato anche una macchina per fare soldi.
Ecco perché, quando il pallone è infine rotolato nella rete della finanza, non è stato rovinato o corrotto. Perché non era innocente fin dall’inizio.
Semplicemente oggi il pallone è diverso, è cambiato. Di nuovo. Essendo una merce, un prodotto, il pallone è mutato innumerevoli volte. Tante quante si sono evoluti, o involuti, i modi di produzione capitalista che di volta in volta lo hanno generato.
Con le lettrici e i lettori di questa newsletter, che sicuramente conoscono l’economia e la finanza meglio di me, voglio quindi condividere l’attacco del penultimo capitolo. In cui racconto l’ultima trasformazione del pallone, ormai smaterializzato in campo e fuori. Se invece desiderate ancora scoprire perché ho scelto questo titolo, e perché fare gol non serve a niente, beh, dovrete leggere l’ultimo capitolo
L’Italian theory
La palla arriva sotto la suola della scarpa. Tutto si ferma. La pausa, come nella musica jazz, non serve soltanto a dare il ritmo del tempo. Crea un nuovo spazio. Il giocatore tiene la palla ferma sotto la suola.
Tutto il resto si muove. I giocatori della squadra avversaria si avvicinano al pallone, non possono fare altrimenti. E così facendo liberano degli spazi sul campo alle loro spalle. Nuove forme geometriche che prima non c’erano.
La palla immobile, ferma sotto la suola del difensore, è la nota mai suonata. È la pausa che produce il movimento incrociato di armonia e melodia. La palla statica crea spazio, contravvenendo a tutti i princìpi della fisica. E della musica. Allora il giocatore può alzare la suola della scarpa, e libera il pallone. Gli avversari intanto si sono sbilanciati in avanti, hanno aperto nuovi spazi, ne hanno creati di altri. Ora il pallone ha di fronte a sé l’infinito. Può partire il contropiede statico, il contropiede di possesso. Il pressing da fermo.
Nelle parole di Roberto De Zerbi, ex allenatore del Brighton & Hove Albion Football Club, questi sono i princìpi del nuovo calcio posizionale. L’Italian Theory del pallone è la nuova frontiera del calcio, lo ha riconosciuto anche Josep Guardiola i Sala, detto Pep, inventore del calcio posizionale, allievo di Marinus Jacobus Hendricus Michels e maestro di De Zerbi.
L’Italian Theory del pallone è anche la rappresentazione della nuova ragione del mondo. Il pallone fermo sotto la suola è un flusso di capitale finanziario. Non si muove, eppure viaggia a velocità altissime. È fermo, eppure crea spazio. Rimane immobile, eppure attraverso i cavi della fibra ottica o le trasmissioni satellitari è ovunque, e provoca a sua volta il movimento di altri flussi di capitale in tutto il pianeta.
L’Italian Theory di De Zerbi è l’ultima rivoluzione biopolitica del calcio nell’epoca dei nuovi dispositivi tecnologici e dei fondi di investimento.
Questo nuovo calcio non può essere apprezzato dal vivo, deve essere compulsato in televisione, o ancora meglio sugli altri apparecchi elettronici che producono immagini. Allo stadio non ci va più nessuno.
La capienza degli impianti si è dimezzata, dove prima andavano centomila persone ora ne entrano la metà. I prezzi sono oramai altissimi.
Il nuovo stadio è un centro commerciale iper controllato dall’occhio vigile delle telecamere di sorveglianza, un falò delle vanità da esibire all’occhio spento delle telecamere e dei social network.
Il nuovo pubblico diserta le gradinate e abita gli hospitality box dove discute di affari, firma contratti, mangia aragoste, sorseggia bollicine. Se deve proprio guardare la partita, tra una fusione societaria e l’altra, lo fa sullo schermo a settantadue pollici appeso alla parete, sul tablet o sullo smartphone ultratecnologico appoggiato sul tavolo di cristallo. Mai e poi mai dall’immensa vetrata inutilmente affacciata sul verde scintillante del manto erboso.
Perché questo nuovo calcio non può essere apprezzato dal vivo. Come la ridondanza delle telecomunicazioni multiple satellitari su cui viaggiano i flussi immateriali del capitale, anche il pallone non è più comprensibile all’occhio umano.
Il capitalismo delle immagini
Questo nuovo calcio per essere compreso necessita di continue interruzioni, replay, lavagne visuali, linee, frecce, grafici, diagrammi, scomposizioni e ricomposizioni geometriche. È il calcio dei big data e degli algoritmi.
Nell’Italian Theory del pallone che l’allievo De Zerbi ha mutuato dal maestro Guardiola siamo oltre il general intellect postfordista del calcio totale di Rinus Michels e Bill Shankly. Siamo oltre l’infinita replica postmoderna e televisiva del calcio ossessivo di Arrigo Sacchi. Siamo nel calcio dell’era dell’informazione saturata, dove una mole infinita di dati e di immagini si accumula per raccontare tutto. E non racconta nulla.
Siamo nell’epoca storica in cui piattaforme dell’industria culturale come Amazon, Alphabet (leggi Google), Apple, Microsoft, Meta e Netflix, da sole valgono quanto il prodotto interno lordo dell’Unione europea.
Le Big Tech, le multinazionali della logistica dei dati e dell’informazione tecnologica, hanno sostituito le grandi industrie del petrolio e delle energie fossili nel dominio incontrastato del pianeta.
Il nuovo capitalismo non estrae plusvalore dalle materie prime, ma dalle immagini che l’essere umano produce in continuazione sotto forma di sogni, bisogni e desideri. Quelle immagini che abitano il nostro inconscio nel momento in cui si trasformano in linguaggio e quelle immagini che comunichiamo all’esterno e riceviamo dall’esterno sotto forma di o attraverso il linguaggio.
E se l’algoritmo è la nuova macchina a vapore che affatica il corpo e la mente dell’umanità, l’immagine estratta dall’algoritmo è la protagonista assoluta del nuovo alfabeto finanziario del tardo capitalismo. Ma questa immagine, abitando l’inconscio, non può essere osservata dal vivo e quindi non può essere compresa come tale. Necessita di strumenti appositi.
Per questo Roberto De Zerbi e i suoi collaboratori non guardano la partita dal vivo. Non la capiscono, nemmeno loro possono comprenderla. Analizzano la partita, le azioni, i movimenti, gli spazi liberi e quelli occupati, sugli schermi dei dispositivi tecnologici. Le nuove protesi esterne del nostro cervello umano, uniche in grado di recepire le immagini esistenti e di crearne di nuove. E su questi dispositivi la riproducono infinite volte.
Usano griglie, diagrammi, colonne, linee, frecce, replay, ingrandimenti, si votano alla sacra adorazione dell’algoritmo che compone e scompone le immagini per loro. La stessa cosa che facciamo noi ogni giorno sugli schermi attraverso cui lavoriamo, chiacchieriamo, guardiamo, giochiamo, interagiamo, amiamo.
La realtà non esiste più, accade altrove, nell’algoritmo, nel cuore del dispositivo che ha sostituito il cervello. La realtà si configura sempre più come un accidente nella società dello spettacolo. Una società in cui l’accumulazione di capitale avviene oramai solo tramite l’estrazione di plusvalore da immagini replicabili all’infinito prodotte dall’inconscio di un essere umano. O dall’inconscio di un pallone.
Il calcio abbatte la quarta parete, squarcia la realtà di cui non siamo più padroni, e ci svela il mistero di Debord quando sosteneva che lo spettacolo è capitale accumulato fino a diventare immagine. Non siamo più nella società dell’informazione, benvenuti nella società dello spettacolo.
Tutto è dei fondi
Le società di gestione patrimoniale e i fondi finanziari che prima abbiamo visto piano piano impadronirsi di tutte le squadre, attraverso acquisizioni dirette, partecipazioni di minoranza o prestiti a tassi d’interesse altissimi, sono nel frattempo entrate anche nel business televisivo. Quelli che per comodità chiameremo ancora diritti televisivi sono in realtà diritti di ripresa, confezionamento, distribuzione e riproduzione delle immagini.
Dapprima il Dalian Wanda Group, il conglomerato cinese che nel 2015 compra per 56 milioni di dollari il 20 per cento delle quote dell’Atlético de Madrid. Lo stesso anno rileva dal fondo di private equity Bridgepoint Capital il 100 per cento di Infront Sports & Media, allora la più importante società di intermediazione nei diritti televisivi e commerciali del calcio europeo. Una società che per anni ha fatto il bello e il cattivo tempo nella Serie A italiana, arrivando a decidere, attraverso l’acquisto e la redistribuzione dei diritti tv, addirittura la composizione degli organi federali che governano il pallone.
Nel 2016 sono altre due società cinesi, Everbright Securities and Beijing Baofeng Technology, ad acquistare il 65 per cento di mp & Silva, la storica rivale di Infront. Ma Bridgepoint Capital dopo avere venduto Infront Sports & Media non si allontana dal calcio. Anzi, insieme al fondo britannico di private equity Cvc Capital Partners prova a comprare, anticipando i soldi per coprire i debiti, i diritti televisivi futuri della Bundesliga e della Serie A.
Ma i due fondi alzano ancora di più l’asticella e si propongono di comprare l’intera Serie A, ricevendo in cambio come garanzia la futura gestione dei diritti tv. Fallito l’assalto alla Serie A, per ora, alla fine nel 2021 Cvc Capital Partners acquisisce per circa 2 miliardi di euro l’8,2 per cento di una società creata ad hoc insieme alla Liga spagnola per la gestione dei diritti televisivi dei prossimi cinquant’anni.
E nel 2022 fa la stessa cosa in Francia, dove, con 1,5 miliardi di euro, si prende il 13 per cento della nuova compagnia creata con Ligue 1 e Ligue 2. In entrambe le trattative sopravanza di qualche centinaia di migliaia di euro le offerte di Oaktree Capital Management e Silver Lake Technology Management. Esattamente loro.
I due fondi che già hanno investito nei più importanti club calcistici europei. Il primo è diventato addirittura il proprietario dell’Inter. Ma non è finita qui, perché nell’estate del 2024, quando vanno deserte le aste per la vendita dei diritti tv del calcio francese, è di nuovo Cvc Capital Partners a intervenire.
Già proprietario della società che gestisce la compravendita dei diritti di riproduzione delle loro immagini, il fondo di private equity si propone di prestare i soldi a quei club francesi che rischiano il fallimento. E lo rischiano proprio a causa i mancati introiti di quei diritti tv su cui avevano fatto affidamento, pur non avendoli ancora nelle proprie disponibilità. Il serpente raggiunge la sua coda. Il doppio cerchio che simboleggia l’infinito si sigilla.
La questione dei diritti di riproduzione delle immagini è dirimente.
Oggi gli introiti provenienti da questi incidono per oltre il 50 per cento sui bilanci delle società di calcio. Spesso arrivano al 60 per cento o all’80 per cento. Secondo il report The European Club Finance and Investment Landscape, pubblicato nel febbraio 2024 dalla Uefa, dai diritti tv nella stagione 2022-23 i club europei si sono divisi 8 miliardi di euro.
In particolare la Premier League ne ha ricevuti 3, la Liga spagnola 1,5, la Bundesliga tedesca e la Serie A un miliardo, mentre la Ligue 1 francese si è fermata a 500 milioni. Una crescita media che la Uefa stima nell’ordine del 15 per cento circa rispetto al 2019, e del 50 per cento circa rispetto a dieci anni fa.
La stessa Uefa prevede, per la stagione 2025-26, un’ulteriore crescita del 10 per cento rispetto alla stagione 2022-23. Una nuova pioggia di soldi che arriva dagli elicotteri di Apocalypse Now, ovvero dagli stessi fondi d’investimento che sono proprietari dei club che questi soldi ricevono.
Il pallone è precipitato nel meccanismo circolare della finanza, per cui uno stesso player muove dei soldi che non ci sono attraverso società che non gli appartengono, e così facendo accumula capitale inesistente.
Il pallone è imprigionato sotto la suola dell’Italian Theory di De Zerbi. Non si muove, eppure viaggia a velocità altissime. È fermo, eppure crea spazio. Il pallone ha imparato che nel tardo capitalismo la voragine del debito può essere riempita solo con altro debito. E lo spettacolo delle immagini serve anche a questo.