Cose da sapere sulle elezioni americane
Se avete letto tutto, o se non avete letto niente, ecco un distillato delle analisi degli esperti dell’Institute for European Policymaking della Bocconi
L'esito delle elezioni americane può avere un impatto sul destino dell'Europa in molti modi. La maggior parte di essi è negativa. Uno, forse positivo, sarà quello di costringere gli europei a ripensare alla propria storia di massacri fratricidi e ad assumersi le proprie responsabilità di fronte alle prossime generazioni forgiando, di nuovo, una sicurezza condivisa, duratura e pacifica
Andrea Colli
Buongiorno a tutte e tutti,
si avvicinano le elezioni americane, chi è interessato ha seguito per mesi la campagna elettorale più piena di colpi di scena di sempre, chi ha avuto altro a cui pensare ora si trova sommerso di informazioni e analisi nelle quali non riesce bene a orientarsi.
Spero quindi di fare qualcosa di utile nel condividere un distillato di un lavoro che abbiamo fatto con l’Institute for European Policymaking della Bocconi (IEP@BU).
Nei giorni scorsi, il sito della Bocconi ha pubblicato un focus curato da ricercatori IEP@BU che discutono alcuni aspetti particolarmente rilevanti del voto americano.
Vi pubblico qui alcuni estratti degli articoli e i link all’originale, se volete approfondire.
Se volete seguire la notte elettorale, c’è un bell’evento - in presenza e da remoto - proprio della Bocconi al quale parteciperò anche io. Trovate tutte le info qui.
Vi aspetto poi all’evento di analisi del risultato, giovedì 7 novembre alle 18, come sempre all’Egea di Milano, per un nuovo “dibattito di geopolitica”.
Discuteremo delle elezioni e delle conseguenze sull’Unione europea con Franco Bruni (IEP@BU e ISPI), Gianluca Passarelli (Sapienza University), Graziella Romeo (IEP@BU), Majda Ruge (ECFR), Thomas J. Schoenbaum (University of Washington in Seattle). Io sarò il moderatore.
Per info e registrarvi c’è questo link.
Buona lettura e buon weekend pre-elettorale,
Stefano
La posta in gioco per l’Occidente
di Andrea Colli
Lo “stallo della Guerra Fredda”, durato più di quattro decenni, seguito da altri dieci-quindici anni di dominio unipolare degli Stati Uniti, ha forgiato un potere geoeconomico unico, basato più sulla reciproca convenienza economica che sulla sicurezza e sulla centralità politica. Anche l'ultima ondata di adesioni all'Unione è stata motivata da ragioni economiche, non da preoccupazioni di sicurezza.
I problemi di sicurezza, tuttavia, sono rientrati prepotentemente nello scenario globale negli ultimi due decenni, caratterizzati dal riemergere della competizione tra grandi potenze.
L'Europa si scopre ora poco preparata a fronteggiare le asperità di un mondo in preda a un disordine multipolare, preoccupantemente simile a quello che ha caratterizzato i primi decenni del ventesimo secolo. In questo quadro, lo scenario peggiore è quello in cui l'UE sarà sola (come detto all'inizio, tutt'altro che improbabile, chiunque sarà il prossimo comandante in capo degli Stati Uniti), ma soprattutto allo sbando e molto probabilmente tornerà presto al suo passato violento.
L'esito delle elezioni americane può avere un impatto sul destino dell'Europa in molti modi. La maggior parte di essi è negativa. Uno, forse positivo, sarà quello di costringere gli europei a ripensare alla propria storia di massacri fratricidi e ad assumersi le proprie responsabilità di fronte alle prossime generazioni forgiando, di nuovo, una sicurezza condivisa, duratura e pacifica.
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Il miglior presidente che i soldi possono comprare?
di Nilanjana Dutt
È famosa la frase di Mark Twain a proposito delle elezioni statunitensi: "Abbiamo il miglior governo che i soldi possano comprare." Questo vale anche per il Presidente? E quanto di questo denaro proviene dalle aziende? Ad aprile, nelle elezioni statunitensi del 2024, la spesa per le campagne elettorali ha raggiunto quasi 8,6 miliardi di dollari, di cui 5,6 miliardi provenienti dai comitati di azione politica (PAC). Questi PAC spesso includono donazioni da parte di lobbisti.
Utilizzando i dati della Federal Election Commission, possiamo anche tracciare le spese dei singoli candidati. I candidati hanno speso 1,1 miliardi di dollari, mentre i comitati di partito hanno distribuito 545,8 milioni di dollari. Alla fine di agosto 2024, il presidente Joe Biden aveva raccolto oltre 690 milioni di dollari; la vicepresidente Kamala Harris aveva raccolto 630 milioni di dollari; Donald Trump aveva raccolto 313 milioni di dollari.
Questo mostra che le campagne presidenziali sono sempre più costose e fortemente influenzate da interessi organizzati, inclusi i lobbisti che contribuiscono attraverso PAC e altri canali.
Sebbene i presidenti statunitensi si presentino spesso come indipendenti dai gruppi di interesse politico, una ricerca del professor David Ryan Miller dell'American University mostra che essi interagiscono con lobbisti e gruppi di interesse, spesso avviando questi incontri quando c'è un vantaggio politico, come il supporto legislativo o la mobilitazione pubblica.
Utilizzando i registri dei visitatori delle amministrazioni Clinton e Obama, insieme ai dati sulle spese di lobbying, il professor Miller ha indagato quali gruppi ottengono accesso al Presidente o ai consiglieri senior.
Sebbene possano essere coinvolti sia gruppi con risorse sia gruppi con meno risorse, la Casa Bianca favorisce quelli che si allineano con l'agenda del Presidente e che dispongono di risorse significative, come competenze o fondi per le campagne.
È quindi chiaro che, sia durante la campagna che una volta in carica, i Presidenti statunitensi cercano tipicamente interazioni con partner ricchi di risorse.
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Quanto conta la demografia?
di Arnstein Aassve
Per Kamala Harris, la demografia degli Stati Uniti gioca a favore. Sebbene la popolazione degli Stati Uniti e il suo elettorato siano invecchiati nel tempo, la distribuzione dell'età negli USA è molto diversa dalla maggior parte dei paesi europei: gli Stati Uniti hanno una popolazione notevolmente più giovane.
Questo risulta evidente confrontando la piramide delle età degli Stati Uniti con quella dell'Italia, entrambe rappresentative della loro struttura demografica per il 2024 (Fonte: Census.gov).
La differenza chiave è che i tassi di fertilità negli Stati Uniti sono rimasti significativamente più alti rispetto alla maggior parte degli altri paesi OCSE negli ultimi 30 anni, il che significa che gli Stati Uniti non hanno ancora sperimentato l'invecchiamento che si osserva in molti paesi europei.
Come emerge chiaramente da queste piramidi delle età, in Italia, un politico accorto non avrebbe grande incentivo a puntare sugli elettori giovani: ce ne sono semplicemente troppo pochi.
Le piramidi delle età degli Stati chiave in bilico mostrano anche un'abbondanza di potenziali giovani elettori. In Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, l'età mediana è intorno ai 40 anni, mentre in Carolina del Nord è di 39,4 e in Arizona è leggermente più giovane a 38,9.
C'è solo un problema: i giovani sono quelli che meno probabilmente andranno a votare!
Secondo Pew Research, gli elettori tra i 18 e i 29 anni mostrano costantemente una partecipazione elettorale inferiore rispetto ai gruppi di età più avanzata.
Infatti, guardando alle elezioni precedenti, la partecipazione al voto tra i 18-29enni è stata appena superiore al 40%, mentre tra il gruppo di età 45-59 anni è stata intorno al 60%. Importante, questo ultimo gruppo è molto più propenso a votare repubblicano. Tuttavia, ci sono alcuni segnali positivi: nelle elezioni del 2020, circa il 55% dei giovani tra i 18 e i 29 anni ha votato. È un aumento rispetto agli anni precedenti (era del 44% nel 2016).
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Lo stile paranoico
di Graziella Romeo
“La politica americana è stata spesso un'arena per menti arrabbiate”, scriveva lo storico Richard Hofstadter sull'Harper's Magazine nel novembre 1964. Il suo saggio, “Lo stile paranoico nella politica americana”, esplorava un fenomeno ricorrente: la tendenza a costruire visioni paranoiche, individuando un nemico nefasto che tramava per minare l'ideale americano.
Hofstadter lo descrive come una postura psicologica - un sospetto esagerato e una fantasia cospiratoria - non una follia psichiatrica, ma un modo di pensare abbracciato da individui altrimenti sani.
Questo stile paranoico, visibile nella campagna presidenziale di Barry Goldwater del 1964, ha acquisito una rinnovata rilevanza nell'era di Donald Trump, dove la vita politica è nuovamente guidata da paure profonde e retorica estremista.
Le intuizioni di Hofstadter, inizialmente legate alla retorica incendiaria di Goldwater, risuonano fortemente con il clima politico odierno.
Negli anni Sessanta, Goldwater alimentò le paure di un Paese in pericolo, legittimando misure estreme per preservare la libertà. Dichiarò: “L'estremismo nella difesa della libertà non è un vizio”.
Arriviamo all'era Trump e troviamo una retorica simile, che inquadra gli avversari politici non solo come rivali, ma come minacce esistenziali ai valori americani. Lo stile comunicativo di Trump ha alimentato l'idea che l'identità e il futuro del Paese fossero in gioco, portando a esiti pericolosi, come la violenta insurrezione del 6 gennaio 2021.
La rivolta del Campidoglio è stata una chiara manifestazione dello stile paranoico della politica americana moderna. Una folla, convinta che le elezioni fossero state rubate, ha preso d'assalto il Campidoglio in un violento tentativo di rovesciare i risultati, minacciando la transizione pacifica del potere, uno dei cardini della democrazia costituzionale.
Questo evento ha ricordato agli europei che la retorica politica può portare alla violenza nel mondo reale.
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La gestione della sicurezza
di Chiara Graziani
Uno dei primissimi problemi che l'amministrazione Biden ha dovuto affrontare è stato l'attacco al Campidoglio, avvenuto il 6 gennaio 2021 e classificato come vero e proprio atto di terrorismo, al punto da portare a un impeachment (poi archiviato) dell'allora presidente Donald Trump e alla condanna penale di diversi rivoltosi.
Durante i primi due anni della presidenza di Biden, il tema del terrorismo domestico è stato preso sul serio, come dimostrato dal fatto che è diventato il primo presidente statunitense a pubblicare una Strategia Nazionale per Contrastare il Terrorismo Interno nel 2021.
Per attuare questa strategia, tra il 2021 e il 2022 sono stati introdotti diversi disegni di legge al Congresso.
Un esempio notevole è il Domestic Terrorism Prevention Act, che mirava ad ampliare i poteri di varie agenzie federali per frenare l'aumento dell'estremismo domestico. A queste agenzie sarebbero stati concessi nuovi poteri di sorveglianza più invasivi per affrontare meglio la crescente minaccia.
Tuttavia, osservando l'iter di questi disegni di legge, vediamo che – tra il 2023 e il 2024 – sono stati abbandonati o, come il progetto di legge del Domestic Terrorism Prevention Act, sono rimasti bloccati al Congresso, ostacolati dai membri del partito repubblicano. Di conseguenza, l'attivismo iniziale dell'amministrazione Biden in questo ambito non ha trovato un'applicazione pratica nelle norme legali.
Durante l'attuale campagna elettorale, i candidati repubblicani non hanno perso l'occasione di criticare aspramente questo tema, accusando i democratici di fingere di essere proattivi. Questa critica è alquanto paradossale, dato che molti sostenitori di Trump sono stati etichettati come "terroristi" durante gli attacchi al Campidoglio.
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Perché il populismo funziona?
di Massimo Morelli
Sebbene l'elezione di Trump possa esacerbare il populismo negli Stati Uniti e in Europa, è fondamentale riconoscere che il populismo non è limitato alla leadership di Trump.
Come ho dimostrato insieme a Gloria Gennaro e Giampaolo Lecce in un recente articolo, negli Stati Uniti la retorica populista è usata strategicamente da candidati outsider, in particolare nelle elezioni più competitive e nelle regioni che devono affrontare l'insicurezza economica.
Questa tattica mobilita gli elettori disillusi, ma rischia di alienare i sostenitori di base nei distretti meno competitivi.
Il populismo non è solo una posizione ideologica o un riflesso della domanda degli elettori, ma uno strumento calcolato per massimizzare il successo elettorale in determinate condizioni. La ricerca sottolinea l'adattabilità del populismo nelle campagne politiche, in quanto i candidati modificano le loro strategie in base a fattori economici e politici locali.
Nella campagna per le presidenziali del 2024, persino Kamala Harris ha adottato una retorica più populista, in particolare su questioni economiche che risuonano con la classe operaia.
In un comizio elettorale in North Carolina, Harris ha inquadrato le elezioni come una battaglia per il futuro dell'America, affrontando temi come la disuguaglianza economica, la giustizia sociale e la tutela della democrazia, ma si è posizionata come underdog, inquadrando le elezioni come una battaglia per il futuro dell'America. Il messaggio “underdog”, insieme alla sua retorica incentrata sulle persone, ha colpito gli elettori.
È interessante notare che in un comizio simile a Filadelfia, il tono populista di Harris è stato meno intenso, illustrando come i candidati adattino la retorica populista in base alle dinamiche regionali. Come previsto dal nostro modello, è più probabile che un candidato presidenziale adotti un approccio più populista in uno swing state, come dovrebbe essere il North Carolina.
La minaccia più ampia del populismo non è esclusiva di Trump o di un singolo Paese. Il suo uso strategico da parte di politici in cerca di guadagni elettorali, soprattutto inquadrando la narrazione come una lotta tra il “popolo virtuoso” e l'“élite corrotta”, fa leva sul malcontento economico e sociale.
Questa strategia, pur essendo efficace nelle sfide competitive, rischia di approfondire la polarizzazione e di minare le istituzioni democratiche, privilegiando le vittorie elettorali a breve termine rispetto alla stabilità a lungo termine. Anche in ambienti democratici come gli Stati Uniti, l'uso pervasivo del populismo mette a dura prova la tenuta della governance democratica.
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Cosa ci aspetta con Harris o Trump II sul commercio
di Gianmarco Ottaviano
Quali aspetti allora potranno differenziare una presidenza Harris da una seconda amministrazione Trump?
Principalmente tre. Primo, la riduzione della dipendenza dalle importazioni cinesi continuerà a essere un obiettivo imprescindibile della politica commerciale americana.
Tuttavia, mentre per Trump si perseguirà il "decoupling" (cioè la separazione completa tra economia cinese e americana), per Harris si punterà al “de-risking” (cioè una separazione selettiva a seconda della criticità dei prodotti).
Secondo aspetto, collegato al primo, le misure di Trump avranno una maggiore connotazione geografica come quelle volte a colpire la Cina per ridurre un disavanzo commerciale bilaterale visto quale risultato di una concorrenza sleale e fattore di rischio per la sicurezza nazionale.
Diversamente, sulla scia di Biden, le misure di Harris avranno una maggiore connotazione settoriale, mirata a garantire l’autonomia strategica rispetto a prodotti ritenuti cruciali.
Terzo aspetto, per ridurre la dipendenza dalle importazioni di tali prodotti dalla Cina, Harris darà seguito agli sforzi multilaterali dell’attuale amministrazione volti a rafforzare i rapporti commerciali con gli altri paesi asiatici, come la US-Taiwan Initiative on 21st Century Trade del 2023 e l’Indo-Pacific Economic Framework (IPEF), lanciato nel 2022 ma ancora in fase di sviluppo.
Da Trump ci si può aspettare invece il ritorno della diplomazia americana ad un approccio opportunisticamente bilaterale, se non ciecamente unilaterale come nel caso del vagheggiato “dazio universale” del 10-20%, da imporre su tutte le merci importate indipendentemente dal paese di origine per contenere il disavanzo commerciale che gli Stati Uniti hanno non solo nei confronti della Cina.
Di fronte a questi scenari alternativi, l’Europa sarà chiamata a fare una scelta difficile tra inseguire il protezionismo degli Stati Uniti o sfruttare gli spazi diplomatici e economici che l’isolazionismo americano potrebbe aprire.
Se Trump sarà presidente, la seconda opzione sarà più appetibile data l’inutilità di inseguire chi va ostinatamente per conto suo.
Se invece la presidenza andrà a Harris, la scelta più opportuna per l’Europa potrebbe essere quella di sfruttare le sinergie con gli Stati Uniti, rese possibili dal loro approccio multilaterale, per perseguire in parallelo il proprio “de-risking”.
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Quanto conta la politica monetaria nelle urne?
di Franco Bruni
In che rapporto sta questo successo della Fed con le prospettive delle elezioni presidenziali?
Ci si può chiedere, innanzitutto, se l’apparente vittoria sull’inflazione e l’avvio del ribasso dei tassi, favoriranno nelle urne il partito del presidente Biden. La domanda si è diffusa quando la Fed, dopo aver resistito a lungo a richieste di ribassi che giudicava prematuri, li ha abbassati di colpo di 50 punti, due volte la variazione normalmente attesa, proprio quando la competizione per la Casa Bianca si è accentuata.
Il presidente Jerome Powell ha risposto in modo ovviamente drastico a chi avanzava sospetti di parzialità partitica e ha giustificato in vario modo la forza della mossa, anche col fatto che da tempo i tassi erano rimasti molto alti con l’inflazione in netto calo.
Dopo aver battuto abbastanza rapidamente l’inflazione con una manovra acrobatica e impopolare, perdere nuovamente credibilità cedendo a parzialità partitiche sarebbe illogico.
Oltretutto, il mandato di Powell, che ha tendenze Repubblicane ma è stato riconfermato dal presidente Joe Biden, scade nel 2026, non ha prospettive di terzo mandato e non teme certo che una Kamala Harris vincitrice lo sospenda anzitempo perché non ha abbassato abbastanza i tassi.
Casomai potrebbe temere di esser licenziato da Donald Trump, proprio per aver celebrato, con il ribasso dei tassi, la vittoria sull’inflazione durante la campagna elettorale.
Escludendo la partitizzazione delle decisioni della Fed, rimane la domanda se il suo successo con l’inflazione, senza grandi sacrifici di crescita e occupazione, favorirà i democratici.
Alcuni certamente apprezzeranno l’assenza di significative interferenze di Biden nella dura manovra restrittiva e il vantaggio che ne viene all’economia, ma si tratterà di un elettorato limitato e più sofisticato della gran parte degli elettori. Per i quali conterà di più il fatto che i prezzi si sono alzati molto che non quello che hanno rallentato la crescita.
Il grave episodio inflazionistico, anche se interrotto, ha lasciato il segno pesante di un costo della vita molto cresciuto e di costi dell’abitare proibitivi per molti strati sociali in diverse aree del Paese. L’occupazione è elevata ma spesso precaria e i salari, nonostante alcuni notevoli recuperi del potere d’acquisto durante la discesa dell’inflazione, bassi e diseguali.
La distribuzione del reddito e della ricchezza è molto diseguale e la povertà forte e diffusa. Sicurezza, atteggiamenti verso e istituzioni democratiche, migrazioni, rivalità con la Cina, sanità, guerra-o-pace in Medio Oriente e Ucraina: presumibilmente saranno questioni più importanti dell’inflazione e dei tassi di interesse nell’orientare i voti.
È però certo che, chiunque sarà alla Casa Bianca, economia e finanza saranno importanti nel consenso politico dei prossimi anni. In particolare, fra i problemi che paiono sottovalutati nel dibattito pre-elettorale ma che finiranno per imporsi all’attenzione, ne indicherei due: il bilancio e il debito pubblico ed estero degli Usa e la fragilità dei comparti non bancari del sistema finanziario del Paese.
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Geopolitica americana: la lezione di Manlio Graziano
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